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Narra il tentativo del profeta Zarathustra di donare agli uomini la sapienza cumulata in anni di riflessione solitaria il cui tema dominante è rappresentato dalla ribellione alla cultura e alla morale dominanti e la visione della vita come forza indomabile e della volontà come strumento di affermazione. Libro in lingua originale tedesca con traduzione in italiano.
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Friedrich Nietzsche, Also Sprach Zarathustra
Originally published in German
ISBN 978-88-97572-88-6
Collana: EVERGREEN
© 2014 KITABU S.r.l.s.
Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano
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Ti auguriamo una buona lettura.
Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio
1.
Giunto a trent'anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago natio, e si ritirò sui monti. Là, per dieci anni, senza stancarsi, godette del suo spirito e della sua solitudine. Ma alla fine il suo cuore mutò, e un giorno si alzò con l'aurora, avanzò verso il sole e così gli parlo:
"O astro grande! Cosa sarebbe mai la tua gioia se non vi fossero coloro che tu illumini!
Per dieci anni sei venuto quaggiù nella mia caverna: e certamente ti sarebbero divenuti noiosi la tua luce e il tuo percorso senza di me, la mia aquila e il mio serpente.
Ma noi ti aspettavamo tutte le mattine, tu ci davi la tua ricchezza e ne ricevevi in cambio le nostre benedizioni.
Vedi! Sono nauseato della mia saggezza, come l'ape che ha fatto troppa provvista di miele; ho bisogno di mani che si tendano verso di me.
Io vorrei denaro da elargire, finché i saggi tra gli uomini si rallegrassero di nuovo della loro follia e i poveri della loro ricchezza.
Per giungere a questo debbo discendere: come fai tu, quando a sera tramonti dietro il mare e porti la tua luce nel regno dei morti, tu, astro pieno di ricchezza e di vita!
Io debbo, come te, tramontare, come dicono gli uomini, verso i quali io voglio discendere.
Perciò benedicimi, occhio tranquillo, che puoi contemplare senza invidia anche una gioia troppo grande!
Benedici il calice che vuol traboccare, finché ne scaturisca l'acqua dorata che porti ovunque il riflesso della tua gioia!
Guarda: il calice vuole di nuovo vuotarsi, e Zarathustra vuole di nuovo essere uomo."
Così cominciò la discesa di Zarathustra.
2.
Zarathustra scese da solo dalla montagna e non incontrò nessuno. Ma quando giunse nella foresta, improvvisamente si imbatté in un vecchio, che aveva lasciato la sua capanna per cercare radici nella foresta. E così il vecchio parlò a Zarathustra:
"Non mi è nuovo, questo viandante: molti anni fa passò di qui; ma ora egli è mutato.
Allora portavi la tua cenere sulla montagna: ora vuoi forse portare il tuo fuoco nella valle? Non hai timore del castigo che attende gli incendiari?
Sì, io riconosco Zarathustra. Puro è il suo sguardo, e nella sua bocca non si annida alcun ribrezzo. Non avanza egli come un danzatore?
Zarathustra è cambiato, Zarathustra è divenuto un bambino, Zarathustra si è svegliato: cosa vuoi tu fare con gli addormentati?
Come in mezzo al mare tu vivevi in solitudine, e il mare ti portava sul suo seno. Ahimè, ora vuoi tu scendere a terra? Vuoi tu trascinare il tuo corpo da te stesso?"
Zarathustra rispose: "Io amo gli uomini."
"Qual è la ragione" disse il santo "per cui mi sono ritirato nella foresta e in solitudine? Non è, forse, perché anch'io ho amato troppo gli uomini?
Ma ora io amo Dio: non amo più gli uomini. L'uomo è cosa troppo imperfetta per me. L'amore degli uomini mi ucciderebbe."
Zarathustra rispose: "Ma io non parlavo d'amore! Io porto un regalo agli uomini."
"Non dar loro nulla," disse il santo "togli piuttosto loro qualcosa e portala via con loro; sarà la cosa migliore che potrai loro fare: purché faccia del bene anche a te!
E se vuoi dar loro qualcosa, non dar più di un'elemosina, e attendi che ti invochino perché tu gliela dia!"
"No," ribatté Zarathustra "io non do elemosine. Non sono abbastanza povero per farlo."
Il santo rise di Zarathustra e replicò: "Allora vedi un po' se accettano i tuoi tesori! Sono diffidenti verso gli eremiti e non credono che la nostra missione sia di distribuire loro doni.
I nostri passi risuonano troppo solitari per le vie. E come quando di notte, stando nei loro letti, sentono un uomo camminare assai prima che il sole sorga, certamente si domandano: dove va quel ladro?
Non recarti tra gli uomini! Rimani nella foresta!
Va' piuttosto tra gli animali! Perché non vuoi tu essere come me, orso tra gli orsi, uccello tra gli uccelli?"
"E che fa mai il santo nella foresta?" chiese Zarathustra.
Il santo rispose: "Compongo canzoni e le canto, e quando compongo canzoni, rido, piango e borbotto fra me stesso. Così innalzo le mie lodi a Dio.
Cantando, piangendo e rimuginando fra me, io lodo quel Dio, che è mio Dio. Ma tu qual regalo ci porti?"
A questo punto Zarathustra salutò il santo e disse:
"Che cosa posso darvi? Lasciatemi andare, piuttosto, prima che vi tolga qualcosa!" Così si separarono l'uno dall'altro, il vecchio e l'uomo, sorridendo come sorridono due fanciulli.
Ma quando Zarathustra fu solo, così parlò al suo cuore: "E mai possibile? Questo vecchio santo nella sua foresta non sa ancora che Dio è morto."
3.
Quando Zarathustra giunse nella più vicina città, situata al confine della foresta, vi trovò molta folla adunata sul mercato: poiché era giunta notizia che un funambolo vi avrebbe dato spettacolo. E Zarathustra così parlò al popolo:
"Io vi annunzio il Superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete voi fatto per superarlo?
Ogni essere sinora ha creato qualcosa sopra se stesso: e voi volete essere il riflusso di questo gran flusso e ritornare alla bestia, anziché superare l'uomo?
Che cosa mai è la scimmia per l'uomo? Una risata, una penosa vergogna. Questo deve essere l'uomo per il Superuomo: una risata, una penosa vergogna.
Finora avete percorso la via che va dal verme all'uomo, e molto è in voi ancora verme. Una volta eravate scimmie, e anche oggi l'uomo è più scimmia di qualunque scimmia.
Chi tuttavia è fra voi il più saggio, non è che un essere disarmonico, un ibrido fra la pianta e il fantasma. Vi dico io forse di divenire piante o fantasmi?
Ascoltate, io vi insegno il Superuomo!
Il Supenuomo è il senso della terra. E così il vostro volere dica: il Superuomo deve essere il senso della terra!
Vi imploro, o miei fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Sono degli avvelenatori, consapevoli o meno: Sono spregiatori della vita, gente che sta morendo, avvelenati essi stessi da se stessi: la terra è stanca di loro: possano per sempre scomparire!
Una volta il crimine contro Dio era il più grande peccato; ma Dio è morto, e con lui sono morti anche i colpevoli di quel crimine. Oggi la colpa più orribile è peccare contro la terra, e tenere in più alto pregio le viscere dell'impenetrabile che, il senso della terra!
Una volta l'anima guardava con dispregio il corpo: e questo dispregio era il più alto valore: essa lo voleva magro, orrido, affamato. Così immaginava di sfuggire al corpo e alla terra.
Ahimè, era l'anima stessa che era magra, orrida, affamata: e la crudeltà era la sua voluttà!
Ma anche voi, fratelli miei, ditemi: che dice il vostro corpo della vostra anima? Non è essa meschinità e sozzura e tristo piacere?
L'uomo è veramente un fiume melmoso. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume così sudicio senza rimanerne insudiciati.
Ascoltate, io vi insegno il Superuomo: egli è questo mare, in esso può sprofondare il vostro grande disprezzo.
Qual è la massima esperienza che potete vivere? L'ora del grande disprezzo. L'ora nella quale anche la vostra gioia diventa uno schifo, così la vostra ragione e la vostra virtù.
L'ora nella quale voi dite: ‘Che me ne importa della mia felicità! È una cosa povera e sporca e un misero conforto. Proprio la mia felicità, dovrebbe da sola bastare a giustificare l'esistenza!’
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia ragione! Forse avete fame di sapienza come il leone ha fame del suo cibo? Ma non è che cosa povera e sporca e un misero conforto!'
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia virtù! Essa non è riuscita ancora a farmi immpazzire! Come sono stanco del mio bene e dei mio male! Tutto ciò non è che povero e sporco e un misero conforto!'
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia giustizia! Io non vedo ch'io sia ancora divenuto un carbone ardente. Ma il giusto è un carbone ardente!'
L'ora nella quale voi dite: 'Che me ne importa della mia compassione! Non è compassione la croce alla quale viene inchiodato colui che ama gli uomini? Ma la mia compassione non è una crocefissione'.
Avete già parlato in questo modo? Avete già urlato in questo modo? Ah, se vi avessi udito già gridare in questo modo!
Non il vostro peccato; è la vostra contentezza soddisfatta che grida vendetta al cospetto del cielo, la vostra avarizia stessa che nel vostro peccato grida vendetta al cospetto del cielo!
Dov'è il fulmine che vi abbia lambito con la sua lingua? Dove la follia della quale voi abbiate dovuto essere vaccinati?
Vedete, io vi insegno il Superuomo: egli è questo fulmine, egli è questa follia!"
Quando Zarathustra ebbe parlato così, uno del popolo gridò: "Abbiamo sentito abbastanza parlare del funambolo; fatecelo finalmente vedere!" E tutto il popolo rise di Zarathustra. Ma il funambolo, che credette che il discorso fosse fatto per lui, cominciò a prepararsi.
4.
E Zarathustra vide il popolo e si meravigliò. Allora parlò così:
"L'uomo è una corda, tesa tra l'animale e il Superuomo, una corda sopra un precipizio:
Un pericoloso oltrepassamento, un pericoloso andamento, un pericoloso volgersi indietro, un pericoloso trasalire ed arrestarsi.
Ciò che è grande nell'uomo, è che egli è un ponte e non una mèta: ciò che può venire amato, è che egli è un transito e una catastrofe.
Amo coloro che non sanno vivere, sia pure come decadenti, perché sono coloro che vanno oltre.
Amo i grandi dispregiatori, perché sono i grandi adoratori e le grandi frecce della nostalgia verso l'altra riva.
Amo coloro che non cercano al di là delle stelle una ragione per naufragare e sacrificarsi: ma si sacrificano alla terra, onde far sì che la terra sia un giorno del Superuomo.
Amo colui che vive per riconoscere, e che vuol conoscere, onde far sì che un giorno viva il Superuomo. E così vuole il proprio tramonto.
Amo colui che lavora e scopre, onde costruire la casa del Superuomo, e preparargli il terreno, gli animali e le piante: perché è uno che vuole la propria rovina.
Amo colui che ama la sua virtù: perché la virtù è una volontà di naufragio e una freccia di nostalgia.
Amo colui che non trattiene per sé goccia alcuna di spirito, ma vuole essere interamente lo spirito della sua virtù; perché è uno che avanza come spirito sopra il ponte.
Amo colui che fa della sua virtù la stia inclinazione e il suo destino: perché è uno che a causa della sua virtù vuole e non vuole più vivere.
Amo colui che non vuole avere molte virtù. Una virtù è più virtù di due, perché è maggiormente un nodo a cui si appende un destino.
Amo colui la cui anima si spende generosamente; e non vuole essere ringraziato, e neanche ringrazia: perché è uno che sempre dona e non si preoccupa della propria conservazione.
Amo colui che si vergogna quando il dado della sorte cade in suo favore, e allora chiede a se stesso: sono forse un falso giocatore? Poiché è uno che vuole inabissarsi.
Amo colui che fa precedere le sue azioni da parole d'oro, e sempre mantiene più di quanto promette: perché vuole la sua rovina.
Amo colui che giustifica i posteri ed è un compimento per i trapassati: perché è uno che vuole che il presente lo distrugga.
Io amo colui che maltratta il proprio Dio, perché è uno che ama il suo Dio, e dovrà andare in rovina per l'ira del suo Dio.
Io amo colui la cui anima è profonda anche nella ferita, e può andare a fondo anche per un piccolo evento: perché è uno che passa volentieri sopra il ponte.
Io amo colui la cui anima trabocca, tanto da dimenticare se stesso, e tutte le cose sono in lui: tutte le cose divengono la sua rovina.
Io amo colui che ha libero spirito e libero cuore: così che la sua testa è soltanto un viscere del suo cuore, ma il suo cuore lo sospinge verso l'abisso.
Io amo tutti coloro che sono gocce pesanti che cadono ad una ad una dal nembo oscuro che pende sugli uomini: e annunciano che il fulmine arriva, e come annunciatori vanno verso la loro rovina.
Vedete, io sono un annunciatore del fulmine e una goccia pesante del nembo: ma il fulmine si chiama Superuomo.
5.
Quando Zarathustra ebbe detto queste parole, guardò in faccia di nuovo la gente e tacque. "Eccoli lì," disse al suo cuore "ridono: non mi comprendono, io non sono una bocca adatta per orecchi.
Sarà prima necessario spezzar loro gli orecchi, perché imparino ad udire con gli occhi? Sarà necessario far fracasso come i timpani e i predicatori di penitenze? O credono solo a coloro che balbettano?
Hanno in se qualcosa di cui sono orgogliosi. Ma come la chiamano? Cultura la chiamano che li distinguono dai caprai.
Perciò ascoltano malvolentieri l'espressione di 'disprezzo', indirizzata ad essi. E allora io parlerò al loro orgoglio.
Parlerò loro della cosa più, spregevole di tutte: che è l'ultimo uomo."
E così parlò Zarathustra al popolo:
"È tempo che l'uomo definisca la sua mèta. E tempo che l'uomo pianti il seme della sua più alta speranza.
A ciò il suo terreno è ancora abbastanza ricco. Ma esso diverrà un giorno povero e debole e nessun albero di alto fusto vi crescerà più.
Guai! Viene il tempo nel quale l'uomo non scaglierà più la freccia della sua nostalgia al di là dell'uomo; in cui il crine del suo arco non saprà più vibrare.
Io vi dico che bisogna avere ancora in se stessi il caos, per poter generare una stella danzante. Io vi dico che avete ancora il caos in voi.
Ma guai! Viene il tempo in cui l'uomo non avrà più stelle da generare. Guai! Viene il tempo dell'uomo giunto all'estremo limite della sua spregevolezza, che non saprà più neanche disprezzarsi.
Ecco! Io vi mostro l'ultimo uomo.
Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è nostalgia? Che cosa è stella? Così chiede l'ultimo uomo e ammicca.
La terra allora sarà divenuta piccola, e su di lei andrà saltellando l'ultimo uomo, che renderà tutto piccino. La sua schiatta è indistruttibile come la pulce di terra; l'ultimo uomo è quello che vive più a lungo di tutti.
Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.
Hanno abbandonato le regioni dove era duro vivere: perché c'è bisogno di calore. Si ama ancora il prossimo e ci si strofina a lui: perché c'è bisogno di calore.
Ammalarsi e diffidare è per essi peccato: e si va avanti guardinghi. Pazzo chi ancora incespica sulle pietre o sugli uomini!
Ogni tanto un po' di veleno: esso fa sognare gradevolmente. E alla fine molto veleno, per gradevolmente morire.
Si lavora ancora, poiché il lavoro è un modo di passare il tempo. Ma si cerca di fare in maniera che questo divertimento non danneggi.
Non si è più poveri o ricchi: entrambe le situazioni sono troppo impegnative. Chi vuole ancora dominare? Chi vuole ancora obbedire? L'una e l'altra cosa sono troppo impegnative.
Non un pastore e il suo gregge! Ognuno vuole la medesima cosa, ognuno è uguale; chi sente altrimenti, va diritto al manicomio.
In altri tempi tutti erano pazzi, dicono i più raffinati e ammiccano.
Si è saggi e si sa tutto ciò che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere. C'è ancora chi s'arrabbia; ma ci si rappacifica presto per non sciuparsi lo stomaco.
Si possiede la piccola gioiuzza per il giorno e il piccolo piaceruzzo per la notte: ma si rispetta la salute.
Abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini e ammiccano."
E qui finì il primo discorso di Zarathustra, che è detto anche "prologo", perché a questo punto lo interruppe lo schiamazzo e l'allegria della folla. "Daccelo, quest'ultimo uomo, o Zarathustra" gridarono; "fa' che noi siamo questi ultimi uomini! Il tuo Superuomo te lo regaliamo!" E tutto il popolo giubilava e schioccava la lingua.
Ma Zarathustra divenne triste e disse al suo cuore:
"Non mi comprendono: io non sono una bocca adatta per le loro orecchie. Ho vissuto troppo a lungo nelle montagne, e troppo ho ascoltato la voce dei ruscelli e degli alberi: ora io parlo loro come fanno i caprai.
Incrollabile è la mia anima, e chiara come la montagna nell'ora che precede il meriggio. Ma essi credono che io sia freddo e che non sappia che irridere con scherzi atroci.
E mi guardano e ridono: e mentre ridono continuano ad odiarmi. Nel loro riso è il gelo."
6.
Ma allora accadde qualcosa che rese ogni lingua muta e ogni occhio attonito. Il funambolo aveva cominciato la sua opera: era uscito da una piccola porta e stava avanzando sul filo, che era teso fra due torri; sospeso lassù in alto, stava sopra il mercato e la folla. Quando giunse a metà del suo cammino, la piccola porta si aprì ancora, e un suo compagno verzicolore, simile ad un buffone, ne saltò fuori e a passi rapidi lo seguì: "Avanti, piedi dolci," gridò la sua voce terribile "avanti, poltrone, contrabbandiere, viso pallido! Vorrei farti assaggiare il mio calcagno! Che cosa stai facendo qui fra le torri? Dentro la torre devi stare, ti dovrebbero mettere in gattabuia, tu che impedisci il passaggio a chi è migliore di te!" E ad ogni parola che diceva, gli si avvicinava sempre più: ma quando fu giunto ad un passo da lui, accadde la cosa più spaventosa, che fece ammutolire tutti e restare con gli occhi incantati: sibilò in aria un grido come di diavolo e quell'individuo spiccò un salto oltrepassando colui che gli impediva il passaggio. Questi, quando si vide sopravanzato dal suo compagno, perse la testa e la corda; lanciò via la stanga e precipitò, più rapido di lei, come un viluppo di braccia e gambe nello spazio. Il mercato e la folla sembrarono il mare quando la tempesta lo sommuove: fu tutto un rimescolio e un accavallarsi, soprattutto nel punto dove il corpo doveva cadere.
Ma Zarathustra rimase fermo al suo posto, e proprio accanto a lui cadde il corpo, ridotto a malpartito e spezzato, ma non ancor morto. Dopo un poco tornò la coscienza al disgraziato, che scorse Zarathustra in ginocchio accanto a sé. "Che fai tu lì?" disse finalmente; "io sapevo da molto tempo che il diavolo mi avrebbe dato un calcio. Ora mi trascina all'inferno: vuoi vedere se ti opponi a lui?"
"In realtà, amico," rispose Zarathustra "non esiste ciò che tu dici: non c'è né diavolo né inferno. Morirà più presto la tua anima del tuo corpo: non avere paura di nulla!"
L'altro lo guardò con diffidenza: "Se tu dici la verità," esclamò "allora io non perdo nulla perdendo la vita. Non sono molto più di un animale, a cui è stato insegnato a danzare a forza di percosse e di bocconcini".
"Ma no" disse Zarathustra; "tu hai fatto del pericolo la tua professione, e su questo non c'è niente da dire. Ora tu muori in seguito alla tua professione: e io per mia parte ho intenzione di seppellirti con le mie mani."
Quando Zarathustra disse questo, il morente non rispose più; ma mosse la mano, come se cercasse la sua mano per ringraziarlo.
7.
Frattanto scese la sera, e il mercato s'avvolse d'ombra: e la gente cominciò ad andarsene, perché anche la curiosità e l'orrore si stancano. Ma Zarathustra sedeva accanto al morto che giaceva in terra, immerso in pensieri: per modo che aveva dimenticato il tempo. Infine si fece notte, e un vento freddo soffiò sul solitario. Allora Zarathustra si alzò e disse al suo cuore:
"Veramente Zarathustra ha fatto oggi una buona pesca! Non ha pescato un uomo, ma un cadavere.
L'essere umano è strano e senza senso: un buffone può divenire per lui fatale.
Voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: chi è il Superuomo, il lampo che scoppia dalla nuvola oscura uomo.
Purtroppo sono ancora lontano da loro, e il mio senso non parla ai loro sensi. Sono ancora per gli uomini qualcosa di mezzo fra un pazzo e un cadavere.
Scura è la notte, tenebrosi sono i sentieri di Zarathustra. Vieni, compagno freddo e rigido! Ti porterò via e ti seppellirò con le mie mani."
8.
Quando Zarathustra ebbe detto questo al suo cuore, si caricò la salma sulle spalle e si pose in cammino. Non era ancora andato avanti cento passi, che un uomo gli si fece incontro e gli sussurrò all'orecchio qualcosa... ed ecco! Colui che parlava era proprio il buffone della torre. "Va' via da questa città, Zarathustra" gli diceva; "qui sono in troppi ad odiarti. Ti odiano i buoni e i giusti, e ti chiamano nemico e spregiatore; ti odiano i credenti della retta fede, e ti chiamano pericolo pubblico. La tua fortuna era che si ridesse di te: e a dire il vero tu parlavi loro come un buffone. La tua fortuna era che ti accompagnavi a questa carogna; umiliandoti in tal modo, ti sei salvato per oggi; ma ora esci da questa città, altrimenti domani io salto su di te come un vivo sopra un morto."
E quando ebbe detto questo, scomparve; ma Zarathustra continuò ad andare per i vicoli scuri.
Alla porta della città, si imbatté nei becchini: essi gli misero le fiaccole vicino al volto, riconobbero Zarathustra e lo schernirono: "Zarathustra porta via il cane morto: bene, Zarathustra è divenuto un becchino! Le nostre mani sono troppo pulite per questo arrosto. Forse Zarathustra vuoi sottrarre al diavolo il suo boccone? Va bene così! Buon appetito! Purché il diavolo non sia un ladro migliore di lui! Allora li acchiappa entrambi e se li mangia!" E ridevano tutti insieme e complottavano.
Zarathustra non disse parola e continuò per la sua strada. Quando fu andato avanti per due ore, lungo foreste e paludi, dopo aver tanto, udito l'ululo affamato dei lupi, venne fame anche a lui. Si fermò allora ad un casolare solitario, in cui ardeva un lume.
"La fame mi sopraffà" disse Zarathustra "come un brigante. Mi sopraffà nelle foreste - e nelle paludi, nella notte fonda.
Strani capricci ha la mia fame. Spesso mi prende dopo il pasto; invece oggi non è venuta per tutto il giorno: dove se ne è stata?"
Così pensando, Zarathustra batté alla porta della casa. Apparve un vecchio che portava in mano la lampada, e chiese: "Chi viene da me a trovarmi durante il mio cattivo sonno?"
"Un vivo e un morto" disse Zarathustra. "Datemi da mangiare e da bere, perché io ho dimenticato di farlo di giorno. Colui che dà da mangiare all'affamato porge sollievo all'anima sua: così parla la sapienza."
Il vecchio uscì, ma tornò subito offrendo a Zarathustra pane e vino. "È una brutta zona per affamati" disse; "perciò io abito qui. Animali e uomini vengono da me, il solitario. Ma dì pure anche al tuo compagno di mangiare e di bere, perché è più stanco di te." Zarathustra rispose: "Il mio compagno è morto, sarà difficile convincerlo." "Questo non mi riguarda" disse il vecchio di cattivo umore; "chi batte alla mia casa deve anche prendere ciò che io gli offro. Mangiate e statevi bene!"
Zarathustra continuò il suo cammino ancora per due ore, fidandosi della strada e della luce delle stelle: perché era abituato a camminare di notte e amava vedere in volto tutti coloro che dormivano. Ma quando cominciò a ingrigire, si ritrovò in una profonda foresta, senza più alcuna traccia di strada. Allora mise il morto nel tronco cavo di un albero dietro il suo capo - poiché voleva proteggerlo dai lupi affamati - e si distese per terra sul muschio. Subito si addormentò, stanco morto, ma con l'animo saldo.
9.
A lungo dormì Zarathustra, e non solo l'aurora si inarcò sulla sua persona, ma anche tutto il corso del mattino. Infine aprì gli occhi: sorpreso, Zarathustra scorse la foresta e il silenzio; sorpreso, scorse il suo intimo. Poi si alzò rapido, come un navigatore che scopre d'un tratto terra, ed esultò: perché vide una nuova verità. E così parlò allora al suo cuore:
"Una luce si è accesa in me: ho bisogno di compagni, e vivi; non compagni morti e cadaveri, da portare con me ovunque io voglia.
Ma viventi compagni, che mi seguano, perché voglion seguire se stessi, e proprio là dove io voglio.
Una luce si è accesa in me: non alla folla deve parlare Zarathustra, ma a dei compagni! Zarathustra non deve diventare pastore e cane di un gregge!
Io sono venuto per strappare molti al gregge. La folla e il gregge mi devono avere in odio: pei pastori Zarathustra vuole essere un brigante.
Dico pastori, ma essi si dicono i buoni e i giusti.
Dico pastori: ma essi si chiamano credenti della retta fede. Guardali lì, i buoni e i giusti! Chi odiano essi di più? Colui che infrange le loro tavole di valori, il distruttore, l'assassino: ma questi è appunto il creatore.
Guardali lì, i credenti di tutte le fedi! Chi odiano essi di più? Colui che infrange le loro tavole di valori, il distruttore, l'assassino: ma questi è appunto il creatore.
Compagni cerca il creatore, compagni del raccolto: perché tutto è in lui maturo per il raccolto. Ma a lui mancano le cento falci: e così egli strappa le spighe ed è inquieto.
Compagni cerca il creatore, coloro che sanno affilare le loro falci. Si suole chiamarli annientatori e spregiatori del bene e del male. Ma essi sono i mietitori e coloro che fanno festa. Collaboratori cerca Zarathustra, che mietano e festeggino con lui: che ha mai egli a spartire con greggi e pastori e cadaveri?
E tu, mio primo compagno, statti bene! Io ti ho ben seppellito nel tuo albero cavo, mettendoti bene al riparo dai lupi. Ma ora mi separo da te, perché il tempo è passato. Fra l'una e l'altra aurora è giunta a me una nuova verità.
Non pastore io debbo essere, né seppellitore di morti. Non voglio parlare più con la folla: per l'ultima volta ho parlato con un morto.
Voglio attirare a me i creatori, i mietitori, i banchettanti: voglio loro mostrare l'arcobaleno, e tutte le gradinate del Superuomo.
Ai solitari canterò il mio canto e a coloro che vivono a coppie; e chi ha ancora orecchi per l'inaudito, a quegli voglio rendere pesante il cuore con la mia gioia.
Io voglio andare per il mio cammino verso la mia mèta: saltando sulla testa di coloro che indugiano e si tirano volentieri da parte. Il mio passo sia la loro rovinà!"
10.
Questo disse Zarathustra al suo cuore, quando il sole stava a mezzogiorno: guardò allora con sguardo interrogativo il cielo, perché udiva su di lui il grido acuto di un uccello. Ed ecco! Un'aquila roteava in larghi giri per l'aria, e ad essa stava appeso un serpente, non come una vittima, ma come un amico: perché si teneva attorcigliato al suo collo.
"Sono i miei animali!" esclamò Zarathustra, e si rallegrò nel cuore.
"L'animale orgoglioso sotto il sole e quello più astuto sotto il sole; ecco ché essi vanno in cerca di novità.
Vogliono informarsi se Zarathustra viva ancora. Sono io tuttora realmente vivo?
Fu più pericoloso per me vivere tra gli uomini che tra gli animali. Sentieri pericolosi percorre Zarathustra. Possano condurmi i miei animali!"
Quando Zarathustra ebbe detto questo, pensò alle parole del santo nella foresta, sospirò e parlò così al suo cuore:
"Potessi essere più saggio! Potessi essere interamente saggio, come il mio serpente!
Ma io voglio l'impossibile: e prego il mio orgoglio di andare sempre d'accordo con la mia saggezza!
E se un giorno mi abbandonerà la saggezza - ahimè, essa ama volar via! - che il mio orgoglio possa ancora volare insieme con la mia follia!"
Così cominciò la discesa di Zarathustra.
"Io vi annuncio tre metamorfosi dello spirito: come lo spirito diviene cammello, e da cammello leone, e da leone bambino.
Molte cose sono gravose per lo spirito; per lo spirito forte, paziente e rispettoso per natura: il suo vigore ha desiderio di difficoltà e di cose estremamente pesanti.
Che cosa è pesante? chiede lo spirito paziente, mentre si inginocchia al pari di un cammello e desidera essere ben caricato.
Qual è la cosa più pesante, o voi eroi? chiede lo spirito paziente; che io la prenda su di me rallegrandomi del mio vigore.
Non è forse ciò un umiliarsi per far male al proprio orgoglio? Lasciar risplendere la propria stoltezza, per beffarsi della propria sapienza?
O è questo: abbandonare la propria causa, quando questa sta per trionfare? Sugli alti monti salire, e tentare il tentatore?
O è questo: nutrirsi di ghiande e d'erba della scienza e per amore di verità soffrire la fame dell’anima?
O è questo: essere annullati e mandare via i consolatori e stringere amicizia con i sordi, che giammai possono udire ciò che tu vuoi?
O è questo ancora: scendere nell'acqua putrida quando è l'acqua della verità, e non allontanare da sé né i freddi ranocchi ne i rospi impetuosi?
O è questo: amare coloro che ci disprezzano, e tendere la mano al fantasma, quando ci vuol far paura?
Tutte queste cose pesanti lo spirito paziente vuol sopportare: poi come il cammello che carico va a passo veloce lungo il deserto, anche egli s’incamminana verso il suo deserto.
Ma nel deserto solitario avviene la seconda metamorfosi: lo spirito diviene leone, vuole catturare la propria libertà ed essere padrone del suo deserto.
Va così in cerca del suo ultimo signore: vuole divenirne il nemico come del suo ultimo dio, e ottenere vittoria lottando con il grande drago.
Che cosa è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare suo signore e Dio? 'Tu devi' si chiama il drago. Ma lo spirito del leone dice: 'Io voglio'.
'Tu devi' gli sbarra la via; sfavillando d'oro l'animale coperto di scaglie cornee e su ognuna delle quali riluce in oro: 'Tu devi!'
Millenari valori splendono su quelle scaglie; e così parla il più possente del draghi: 'Ogni valore delle cose riluce sul mio corpo'.
'Ogni valore è già stato creato e ogni valore creato sono io stesso. In realtà, non deve più alcun io voglio esistere!' Così parla il drago.
Fratelli miei, perché c'è bisogno del leone in ispirito? Non è forse sufficiente il paziente animale che rinuncia ed obbedisce?
Crear nuovi valori, questo non lo può fare neanche il leone: ma conquistarsi la libertà per nuove opere, questo egli può fare.
Conquistarsi la libertà significa dire un sacro no di fronte all'obbligazione: ecco, miei fratelli, per che cosa è necessario il leone.
La facoltà di affermare valori nuovi: questo è ciò che appare un orribile sopruso agli spiriti pazienti e sottomessi. In realtà, sembra loro una rapina e azione da animale rapace.
Una volta egli amava il 'tu devi' come la più sacra delle cose: ora gli è necessarto trovare la follia e l'arbitrio anche nella cosa più sacra, onde sottrarsi al proprio amore e conquistare la sua libertà: il leone occorre per attuare questa rapina.
Ma ditemi, fratelli miei, che potrà dunque fare il fanciullo, che già il leone non fece? Perché dunque il leone predatore dovrà ancora ritornare fanciullo?
Il fanciullo è innocenza e dimenticanza, ritorno al principio, gioco, ruota che da sé gira, movimento iniziale, sacra affermazione.
Sì, per il gioco della creazione, o fratelli miei, un sacro dir di sì alle cose: ecco, lo spirito vuole la propria volontà, chi ha perduto l'universo vuole conquistare il suo universo.
Di tre metamorfosi dello spirito io v'ho parlato: come lo spirito divenne cammello, e il cammello si fece leone e il leone, infine, fanciullo."
Così parlò Zarathustra. Allora egli viveva nella città che è chiamata: La vacca variopinta.
Elogiavano a Zarathustra un saggio, che sapeva parlare bene del sonno e della virtù: e che, per questo, era molto stimato e ricompensato; e tutti i giovani si assiepavano intorno alla sua cattedra. Zarathustra si recò da lui e con gli altri giovani si sedette davanti alla sua cattedra. E così parlò il saggio:
"Onore e pudore per il sonno! Questa è la prima cosa! E sfuggite tutti coloro che dormono male e stanno svegli di notte!
Davanti al sonno, è timoroso anche il ladro. Egli si insinua sempre durante la notte silenziosamente. Al contrario la ronda notturna è sfacciata, suona senza pudore il suo corno.
Dormire non è arte da poco: intanto è necessario stare svegli tutto un giorno senza interruzione.
Dieci volte al giorno dovrai vincere te stesso: ciò produce infine una buona spossatezza ed è un buon papavero per lo spirito.
Dieci volte al giorno dovrai inoltre fare la pace con te stesso; dato che la vittoria su se stessi è amarezza; e chi non si è riconciliato con se stesso dorme in malo modo.
Dieci verità al giorno tu dovrai discoprire; altrimenti anche durante la notte tu andrai cercando la verità, e lo spirito tuo sarà inquieto.
Dieci volte al giorno dovrai ridere ed essere allegro; altrimenti durante la notte ti darà fastidio lo stomaco, che è il padre di ogni tribolazione.
Pochi sanno ciò: ma bisogna possedere tutte le virtù per dormire bene. Testimonierò io forse il falso?
Commetterò adulterio?
Desidererò per me la donna del mio prossimo? Tutte queste cose non si accordano con un buon sonno. Ma anche quando possedessimo tutte le virtù, bisogna altresì saper fare un'altra cosa: mandare al tempo giusto a dormire anche le virtù.
Perché non litighino tra loro, quelle donnette a modo! E sul conto tuò, infelice!
Pace con Dio e col prossimo: questo ci vuole per un buon sonno. E in pace anche col demonio del 'prossimo! Altrimenti durante la notte verrà a infastidirti.
Onore e rispetto per le autorità, e anche verso l'autorità corrotta! Questo vuole il buon sonno. E che colpa ne ho io, se l'autorità cammina spesso e volentieri a gamba zoppa?
Il miglior pastore, per me, sarà sempre colui che guiderà le sue pecore verso il più verde pascolo: questo si accorda con un buon sonno.
Non voglio molti onori, né grandi tesori: fanno infiammare la milza. Ma male si dorme senza una buona reputazione ed un piccolo tesoro.
Una compagnia piccola mi è più grata di una maligna: tuttavia deve saper andare e venire al momento opportuno. Questo soltanto si accorda con un buon sonno.
Molta soddisfazione mi danno i poveri di spirito: essi mi conciliano il sonno. Sono gente contenta, specialmente quando si dà loro sempre ragione.
Così passa la sua giornata l'uomo virtuoso. Quando poi scende la notte, mi guardo bene dall'invocare il sonno! Perché il sonno, che è il padrone delle virtù, non vuole essere invocato!
Invece torno col pensiero a ciò che ho fatto e detto durante il giorno. Rimuginando, interrogo me stesso, paziente come una mucca: quali sono oggi state le dieci vittorie che hai riportate su te stesso?
E quali sono state le dieci rappacificazioni e le dieci risate, con cui ho fatto felice il mio cuore?
Così pensando e cullato da quaranta pensieri, d'un tratto il sonno mi sopraffà, non invocato, lui, il padrone delle virtù.
Il sonno batte ai miei occhi, ed essi divengono pesanti. Il sonno mi palpa la bocca; ed essa rimane aperta.
Veramente giunge a me con passo leggero, come un ladro amatissimo, e trafuga i miei pensieri, così che io rimango lì in piedi, sciocco come questa cattedra.
Ma non a lungo resto così: ecco che già mi sdraio."
Quando Zarathustra ebbe udito il saggio dire queste cose, rise nel suo cuore: perché una luce si era fatta in lui. E così parlò al suo cuore:
"Un pazzo mi senbra questo saggio con i suoi quaranta pensieri: ma tuttavia credo che del dormire proprio se ne intenda.
Beato chi vive nella vicinanza di questo saggio!
Un sonno tale è contagioso e penetra anche attraverso uno spesso muro.
Un incanto si annida nella sua cattedra. E non per nulla i più giovani si sono seduti intorno al predicatore di virtù.
La sua saggezza si chiama: stare svegli, per poi dormire bene. E in realtà, se la vita non avesse alcun altro senso, e io dovessi scegliere un non-senso, questo mi sembrerebbe il non senso più degno di essere scelto.
Ora comprendo ciò che una volta veniva ricercato oltre ogni cosa, quando si cercava un maestro di virtù. Un buon senso e virtù papaveracee!
Per tutti questi tanto declamati saggi, la sapienza aveva il significato di un sonno senza sogni: la vita non aveva per loro miglior senso di questo.
Anche oggi ve ne sono taluni, e non sempre così onesti come questo: ma la loro ora è ormai suonata. E non a lungo rimarranno in piedi: presto saranno a terra.
Felici coloro che hanno sonno: perché chineranno la testa e si addormenteranno presto."
Così parlò Zarathustra.
"Una volta anche Zarathustra volle gettare la sua illusione oltre l'umanità, come tutti i trascendentalisti. Il mondo mi si presentò allora come opera di un Dio sofferente e tormentato.
Il mondo mi sembrò il sogno e la poesia di un Dio; nebbia colorata agli occhi di un divino essere malcontento.
Bene e male, gioia e dolore, io e tu: nebbia variegata mi sembrarono davanti allo sguardo del creatore. Il creatore aveva voluto distogliere gli occhi da se stesso; e così aveva creato il mondo.
Per colui che soffre, distogliere l'occhio dal suo dolore e dimenticare se stesso è gioia inebriante. Gioia inebriante e oblio mi apparve un giorno il mondo.
Questo mondo, perennemente imperfetto, immagine di eterna contraddizione, copia, e imperfetta copia, gioia inebriante per il suo imperfetto creatore: così mi apparve un giorno il mondo.
E così anch'io una volta lanciai la mia follia oltre l'umanità, come tutti i trascendentalisti. Ma proprio al di là dell'umanità?
Ahimè, fratelli miei, quel Dio, che io creavo, era opera di un uomo e follia, come tutti gli dèi!
Era un essere umano! un misero frammento di umanità e di io: era sorto dalla mia cenere e dalla mia passione, un fantasma, e veramente! no, egli non proveniva dall'aldilà!
Che cosa accadde, fratelli miei? Io superai me stesso, me misero, portai le mie ceneri sulla montagna, e inventai per me stesso una fiamma più splendente. Ed ecco! Il fantasma scomparve ai miei occhi!
Ora che ho raggiunto la guarigione, mi sarebbe dolore e tormento credere a fantasmi di questo genere: dolore e avvilimento. Così io parlo ai sognatori dell'aldilà.
Il dolore e l'incapacità crearono ogni aldilà e quella breve follia della felicità, che solo colui che più soffre conosce.
La stanchezza, che con un balzo vorrebbe raggiungere l'ultima mèta, sì, con un balzo mortale, quella misera, ignorante stanchezza, che non può più nemmeno volere: essa creò tutti gli dèi e l'aldilà.
Credetemi, o miei fratelli! fu il corpo, che disperò del corpo, e con le dita dello spirito infatuato andava cercando le pareti estreme.
Credetemi, fratelli miei! Fu il corpo, che disperò della terra, ed ascoltò parlare il ventre dell’essere.
E allora volle penetrare con la testa attraverso le estreme pareti, e non solo con la testa, per giungere 'all'altro mondo'.
Ma 'l'altro mondo' è molto ben nascosto agli esseri della terra, quel mondo inumano e disumano, che non è che un celestiale Nulla; e il ventre dell'essere non parla all'uomo, se non come uomo.
In verità, è molto arduo dimostrare ogni essere, è difficile indurlo a parlare. Ditemi, fratelli, non è forse più facile dimostrare la più strana delle cose?
Sì, questo Io, con le sue contraddizioni e confusioni, è ancora il più adatto ad affermare il suo essere, questo Io che crea, che vuole, che giudica, e che è la misura e il valore delle cose.
E questo Essere dabbene, questo Io, non ci parla che del corpo, e non vuole che il corpo, anche quando medita e fantastica e svolazza con le ali infrante.
Sempre più onestamente impara ad esprimersi, questo Io: e quanto più impara, tanto più trova parole e onore per il corpo e la terra.
Il mio Io mi insegnò un nuovo orgoglio, e io lo insegno all'umanità: non introducete più la testa nella sabbia delle cose divine, ma portatela libera ed alta, questa vostra testa terrena, che crea il senso della terra!
Una nuova volontà io insegno all'umanità: seguite consapevoli questa strada, che l'umanità ha seguito ciecamente, e abbiatela cara, e non cercate di strisciare in disparte, come i malati e i moribondi!
Malati e moribondi furono coloro che ebbero in disprezzo il corpo e la terra e scovarono il paradiso e le gocce di sangue redentrici: ma anche quei dolci e loschi veleni li trassero dal corpo e dalla terra!
Volevano sfuggire alla propria miseria, e le stelle erano per loro troppo in alto. Allora sospirarono: 'Oh, se esistessero delle vie celesti, per penetrare in un'altra esistenza, in un'altra felicità!' E così inventarono le astuzie e le loro piccole bevande di sangue!
Credettero così di essersi liberati dei loro corpi e della terra, ingrati! Ma a chi dunque dovevano il tormento e la delizia dei loro rapimenti? Al loro corpo e a questa terra.
Zarathustra è benevolo con i malati. In verità, non lo irritano le loro arti consolatrici né la loro ingratitudine. Possano essi guarire e superare se stessi e generare un corpo più forte!
Né Zarathustra s'adira con il convalescente, quando guarda con tenerezza alla sua illusione e nel mezzo della notte si aggira intorno alla tomba del suo Dio: ma le sue lacrime restano per me malattia e corpo malato.
Molte persone malate sempre vi furono tra coloro che fanno poesia e cercano Dio; e odiano selvaggiamente chi anela sapere e la più giovane delle virtù, che si chiama: sincerità.
Si volgono sempre indietro verso i tempi oscuri: certamente allora follia e fede erano un'altra cosa; l'annebbiata ragione era un modo di somigliare a Dio, e il dubbio peccato.
Molto bene conosco quelli che si credono simili a Dio: ed essi pretendono che si creda loro, e che dubitare sia peccato. So molto bene a quale cosa essi credono di più.
In realtà, non al trascendente né alle gocce di sangue redentrici, bensì soprattutto al corpo, mentre il loro corpo è per essi la vera cosa in sé.
Il guaio è che esso è malato: e desidererebbero uscir fuori dalla loro pelle. Perciò ascoltano con piacere i predicatori della morte e predicano essi stessi l'aldilà.
Ascoltate piuttosto o fratelli, ciò che dice il corpo sano: che una parola più sincera e più pura.
Il corpo puro e sano, perfetto e ben quadrato, parla con maggiore sincerità: parla dal senso stesso della terra."
Così parlò Zarathustra.
"Ora voglio dire la mia parola a coloro che disprezzano il corpo.
Non serve a me che essi cambino le parole o i loro insegnamenti, ma che si stacchino finalmente davvero dal loro corpo; e divengano muti.
'Sono corpo e anima' dice il bambino. E perché non dovremmo parlare come i bambini?
Ma lo sveglio, l'esperto, dice: io sono tutto corpo e niente altro tranne questo, e l'anima non è che una parola per esprimere qualcosa che è sostanzialmente corporea.
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un senso unitario, guerra e pace, gregge e pastore.
Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, o fratello, che tu chiami 'spirito', piccolo strumento e gioco della tua grande ragione.
'Io', tu dici, e vai fiero di questa parola. Ma la cosa più grandiosa è - anche se non vuoi crederlo - il tuo corpo e la tua grande ragione: questa non dice Io, ma è Io.
Ciò che il senso percepisce, ciò che lo spirito intende, non ha mai fine in se stesso. Ma senso e spirito desidererebbero convincerti di essere il fine di ogni cosa: così sciocchi essi sono.
Strumenti e giocattoli sono senso e spirito: dietro di loro è nascosto il vero Sé. Il Sé ricerca anche con gli occhi del senso,ascolta anche con le orecchie dello spirito.
È sempre il Sé che ascolta e ricerca: conforta, costringe, conquista, distrugge. Comanda ed è anche il signore dell'Io.
Dietro ai tuoi pensieri e sentimenti, fratello mio, sta un forte dominatore, un saggio sconosciuto: è il Sé.
Nel tuo corpo dimora, è il tuo stesso corpo.
C'è più senno nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E perché mai il tuo corpo avrebbe dunque bisogno della tua migliore saggezza?
Il tuo Sé ride del tuo Io e dei suoi orgogliosi sobbalzi. 'Che cosa mai sono per me questi salti e voli del pensiero?' dice fra sé. 'Un circolo vizioso per giungere al mio scopo. Io sono la briglia dell'io e il suggeritore dei suoi pensieri.'
Il Sé dice all'Io: 'Ecco, avverti il dolore!' E quello soffre e pensa come riuscire a liberarsi dal dolore; e proprio per ciò deve pensare.
Il Sé dice all'Io: 'Ecco, senti il piacere!' E quello gode e pensa come gustare quel piacere; e proprio per questo deve pensare.
A coloro che disprezzano il corpo io voglio dire una parola. È il loro disprezzare che costituisce il loro apprezzamento. Chi creò l'apprezzamento e il disprezzo e il valore e il volere?
Il Sé creatore creò l'apprezzare e il disprezzare, e la felicità e il dolore. Il corpo creatore creò lo spirito come una lunga mano del suo volere.
Anche nella vostra follia e disprezzo, o dispregiatori del corpo, servite al vostro Sé. Io vi dico: è il vostro stesso Sé che vuol morire e si volge via dalla vita.
Non può più fare quello che gli è più caro: creare al di là di se stesso. Questo è ciò che vorrebbe fare con tanta passione, questo è tutto il suo fervore. Ma ormai è troppo tardi: perciò il vostro Sé vuol morire, o dispregiatori del corpo.
Tramontare vuole il vostro Sé, ed è perciò che voi siete divenuti dispregiatori del corpo! Poiché non riuscite più a superare voi stessi.
E perciò siete in collera con la vita e con la terra.
Una stupida invidia traluce nel fosco sguardo del vostro disprezzo.
Io non andrò per la vostra via, o disprezzatori del corpo. Per me voi siete ponti per il Superuomo!"
Così parlò Zarathustra.
"Fratello mio, se possiedi una virtù, e questa virtù è tua, tu non l'hai in comune con nessuno.
Ma tu vuoi darle un nome e carezzarla; tu vuoi tirarle le orecchie e spassartela con lei.
Ma ecco! Così facendo, tu finisci per avere il suo nome in comune con la solitudine e divenire tu stesso moltitudine e volgo con la tua virtù!
Meglio faresti a dire: 'Inesprimibile e senza nome è ciò che fa il tormento e la tenerezza del mio spirito ed è la fame delle mie viscere'.
Sia la tua virtù troppo alta per la dimestichezza di un nome: e quando parli di lei, non vergognarti di balbettare.
Dunque parla e balbetta: 'Questo è il mio bene, questo è ciò che io amo, ciò che a me completamente piace; solamente così io voglio il bene.
Non lo voglio come una legge di Dio, non come un regolamento e un rimedio per l'uomo: né sia come un segnavia dell'aldilà e del paradiso.
Una virtù terrena è ciò che io amo: poca prudenza è in lei, e ancor meno raziocinio.
Ma questo uccello si è fatto qui da me il nido: per questo lo amo e mi sta a cuore; esso abita qui da me e cova le sue uova d'oro'.
Così tu devi balbettando elogiare la tua virtù.
Una volta tu avevi delle passioni e le dicevi cattive. Ma ora non hai che virtù: esse sono venute fuori dalle tue stesse passioni.
Tu hai collocato la tua più alta mèta in queste passioni: e così esse sono divenute le tue virtù e le tue felicità.
E anche se tu appartenessi alla razza dei rabbiosi o dei libidinosi o dei maniaci religiosi o dei vendicativi: alla fine tutte le tue passioni diverrebbero virtù e i tuoi demoni si tramuterebbero in agnelli.
Una volta tu avevi nella tua cantina dei cani selvatici: ma alla fine si trasformarono in uccelli e in leggiadre cantanti.
Dai tuoi veleni traesti il tuo balsamo; mungesti la mucca del tuo dolore; ed ora tu bevi il dolce latte delle tue mammelle.
E nulla di male sorgerà mai più da te, tranne il male, che sorge dalla lotta delle tue virtù.
Fratello mio, se avrai fortuna, tu avrai una sola virtù e nulla di più: così passerai più facilmente oltre il ponte.
È onorevole possedere molte virtù, ma è un grave destino; e molti andarono nel deserto e si uccisero, perché erano stanchi di essere battaglia e campo di battaglia delle virtù.
Fratello mio, sono la guerra e la battaglia un male? Ma necessario è questo male, necessario è l'astio e la diffidenza e la calunnia tra le tue virtù.
Vedi come ogni tua virtù desidera ciò che vi è di più alto: essa vuole tutto il tuo spirito, che sia suo araldo, vuole tutta la tua potenza nell'ira, nell'odio e nell'amore.
Ogni virtù è invidiosa dell'altra, e gran brutta cosa è l'invidia. Possono le virtù per invidia andare in rovina.
Chi è avvolto dalla fiamma dell'invidia, alla fine volge, come lo scorpione, contro se stesso il pungiglione avvelenato.
Ohimè, fratello mio, non hai tu mai veduto una virtù diffamarsi e trafiggersi da se stessa?
L'UOMO È QUALCOSA CHE DEVE ESSERE SUPERATO; perciò devi amare le tue virtù: poiché esse ti manderanno in rovina."
Così parlò Zarathustra.
"Voi non volete uccidere, voi magistrati e immolatori, prima che la bestia abbia annuito? Ecco, il pallido delinquente ha annuito: da quel suo sguardo parla un grande disprezzo.
'Il mio io è qualche cosa che deve essere superato: il mio io è per me il grande disprezzo dell'uomo': questo dice il suo sguardo.
Quando egli giudicò se stesso, fu il suo attimo più sublime: non lasciate che il sublime ridiscenda di nuovo nella bassezza della sua natura!
Non vi è liberazione per colui che soffre di se stesso, tranne una rapida morte.
La vostra sentenza di morte, o giudici, sia di pietà e non di vendetta. E mentre voi uccidete, cercate di giustificare voi stessi la vita!
Non basta che voi vi riconciliate con colui che uccidete. La vostra tristezza sia amore verso il Superuomo: così soltanto potrete giustificare il vostro sopravvivere!
'Nemico' dovete dire, ma non 'malfattore'; 'malato' dovete dire, ma non 'mascalzone'; 'pazzo' dovete dire, ma non 'peccatore'.
E tu, giudice rubicondo, se avessi il coraggio di dire ciò che hai nel pensiero, ognuno griderebbe: 'Allontanatevi da questo sudiciume e da questa vipera!'
Ma altro è il pensiero e altra è l'azione, altra ancora l'immagine dell'azione. La ruota delle cause non si volge fra di loro.
Un'immagine fa ingiallire quest'uomo pallido. Quando compì la sua azione, era pari ad essa; ma non riuscì a sopportarne l'immagine, dopo che l'ebbe compiuta.
Prese a considerare se stesso come attore di un’azione. Per me ciò è follia: l'eccezione di un attimo divenne la sua stessa sostanza.
La corda tiene legata la gallina; il colpo che egli ha fatto, ha legato la sua povera ragione: io la chiamo follia dopo l'azione.
Ascoltate, voi giudici, v'è ancora un'altra follia: e questa è prima dell'azione. Ahimè, voi non mettete abbastanza a fondo le mani in quest'anima!
Così parla il giudice rubicondo: 'Che cosa ha ucciso in sostanza questo assassino? In realtà ha voluto soltanto rubare'. Ma io dico a voi: la sua anima voleva sangue, non rapina: aveva sete della voluttà del coltello!
La sua povera ragione non è riuscita a comprendere questa follia e l'ha convinto. Gli ha detto: ‘Ma che te ne fai del sangue: non vuoi almeno compiere una rapina? prenderti una vendetta?'
Ed egli porse l'orecchio alla sua povera ragione e come piombo la sua parola ha pesato su di lui; allora egli ha rapinato quando ha ucciso. Non voleva vergognarsi della sua follia.
Ed ora di nuovo il piombo della sua colpa grava su di lui, e di nuovo la sua povera ragione è così rigida, così paralizzata, così pesante.
Se egli solo potesse scuotere la testa potrebbe sbarazzarsi del suo peso: ma chi scuote la testa?
Che cos'è quest'uomo? Un mucchio di malanni, che per colpa dello spirito si riversano nel mondo: e lì cercano la loro preda.
Che cos'è quest'uomo? Un viluppo di feroci serpenti, che raramente stanno in pace fra loro; e allora se ne vanno ciascuno per conto proprio è cercano vittime nel mondo.
Guardate questo povero corpo! Ciò che egli soffrì e verso cui si tese è ciò che questa povera anima stessa immaginò; lo immaginò come piacere di uccidere e sete della voluttà del coltello.
Chi ora diviene malato è colui che viene sopraffatto dal maligno, che ora è egli stesso maligno: vuoi fare del male con ciò che gli fa male. Ma vi furono anche altri tempi ed altro male ed altro bene.
Una volta il dubbio e la volontà egoistica venivano ritenuti male. In quel tempo il malato diveniva eretico e strega: come eretico e come strega soffriva e voleva far soffrire.
Ma questo non entra nelle vostre orecchie: farebbe loro male, secondo voi. Ma che me ne importa del vostro bene!
Molto del vostro bene mi ripugna, mentre non mi ripugna in realtà il vostro male. Mi piacerebbe che essi avessero una follia che li rovinasse, come questo pallido delinquente!
Veramente mi piacerebbe che la loro follia si chiamasse verità o fedeltà o giustizia: ma essi hanno la loro virtù che li fa vivere a lungo, miseramente contenti di sé.
Io sono una ringhiera sul fiume: che mi afferri chi mi vuole afferrare! Ma non sono la vostra gruccia."
Così parlò Zarathustra.
"Di tutto ciò che è scritto, io amo soltanto ciò che è stato scritto col sangue. Scrivi col tuo sangue, e ti accorgerai che il tuo sangue è spirito. Non è facile capire il sangue degli altri: io odio coloro che hanno il vizio di leggere.
Chi conosce che cosa è un lettore, non si sente più di far nulla per lui. Ancora un secolo di lettori, e lo spirito stesso sparirà dal mondo.
Che ognuno ormai possa imparare a leggere è un fatto che alla lunga ammorba non solo lo scrivere ma anche il pensare.
Una volta lo spirito era Dio, poi divenne uomo, e ora non è ormai che plebe.
Chi scrive in sangue e in aforismi non vuole essere letto, ma appreso a memoria.
Nelle montagne, il sentiero più breve è da vetta a vetta: ma per percorrerlo è necessario avere lunghe gambe. Gli aforismi debbono essere vette: e coloro a cui essi vengono detti devono essere grandi e di alta statura.
L'aria sottile e pura, il pericolo prossimo, e lo spirito pieno di una gioconda malignità: questo è ciò che concorda bene insieme.
Voglio avere intorno a me dei coboldi, perché io sono coraggioso. Il coraggio che allontana i fantasmi si crea dei coboldi; è un coraggio che vuol ridere.
Il mio sentimento non va più d'accordo col vostro: questa nuvola che vedo sotto di me, questo nero e questa pesantezza di cui io rido; proprio questa è la vostra nuvola temporalesca.
Voi guardate in alto, quando tendete verso l'elevazione. E io guardo giù nel profondo, perché sono già esaltato.
Chi di voi può insieme ridere ed essere esaltato?
Chi sale sugli alti monti, ride sopra tutte le tragedie e tutte le tristizie seriose.
Occorre essere spensierati, violenti, ironici; così ci vuole la sapienza: essa è una femmina e ama sempre solo il guerriero.
Voi mi dite: 'La vita è dura da sopportare'. Ma perché avreste mai di mattina tanto orgoglio e a sera tanta dedizione?
La vita è dura da sopportare: ma non prendete arie da volermi intenerire! Tutti insieme siamo dei begli asini, maschi e femmine.
Che cosa abbiamo in comune con il bocciolo di rosa che comincia a tremare perché una goccia di rugiada vi si è posata sopra?
È vero: noi amiamo la vita, non perché siamo abituati alla vita, ma perché siamo abituati ad amare.
C'è sempre qualche pizzico di follia nell'amore. Ma c'è anche sempre qualche pizzico di ragione nella follia.
Ed anche a me, che sono buono verso la vita, sembra che le farfalle e le bolle di sapone, e gli uomini ad esse simili, siano coloro che sanno meglio che cosa è la felicità.
Queste animule leggere, pazzerelle, graziose, mobili, svolazzano qua e là per curiosità; e ciò induce Zarathustra a commuoversi fino alle lacrime e al canto.
Per me io crederei solo ad un Dio che sapesse danzare.
Quando vidi il mio diavolo, scoprii che era serio, esauriente, profondo, solenne: era lo spirito della gravità, in virtù del quale cadono tutte le cose.
Non è con l'ira, ma con il riso che si uccide. Uccidiamo dunque lo spirito della gravità!
Ho imparato a camminare: da allora mi lascio andare. Ho imparato a volare: da allora non voglio più ricevere, spinte per muovermi.
Ora io sono leggero, ora io volo, ora io vedo sotto di me, ora danza un dio in me."
Così parlò Zarathustra.
L'occhio di Zarathustra aveva veduto che un giovane cercava di sfuggirlo. E quando una sera se ne andava solo per i monti che circondano la città, che è detta "La vacca variopinta", ecco che scorse camminando quel giovane appoggiato ad un albero, che guardava con occhio stanco nella vallata. Zarathustra afferrò l'albero presso cui il giovane sedeva e così parlò:
"Se io volessi scuotere quest'albero con le mie mani, non vi riuscirei.
Ma il vento che non vediamo lo tormenta e lo piega dove vuole. Sono le mani invisibili quelle che più ci piegano e ci tormentano."
Allora il giovane si levò allarmato e disse: "Sento Zarathustra; proprio ora pensavo a lui." Zarathustra ribatté:
"Perché ti spaventi per questo? Accade con l'uomo quello che accade con l'albero.
Quanto più vuole crescere verso la luce, tanto più tenaci si radicano le sue radici, nel terreno, giù, nell'oscurità, nel profondo, nel male. "Sì, nel male!" urlò il giovane. "Come è possibile che tu abbia scoperto la mia anima?"
Zarathustra sorrise e disse: "Taluna anima non si riesce mai a scoprirla veramente, fosse anche un'anima da noi scoperta."
"Si, nel male!" gridò ancora il giovane. "Hai detto la verità Zarathustra. Io non ho più fiducia in me stesso da che voglio salire in alto, e nessuno ha più fiducia in me; com'è che ciò accade?
Io mi muto troppo rapidamente: il mio oggi distrugge il mio ieri. Spesso salto i gradini mentre salgo, e questo i gradini non me lo perdonano.
Poiché sono in alto, mi trovo sempre solo. Nessuno parla con me, il gelo della solitudine mi fa tremare. Ma che cosa voglio mai in realtà lassù?
Come mi vergogno del mio salire e incespicare! Come rido del mio asmatico sbuffare! Come odio chi vola! Come sono stanco di stare in alto!"
E qui il giovane tacque. Zarathustra guardò l'albero a cui stavano entrambi appoggiati, e parlò così:
"Quest'albero sta qui solo sul monte; è cresciuto alto sull'uomo e sull'animale.
Se volesse parlare, non troverebbe nessuno che lo comprenda, tanto in alto è cresciuto.
Ora attende e attende; che cosa attende? Sta troppo vicino a dove stanno le nuvole: attende forse il primo fulmine?"