Il racconto ci aveva tenuti col
sospiro sospeso attorno al focolare; ma non ricordo che venisse
commentato – eccezion fatta per l’evidente osservazione che era
sinistro come è essenziale sia una storia strana, narrata nella
vigilia di Natale in una vecchia casa – prima che qualcuno
insinuasse che, a memoria sua, era il solo caso in cui una simile
prova fosse stata subíta da un fanciullo. Ricordo che, nel caso in
discorso, si trattava d’una visione, in una vecchia casa simile a
quella nella quale eravamo riuniti, orribile visione apparsa ad un
bambino, che dormiva nella camera della madre. Atterrito, la
destava; e la madre, prima di riuscire a dissipare il terrore del
figlioletto e a riaddormentarlo, veniva essa pure a trovarsi,
improvvisamente, davanti allo spettacolo che lo aveva sconvolto.
Questa osservazione, non subito ma un po’ più oltre nella serata,
determinò una certa replica di Douglas, donde derivò la
interessante conseguenza, sulla quale richiamo la vostra
attenzione. Un altro dei presenti cominciò a narrare una storia
priva di particolare interesse, e notai che non l’ascoltava.
Compresi subito che egli pure aveva qualche cosa da dire: non c’era
che attendere. In realtà, dovemmo aspettare per due sere
successive, benché quella stessa sera, prima che ci separassimo, ci
rivelasse quanto lo preoccupava.
— Convengo, tanto a proposito del
fantasma di Griffin quanto di un altro qualsiasi, che la storia ha
un sapore tutto suo per il fatto che il fantasma è prima apparso ad
un fanciullo in così tenera età. Ma, per quello che ne so io, non è
la prima volta che un esempio di questo genere delizioso si
riferisce ad un bambino. Se questo fanciullo dà un giro di vite di
più alla vostra emozione, che direste di due?...
— Diremmo – replicò uno – che,
naturalmente, due bambini danno due giri! vogliamo sapere che cosa
sia loro accaduto.
Vedo ancora Douglas: si era
alzato in piedi, e, appoggiato al camino, con le mani in tasca,
guardava l’interlocutore dall’alto al basso:
— Sino ad ora, soltanto io l’ho
saputo. È troppo orribile.
Spontaneamente, parecchi
dichiararono allora che questo orribile dava al caso un interesse
supremo. L’amico nostro, preparandosi con pacata arte un trionfo,
girò gli occhi su noi, e proseguì:
— È superiore ad ogni
imaginazione, e nulla conosco che vi si avvicini.
— Come effetto di terrore? –
chiesi io.
Parve voler dire che il fatto non
era così semplice, ma che non poteva trovar termini esatti per
esprimersi. Si passò le mani sugli occhi e accennò una smorfia
dolorosa:
— Come orrore... Orribile!
— Oh, delizioso! – esclamò una
signora.
Non parve udire: mi guardava, ma
come se al posto mio vedesse la cosa di cui parlava.
— Come un insieme di laidezza, di
dolore e d’orrore soprannaturali.
— Ebbene – gli dissi allora, –
sedete e incominciate.
Si voltò verso il fuoco, respinse
un tizzone col piede e lo contemplò per un momento. Poi, ritornando
a noi:
— Non posso incominciare.
Bisognerà che mandi in città.
Queste parole furono accolte da
un generale sussurro, accompagnato da molte rimostranze. Quindi
spiegò, preoccupato:
— La storia è scritta, e il
manoscritto si trova in un cassetto chiuso a chiave: da anni non
n’è stato tratto fuori; ma potrei dar disposizioni al mio domestico
e mandargli la chiave: mi spedirà il piego come si trova.
Sembrava rivolgermi personalmente
la proposta, sembrava... quasi implorare il mio aiuto per finirla
con le proprie esitazioni. Ruppe lo spessore del ghiaccio che tanti
inverni avevano accumulato; intime ragioni gli avevano fatto
serbare quel lungo silenzio. Gli altri si dispiacevano del ritardo;
ma io ero deliziato dagli stessi suoi scrupoli. Lo scongiurai di
scrivere col primo corriere, d’accordarsi con noi per una sollecita
lettura, e gli chiesi anche se l’esperienza della quale si parlava
fosse un’esperienza sua propria.
— No, la Dio mercé! – rispose
subito.
— E il racconto è vostro? Lo
avete scritto personalmente?
— Ho notato soltanto la mia
impressione, e l’ho annotata qui... – e si toccò il cuore. – Non
l’ho dimenticata.
— Ma il vostro manoscritto,
allora?
— L’inchiostro con cui è scritto
è vecchio e impallidito... la calligrafia ammirevole. – Anzi che
rispondere, girava ancora attorno all’argomento: – È una
calligrafia di donna, d’una donna morta da venti anni. In punto di
morte, mi ha mandato quelle pagine.
Ora ascoltavamo tutti, e,
naturalmente, qualcuno cercò di scherzare o, piuttosto, di trarre
da quelle parole l’inevitabile conseguenza. Ma se Douglas negò la
conseguenza senza sorridere, non dimostrò tuttavia irritazione di
sorta.
— Era una donna deliziosa, ma
dieci anni più anziana di me: era l’istitutrice di mia sorella, –
disse lentamente. – Non mi è mai capitato d’incontrare, in quella
posizione, donna più piacevole: era degna d’occuparne non importa
quale altra. È passato molto tempo, e l’episodio che ci interessa
s’era verificato già molti anni prima. Io ero allora a Trinity, e
la trovai in casa, quando vi tornai per le vacanze, durante il
secondo anno di collegio. Quell’anno rimasi a lungo in famiglia: fu
un’annata splendida; ricordo i giri che facevamo in giardino e le
conversazioni nelle sue ore di libertà, conversazioni nelle quali
mi appariva così intelligente e così piacevole! Ma sì, vi prego di
non sorridere; ella mi piaceva molto, e sono, oggi ancora, contento
che io pure le piacessi. Se non le fossi piaciuto, non mi avrebbe
raccontata la storia, che non aveva mai narrata a nessuno. Né lo
credevo soltanto perché me lo diceva: ero certo che non ne aveva
mai detto nulla. Ne ero sicuro: lo si vedeva. Capirete perché,
quando mi avrete ascoltato.
— Perché il fatto l’aveva troppo
sconvolta?
Egli continuò a guardarmi
fissamente:
— Capirete subito, – ripeté. –
Voi, capirete.
Mi posi, a mia volta, a guardarlo
fissamente.
— Capisco: era innamorata.
Rise, allora, per la prima
volta.
— Ah! come siete perspicace! sì,
era innamorata, o, meglio, la era stata. Era evidente: non poteva
raccontar la storia senza che la cosa apparisse lampante. Me ne
accorsi, ed ella capì che me ne accorgevo; ma non ne parlammo.
Ricordo il tempo e il luogo, la fine del prato, l’ombra dei grandi
faggi ed i lunghi e caldi pomeriggi estivi. Non era un ambiente
tragico – ma...!
Si allontanò dal fuoco e ricadde
a sedere.
— Riceverete il piego giovedì
mattina? – gli domandai.
— Non prima del secondo corriere,
probabilmente.
— No? Allora, dopo
pranzo...
— Vi ritroverò tutti qui?
E, nuovamente, il suo sguardo si
posava su ciascuno di noi.
— Nessuno parte?
Disse queste parole quasi con un
tono di speranza.
— Tutti vogliono restare!
— Io rimango... e io rimango!...
– esclamarono alcune signore, che avevano preannunciata la propria
partenza. La signora Griffin, però, disse che desiderava alcuni
schiarimenti:
— Di chi era innamorata?
— Ve lo dirà il racconto –
m’arrischiai a rispondere.
— Oh! non voglio aspettare il
racconto!
— E quello non lo dirà – riprese
Douglas. – Per lo meno, non lo dirà in modo letterale e
volgare.
— Allora, me ne spiace, perché è
l’unico modo col quale io comprenda le cose.
— Ma non ce lo direte voi,
Douglas? – chiese un altro di noi.
Egli si alzò bruscamente.
— Sì, domani. Ora, bisogna che
vada a coricarmi. Buona notte!
E, prendendo il candeliere, ci
piantò in asso, leggermente stupefatti. Dal fondo dell’ampio atrio
dai rivestimenti severi, in cui eravamo riuniti, ne udimmo
decrescere i passi sulla scala. Allora, la signora Griffin
disse:
— Ebbene, se non so di chi ella
fosse innamorata, so perfettamente di chi egli lo era!
— Ma ella aveva dieci anni più di
lui – osservò il marito.
— Raison de plus ... a
quell’età!... Il suo lungo silenzio, però, è davvero
cavalleresco!
— Quarant’anni – osservò
brevemente Griffin.
— E la sua esplosione
finale.
— L’esplosione – replicai – farà
della serata di giovedì qualche cosa di formidabile.
Furono talmente d’accordo con me
che nulla più riuscì ad interessarci. Quella storia di Griffin, per
quanto incompleta fosse, con quel suo andamento di prologo
destinato a incitare la nostra curiosità, fu l’ultima della serata.
Ci stringemmo le mani, e furon «strette di candeliere», come alcuni
dissero, e andammo a coricarci.
Seppi il giorno dopo che una
lettera, contenente la chiave, era stata spedita col primo corriere
all’indirizzo dell’appartamento di Londra. Ma, a dispetto – o,
forse, proprio a causa – della susseguente diffusione di questa
notizia, lasciammo tranquillo Douglas nel modo più assoluto sino a
dopo pranzo, sino all’ora, in somma, più indicata per il genere
d’emozione che ricercavamo. Egli divenne allora comunicativo quanto
potevamo desiderare, e ci disse persino la ragione eccellente che
aveva per esserlo. Ne raccogliemmo la parola nell’atrio, davanti al
fuoco, nello stesso luogo in cui, la sera prima, s’eran destati i
nostri ingenui stupori. Risultò che il racconto, che ci aveva
promesso di leggere, per essere compreso aveva bisogno di alcune
parole d’introduzione. Mi sia permesso di dir nettamente qui, per
non doverci ritornar sopra, che questa narrazione, da me
esattamente trascritta molto tempo dopo, è quella che leggerete fra
poco. Quando fu prossimo alla fine, il povero Douglas mi consegnò
quel manoscritto, che aveva richiesto, e che gli era pervenuto tre
giorni dopo. Ne cominciò la lettura l’indomani sera, nella stessa
cornice già descritta, e l’effetto, sul nostro piccolo circolo,
sospeso alle sue labbra, fu prodigioso. Le signore, che avevano
dichiarato di rimanere, naturalmente non restarono. Grazie a Dio!
Partirono, obbligate a rispettare gli impegni anteriori, e ardenti
di una curiosità, che assicuravano essere dovuta ai particolari con
i quali già ci aveva sovreccitati. Il piccolo uditorio finale
divenne così più intimo e più scelto, stretto attorno al focolare
in una medesima attesa d’appassionata emozione.
Dal primo di quegli interessanti
particolari avevamo saputo che il racconto del manoscritto
cominciava quando la storia, in realtà, s’era già iniziata. Per
comprenderla bisognava sapere come la vecchia amica, istitutrice di
sua sorella, v’era stata mischiata. Era la figlia minore d’un
povero pastore di campagna, e, a vent’anni, iniziava
l’insegnamento, quando un bel giorno si decise ad andare di gran
fretta a Londra, aderendo all’invito dell’autore di un annunzio,
cui ella aveva già brevemente risposto. Per presentarsi a questo
padrone in potenza, ella si recò in una casa di Harley Street, che
le parve vasta e imponente, dove venne ricevuta da un perfetto
gentiluomo, uno scapolo nel fior dell’età, un tipo, in somma, quale
mai, tranne in un sogno o in un romanzo d’altri tempi, avrebbe
potuto apparire ad una timida ed ansiosa fanciulla, da poco escita
dal suo presbiterio dell’Hampshire. Il tipo è di facile
descrizione, perché è uno di quelli che fortunatamente non
scompare. L’uomo era bello ardito e seducente, gentilmente
familiare, pieno di brio e di bontà. Egli, come non poteva non
essere, la colpì con i suoi modi d’uomo galante, con il contegno
aristocratico; ma più di tutto la sedusse, e le ispirò il coraggio
che doveva più tardi dimostrare, la maniera di presentarle la cosa:
doveva rendergli una grazia, fargli un favore per cui sarebbe stato
felice di serbarle una gratitudine eterna. Ella lo giudicò ricco,
ma di una pazzesca stravaganza. Le appariva con l’aureola
dell’ultima moda, fisicamente seducente, d’una prodigalità facile e
consueta, squisito nei modi con le donne. La vasta casa, nella
quale la riceveva, era piena di cimeli stranieri, portati dai suoi
viaggi, e di trofei di caccia. Ma egli desiderava ch’ella si
recasse immediatamente nella casa di campagna – vecchia dimora
familiare della contea d’Essex.
Era tutore di un nipotino e d’una
nipotina, cui erano morti i genitori in India. Il padre, suo
fratello minore, aveva abbracciata la carriera militare, ed era
morto due anni prima. Quei bambini, che per un così grave caso gli
eran piombati sulle spalle, erano un fardello pesante per un uomo
nelle sue condizioni, senza esperienza alcuna in proposito e senza
la minima dose di pazienza. Ne era derivata tutta una serie di
noie, e, per colpa sua certamente, una catena d’errori. Ma i poveri
orfanelli gli ispiravano una immensa pietà, e faceva per loro tutto
quel che poteva. Li aveva, ad esempio, mandati nell’altra sua casa,
essendo evidente che la campagna era quanto loro più si addiceva, e
sin dall’inizio li aveva affidati al personale più indicato, il
migliore che aveva potuto trovare, giungendo sino a separarsi, a
vantaggio loro, dai suoi propri servitori, e a recarsi a visitarli
quanto più frequentemente poteva, per vedere come andassero le
cose. Il grosso inconveniente consisteva nel fatto che,
praticamente parlando, essi non avevano altro parente che lui,
mentre i suoi affari personali gli assorbivano tutto il tempo. Li
aveva collocati a Bly, luogo di sicurezza e di salubrità
indiscutibile, e vi stavano come in casa propria; per dirigere la
casa (ma soltanto dal punto di vista materiale) vi aveva mandato
un’ottima donna, la signora Grose, antica cameriera di sua madre,
che sarebbe certamente piaciuta alla giovine visitatrice. La
signora Grose era preposta al governo della casa, e adempieva
temporaneamente al cómpito d’una specie di governante della
bambina, alla quale, fortunatamente, era molto affezionata, non
avendo figlioli propri. Il personale di servizio era numeroso; ma,
era chiaro, la signorina, che avrebbe mandato laggiù in veste
d’istitutrice, avrebbe avuto alle dipendenze tutta quella gente.
Durante le vacanze avrebbe dovuto sorvegliare anche il ragazzo, che
da un trimestre era in collegio – benché fosse ancora in
tenerissima età. Ma che si poteva far di meglio? Le vacanze stavano
per principiare, e il bambino doveva ritornare da un momento
all’altro. I fanciulli erano stati subito affidati ad una
signorina, che avevano avuto la sventura di perdere. Era una
persona raccomandabilissima, ed aveva mirabilmente esplicato le
proprie funzioni sino alla sua morte, il gran contrattempo
provocato dalla quale non aveva, precisamente, lasciato alternativa
diversa dal mandare il piccolo Miles in collegio. Da quell’epoca,
la signora Grose aveva fatto quanto stava in lei per attendere alla
buona educazione di Flora, e perché nulla le mancasse. V’era
inoltre una cuoca, una cameriera, una giovine lattaia, un vecchio
cavalluccio, un vecchio palafreniere ed un vecchio giardiniere,
tutti famigli di fedeltà sicura.
Douglas era giunto a questo punto
del racconto, quando gli venne rivolta la seguente domanda:
— E di che è morta quella prima
istitutrice? Per eccesso di buone qualità?
La risposta del nostro amico fu
pronta:
— Lo saprete al momento
opportuno: non voglio precorrere il racconto.
— Scusatemi: credevo che fosse
proprio quello che stavate facendo.
— Se io fossi stato il successore
– suggerii – avrei desiderato sapere se il posto
comportasse...
— Un pericolo di morte? – Douglas
completò il mio pensiero. – Sì, ella desiderò saperlo, e, in fatti,
lo seppe, come vi dirò domani. Fra tanto, le cose le apparvero
veramente sotto un aspetto un po’ inquietante: ella era giovine,
nervosa, inesperta, aveva dinanzi un susseguirsi di gravi doveri,
in un ambiente molto limitato; in somma, sarebbe stata circondata
da una grande solitudine. Esitò per due giorni, meditò, chiese
consigli; ma poiché l’onorario offerto superava quant’altro mai
potesse sperare, dopo un secondo colloquio, firmò
l’assunzione.
Douglas fece una pausa, ed io ne
approfittai per insinuare questa osservazione, a beneficio di tutta
l’assemblea:
— La morale di tutto questo è che
l’affascinante signore esercitava una seduzione irresistibile, cui
ella cedette.
Egli si alzò, e, come nella sera
precedente, avvicinandosi al fuoco, respinse col piede un tizzone,
e restò per un momento con la schiena voltata.
— Ella lo vide solo due
volte.
— Sì, ma proprio in questo è la
bellezza della sua passione.
Douglas, sentendosi dir questo,
con mio leggero stupore, mi si rivolse:
— Sì, ne fu veramente la
bellezza. Altre – continuò – non ne furono soggiogate. Egli le
manifestò francamente le difficoltà, che incontrava nelle sue
ricerche; a parecchie candidate le condizioni erano parse
impossibili: in certo qual modo, ne sembravano spaventate, e, più
ancora, quando venivano a conoscere la condizione principale.
— Che era?...
— Ella non doveva mai disturbarlo
per nessun motivo; ma mai, assolutamente mai: né chiamarlo, né
lamentarsi, né scrivergli; doveva risolvere da sola tutte le
difficoltà che avrebbe incontrate, ricevere dal notaio il danaro
necessario, provvedere a tutto, e lasciarlo tranquillo. Ella glielo
promise, e mi ha confessato che quando egli le tenne per un istante
le mani nelle sue, sollevato e felice, ringraziandola del
sacrificio, si era già sentita ricompensata.
— E fu quella tutta la
ricompensa? – chiese una signora.
— Non lo rivide mai.
— Oh! – esclamò la signora.
Il nostro amico ci lasciò
immediatamente, sicché fu questa l’ultima parola significativa
detta sull’argomento, sino alla sera seguente, in cui, seduto nella
poltrona più comoda, accanto al fuoco, egli aprì un albo sottile
con la coperta d’un rosso stinto, i tagli dorati nel modo
antico.
La lettura occupò più d’una
serata; ma, alla prima occasione, la stessa signora rivolse
un’altra domanda:
— Come s’intitola?
— Non ha titolo.
— Oh! non conta: ne ho uno io –
dissi. Ma Douglas, senza udirmi, aveva incominciato a leggere, con
un’articolazione netta e pura, che rendeva come sensibile
all’orecchio la bellezza della calligrafia dell’autore.
I.
Ricordo l’inizio soltanto come un
succedersi d’alto e di basso, un va e vieni d’emozioni diverse, ora
naturalissime, ora ingiustificate. Dopo quello slancio d’energia
che, in città, mi aveva trascinato ad accettare il suo invito, ebbi
due pessime giornate: tutti i miei dubbi s’erano ridestati, ero
sicura d’aver preso la peggiore delle decisioni. In questo stato
d’animo, trascorsi le lunghe ore del viaggio in una diligenza
sobbalzante e mal molleggiata, che mi condusse alla meta designata.
Vi dovevo trovare una carrozza della casa cui ero diretta, e vi
trovai infatti, verso la fine d’un pomeriggio di giugno, un comodo
veicolo, che m’aspettava. Tutta l’energia, nell’attraversare, in
quell’ora, in una giornata magnifica, un paesaggio la cui ridente
bellezza sembrava augurarmi il benvenuto, mi ritornò, e, allo
svolto del viale, m’ispirò un alato ottimismo, il quale non poteva
essere se non la reazione ad un profondo scoraggiamento. Suppongo
che mi aspettassi, o temessi, alcunché di così spiacevole che lo
spettacolo che m’accolse costituì una bella sorpresa. Ricordo la
piacevole impressione che produsse in me la grande facciata
luminosa, con le finestre tutte aperte, donde, dissimulate tra le
fresche cortine, due domestiche guardavano fuori; ricordo il prato
ed i fiori fulgenti, lo stridere delle ruote sulla ghiaia, le vette
degli alberi che si congiungevano, mentre al di sopra le cornacchie
descrivevano grandi cerchi, strillando nel cielo dorato. La
grandiosità dello scenario m’impressionò: era ben diverso dalla
modesta dimora nella quale avevo vissuto sino a quel giorno! Una
donna cortese, che teneva per mano una bambina, apparve subito
sulla porta, e mi fece una riverenza cerimoniosa come se fossi
stata la padrona di casa, o un’ospite di grande importanza.
L’impressione che del luogo m’era stata data a Harley Strett era
molto più modesta: ricordo che, per questo, ritenni il proprietario
più gentiluomo ancora, e pensai che i piaceri del cómpito
affidatomi potessero essere superiori a quelli che mi aveva
lasciato intravvedere.
Non provai delusione di sorta
sino al giorno seguente, perché trascorsi ore trionfali a far la
conoscenza della mia più piccola allieva. Quella bambina, che
accompagnava la signora Grose, mi colpì immediatamente come una
creatura talmente squisita che doveva essere una vera gioia
occuparsi di lei. Non avevo mai veduta una bambina più bella, e,
più tardi, mi chiesi come mai il padrone non me ne avesse parlato.
Quella prima notte dormìi poco: ero troppo agitata, e ricordo che
ne rimasi colpita, ossessionata, accompagnandosi l’insonnia
all’impressione prodotta dalla generosità dell’accoglienza che
m’era stata offerta. La camera, imponente e spaziosa – una delle
più belle della casa, – l’ampio letto, che mi sembrava un letto di
parata, i pesanti cortinaggi disegnati a fogliame, le alte
specchiere nelle quali, per la prima volta, mi vedevo dalla testa
ai piedi, – tutto mi colpiva (nel modo stesso dello strano fascino
della piccola allieva), come fosse un ordine naturale delle cose di
quel luogo. Sin dal primo giorno, furono anche una cosa del tutto
naturale i miei rapporti con la signora Grose: durante il viaggio
in diligenza vi avevo pensato con inquietudine. L’unico motivo che,
a prima vista, avrebbe potuto rinnovare quell’inquietudine era la
sua gioia anormale per il mio arrivo. Sin dalla prima mezz’ora, la
trovai contenta a tal punto che, positivamente, ella si vigilava –
era una grossa donna, semplice, aperta e sana – per non dimostrarlo
troppo. Mi stupìi persino un poco, in quel momento, ch’ella
preferisse non farlo vedere, ed è evidente che, riflettendoci,
avrei potuto avere qualche sospetto in proposito e provarne
malessere.
Ma era un conforto pensare che
malessere alcuno non poteva derivare da quella beatificante
visione, ch’era l’imagine radiosa della bambina, visione la cui
angelica bellezza, più di tutto il resto, probabilmente, era causa
di quell’agitazione, che mi fece alzare prima di giorno e camminare
per la stanza, col desiderio d’impossessarmi interamente del
paesaggio e della veduta; di spiare, dalla finestra, l’aurora
incipiente d’un giorno d’estate; di scoprire le altre parti della
casa, che non potevo abbracciare con lo sguardo, e, mentre
nell’ombra svanente gli uccelli cominciavano a chiamarsi, udir
forse di nuovo certi suoni meno naturali e provenienti non
dall’esterno bensì dall’interno, che imaginavo d’aver udito. Per un
attimo, m’era parso d’afferrare, debole e in lontananza, il grido
d’un bimbo; quindi, ero quasi incoscientemente trasalita, come per
il fruscío di un passo leggero davanti alla mia porta. Ma tali
imaginazioni non erano abbastanza insistenti, perché non potessi
facilmente respingerle, e mi tornano in mente soltanto alla luce o,
piuttosto, all’ombra, degli avvenimenti posteriori. Non v’era
dubbio che sorvegliare, istruire, «formare» la piccola Flora, non
dovesse essere opera d’una vita utile e felice. Dopo cena, avevamo
deciso che, trascorsa la prima notte, ella avrebbe, naturalmente,
dormito in camera mia, dove il suo lettino bianco era già stato
collocato a questo scopo. Dovevo occuparmi completamente di lei,
che era rimasta una notte ancora con la signora Grose, soltanto per
riguardo al mio inevitabile imbarazzo ed alla sua naturale
timidezza. Ma ero sicura che, non ostante questa timidezza, me la
sarei affezionata rapidamente. Cosa bizzarra: la fanciulla, in
proposito, s’era spiegata francamente e coraggiosamente; ci aveva
lasciate, senza impaccio alcuno, proprio con la dolce e profonda
sicurezza d’un angelo di Raffaello, discuterne, ammetterlo e
sottometterci. Una parte della mia simpatia per la signora Grose
derivava dal piacere che le procurava la mia ammirazione e la mia
meraviglia, mentre ero seduta con l’allieva, davanti ad una cena di
pane e di latte, illuminata da quattro candelieri, la fanciulla
dirimpetto a me sul suo predellino, in grembiule, col bavagliolo.
Davanti a Flora, naturalmente, v’erano molte cose che potevamo
comunicarci soltanto con sguardi allegri e significativi, o con
indirette ed oscure allusioni.
— E il bambino le rassomiglia? è
altrettanto notevole?
Non era conveniente, come già ci
eravamo dette, lusingare troppo apertamente i fanciulli.
— Oh! signorina, notevolissimo!
Voi trovate la bambina gentile! – E stava in piedi, con un piatto
in mano, guardando con un sorriso raggiante la piccina, mentre i
soavi occhi celestiali di questa andavan da l’una all’altra di noi,
senza che nulla in loro ci spingesse a smettere le lodi.
— Ebbene, sí! in fatti, mi
pare...
— Vi estasierete per il
signorino.
— Mi sembra proprio d’essere qui
solo per questo... per entusiasmarmi di tutto. Mi par tuttavia di
capire – soggiunsi, quasi mio malgrado – che mi lascio trascinare
un po’ troppo facilmente. Anche a Londra m’è capitata la stessa
cosa.
Vedo ancora il grasso volto della
signora Grose, mentre penetrava il significato delle mie
parole.
— Ad Harley Street?
— A Harley Street!
— Ebbene, signorina, non siete la
prima, e né meno sarete l’ultima.
— Oh! – risposi, riuscendo a
ridere, – non ho la pretesa d’esser la sola! Ad ogni modo, da quel
che ho compreso, l’altro allievo arriva domani?
— Non domani, signorina: venerdì.
Arriverà come voi, con la diligenza, sotto la sorveglianza del
cocchiere: lo manderemo a prendere con la stessa carrozza che vi
venne a ricevere.
Saggiai allora se fosse
opportuno, nel tempo stesso che gentile ed amichevole, recarmi con
la sorellina all’arrivo della diligenza. La signora Grose accolse
così favorevolmente la proposta che mi dette l’impressione
d’assumere, per così dire, il confortante impegno – venne sempre
fedelmente mantenuto, grazie a Dio! – d’esser del mio parere su
tutti gli argomenti. Come era contenta della mia presenza!
Quello che il giorno dopo provai,
penso, non può in verità chiamarsi una reazione all’allegria
dell’arrivo: non era, probabilmente, nella peggior delle ipotesi,
se non una leggera oppressione, derivata da una più precisa
osservazione delle circostanze che mi circondavano, quando, per
esprimermi così, feci il giro di esse, le esaminai, me ne penetrai.
Queste circostanze avevano un’estensione ed erano una massa tale
come non v’ero preparata. Quando mi ci trovai di fronte, me ne
sentii dapprima vagamente confusa e, tuttavia, assai orgogliosa. Le
lezioni propriamente dette risentivano certamente della mia
agitazione: pensavo che fosse primo mio dovere creare un’intimità
tra la piccina e me, adoperando tutte le seduzioni delle quali
disponevo. Trascorsi dunque la giornata fuori, con lei. Convenimmo
tra di noi, con sua grande sodisfazione, ch’ella, ed ella sola, mi
avrebbe fatto visitare la casa: me la fece visitare a passo a
passo, stanza per stanza, nascondiglio per nascondiglio,
intrattenendomi con un divertente e delizioso chiacchierío
fanciullesco, che in una mezz’ora conseguí il risultato di fare di
noi un paio di grandi amiche. Mi colpí, durante il nostro giro,
ch’ella, bambina com’era, avesse tanto coraggio e tanta sicurezza.
Nelle camere vuote e negli oscuri corridoi, nelle scale a
chiocciola, sulle quali io stessa ero talora obbligata a fermarmi,
e persino sul sommo d’una vecchia torre con caditoi, che mi dava la
vertigine, il suo cinguettío fanciullesco, la tendenza a dar
spiegazioni piuttosto che a chiederne, tutto il suo modo di fare,
esultante e dominatore, mi stordiva e mi trascinava. Non ho mai più
veduto Bly dal giorno in cui ne sono partita, e, sicuramente,
apparirebbe ora molto diminuito ai miei occhi invecchiati e delusi;
ma, mentre la piccola guida dai capelli d’oro e dalla vestina
azzurra, mi saltava davanti nei giri dei vecchi muri, e sgambettava
lungo i corridoi, mi sembrava di vedere un castello da romanzo,
abitato da un folletto dalle guance rosa, un luogo appetto al quale
avrebbero fatto cattiva figura le fiabe e le più belle favole per
bambini. Non era tutto un racconto, un racconto sul quale
sonnecchiavo e fantasticavo? No: era una vasta casa vecchia e
brutta, ma comoda, che aveva conservate alcune parti di una
costruzione più antica, metà distrutta e metà utilizzata. Il nostro
piccolo gruppo quasi mi sembrava vi fosse smarrito come un pugno di
passeggeri su un grande bastimento alla deriva. E, cosa strana, il
timone lo tenevo io!
II.
Me ne resi ben conto quando, due
giorni dopo, in carrozza, andai con Flora incontro al signorino,
come diceva la signora Grose; tanto più che un incidente, accaduto
la seconda sera, mi aveva profondamente sconcertata. Il primo
giorno, come ho detto, era stato nel suo insieme rassicurante. Ma
ne dovevo veder cambiare il tono. Il corriere di quella sera – che
giunse tardi – portava una lettera per me. Era del mio padrone:
conteneva solo poche parole, e ne includeva un’altra diretta a lui,
ma che non era stata aperta. «La lettera acclusa proviene dal
direttore del collegio, il quale è un insopportabile seccatore.
Vogliate leggerla, dirimere la questione con lui, e, soprattutto,
non parlarmene. Non una parola. Parto!» Aprirla mi costò un grande
sforzo; uno sforzo tale che m’occorse molto tempo per decidermi.
Finalmente, mi portai in camera la lettera, sempre chiusa, e la
lessi soltanto nel momento in cui stavo per coricarmi. Avrei fatto
meglio ad aspettare sino al giorno dopo, perché ne derivò una
seconda notte insonne. Il giorno dopo ero molto preoccupata, non
avendo alcuno cui chiedere consiglio; ma la preoccupazione
s’accrebbe a tal punto che decisi di confidarmi almeno con la
signora Grose.
— Che vorrà mai dire? Il bambino
è scacciato dal collegio?
Fui impressionata dallo sguardo
che mi lanciò; poi, visibilmente, con una indifferenza rapidamente
riacquistata, cercò di riprendersi.
— Ma tutti i collegiali non son
forse?...
— Rimandati a casa? Sì, ma
soltanto per la durata delle vacanze. Miles, invece, non potrà più
ritornare in collegio.
Ella, sotto il mio sguardo
attento, perse la sicurezza ed arrossì.
— Non vogliono tenerlo?
— Vi si rifiutano, nel modo più
reciso.
Allora, ella alzò su di me gli
occhi, che aveva distolti, e li vidi pieni di lacrime
sincere.
— Che ha fatto?
Esitai: poi ritenni fosse meglio
farle leggere la lettera. Gliela tesi, ma quel gesto le fece
mettere con grande semplicità le mani dietro la schiena, senza
prenderla. Scosse tristemente il capo:
— Queste cose non son fatte per
me, signorina...
La mia consigliera non sapeva
leggere!