LIBRO PRIMO
I
Un chiaro giorno di maggio
dell’anno 1868 un signore stava comodamente allungato sul grande
divano circolare che in quel tempo occupava il centro del Salon
Carré del Museo del Louvre. Questo spazioso sofà è stato tolto via,
ora, con gran rimpianto di tutti gli amatori di belle arti dalle
ginocchia comode, ma il signore in questione aveva preso possesso
di quel morbidissimo divano e, con la testa gittata all’indietro,
le gambe distese, guardava intensamente la bella Madonna del
Murillo portata dalla luna e godeva con beatitudine della propria
agiata posizione. S’era tolto il cappello e gli aveva gittato là
accanto la piccola guida rossa e un cannocchiale da teatro. Faceva
caldo e, sudato pel camminare che aveva fatto, si andava passando
ripetutamente il fazzoletto sulla fronte con un gesto un poco
stanco. Non sembrava però uomo a cui la stanchezza fosse
famigliare: lungo, slanciato, muscoloso, pareva possedere quella
specie di vigore che si potrebbe chiamare «inflessibilità». Ma il
trambusto che si era dato quel giorno era stato per lui di una
qualità alquanto insolita, poiché spesso egli aveva compiuto grandi
fatiche fisiche che lo avevano lasciato meno stanco di quel suo
tranquillo passeggiare attraverso il Louvre. Aveva passato in
rassegna tutti i quadri che Baedeker segnalava con un asterisco in
quelle sue formidabili pagine di stampa minuta: la sua attenzione
era stata estremamente affaticata, i suoi occhi erano abbagliati,
ed egli sedeva là in preda ad un estetico mal di capo. Ma oltre a
ciò aveva osservato anche tutte le copie che intorno ai quadri
andavano progredendo per mano di quelle innumerevoli giovani donne
le quali in Francia, vestite in impeccabili toilettes, sogliono
consacrarsi alla divulgazione dei capolavori; e, se vogliamo dire
il vero, aveva ammirato spesso piú le copie degli originali. I
tratti del suo volto lo rivelavano per un uomo sagace, abile, e in
verità egli aveva spesso passato notti intere sopra ispidi fasci di
conti e udito il gallo cantare senza pur emettere uno sbadiglio. Ma
Raffaello, Tiziano e Rubens erano una nuova aritmetica per lui e
per la prima volta andavano inspirando al nostro amico una leggera
diffidenza verso se stesso.
Un osservatore che appena fosse
stato sensibile al tipo nazionale non avrebbe avuto alcuna
difficoltà a definire l’origine etnica di questo inesperto amatore
d’arte, e avrebbe potuto sentire un certo umoroso sentore della
quasi ideale perfezione con cui egli colmava il modello nazionale
del suo paese. Era un potente tipo d’americano, ma era soprattutto
fisicamente un bell’uomo. Dimostrava di possedere quella specie di
salute e di vigore che giunti al massimo grado sono molto
impressionanti: quell’aspetto fisico che chi lo possiede in genere
non fa nulla per conservare. Era forte e robusto senza sapere di
esserlo. Se doveva recarsi in qualche luogo lontano, ci andava
senza pensare di compiere un grande sforzo. Non aveva teorie né sui
bagni freddi né sull’uso dei clubs indiani; non era né un
canottiere né un tiratore né uno spadaccino (non aveva mai avuto
tempo per simili spassi) e quasi non sapeva che il cavalcare è
raccomandabile per certe forme d’indigestione. Era per indole un
uomo temperato, ma la sera prima di quella sua visita al Louvre
aveva pranzato al Café Anglais perché gli avevano detto che era
quella un’esperienza da non trascurare, poi aveva dormito poco meno
che il sonno del giusto. La sua aria, il suo portamento consueti
erano piuttosto rilassati e svagati, ma quando si raddrizzava sotto
una speciale inspirazione pareva un granatiere in parata. Non
fumava mai; gli era stato assicurato che il sigaro è eccellente per
la salute ed egli era anche capace di crederci, ma s’intendeva di
tabacco quanto di scienza omeopatica. Aveva una testa assai ben
fatta, con una ben modellata simmetria tra la parte frontale e
l’occipitale, e una quantità di dritti e scuri capelli piuttosto
aridi. Bruno di carnagione, il suo naso possedeva una curva
alquanto accentuata e baldanzosa. L’occhio era di un grigio chiaro
e freddo, e il viso, tranne che per un paio di baffi abbondanti,
era tutto sbarbato. Aveva mascelle piatte e un collo tendinoso
frequente nel tipo americano; ma le tracce del suo carattere etnico
si ritrovavano piú nell’espressione che nelle fattezze del viso, ed
era a questo riguardo che l’aspetto del nostro amico appariva
oltremodo eloquente. Il sottile osservatore che abbiamo supposto
poco fa, dopo aver ben considerato il carattere espressivo della
sua persona poteva tuttavia trovarsi imbarazzato nel descriverla.
Essa aveva quella tipica vaghezza che non è vacuità,
quell’insignificante candore che non è semplicità, quell’aria di
non essere legato a niente in particolare come di uno che si trova
in un’attitudine di benevola accoglienza in tutte le circostanze
della vita, che si trova sempre a suo agio dappertutto, cosí
caratteristica di molte facce americane. Ma era soprattutto
nell’occhio che stava scritta la storia dell’uomo: un occhio in cui
innocenza ed esperienza si fondevano in modo singolare.
Quell’occhio dava contraddittorie suggestioni, e se pur non era
l’occhio sfolgorante dell’eroe da romanzo, voi potevate trovare in
esso quasi ogni cosa che vi andavate cercando. Freddo e pur
amichevole, franco e pur cauto, sagace e pur credulo, positivo e
pur scettico, pieno di confidenza e pur riservato, estremamente
intelligente ed estremamente lieto d’umore, esso possedeva qualcosa
di vagamente sprezzante pur nella sua cordialità e qualcosa di
profondamente rassicurante pur nel suo riserbo. Il taglio dei suoi
mustacchi di gentleman, con le due pieghe premature al di sopra di
quelli e la foggia del suo vestito in cui uno sparato di camicia ed
una cravatta d’azzurro chiaro facevano forse troppo macchia,
completavano il suo ritratto. Noi lo abbiamo avvicinato forse in un
momento non troppo favorevole, egli certo non stava posando per un
ritratto. Ma disattento, piuttosto imbarazzato della questione
estetica e colpevole del triste errore (come da ultimo abbiamo
scoperto) di confondere il merito dell’artista con quello della sua
opera (poiché in verità egli ammirava la deforme Madonna della
signorina dalla pettinatura di maschietto, vedendo ch’ella stessa
vi dava tanta importanza), egli è una conoscenza discretamente
promettevole. Risolutezza, salute, giocondità, ricchezza erano
tutte cose che egli aveva a sua disposizione; evidentemente era
uomo pratico, ma l’idea di praticità nel suo caso aveva limiti
indefiniti e misteriosi che invitavano l’immaginazione a
lavorare.
Di tanto in tanto, mentre la
piccola copiatrice procedeva nel suo lavoro, dava un’occhiata
interrogativa al suo ammiratore. Pareva che per lei coltivare le
belle arti volesse dire compiere una quantità di gesti marginali,
come allontanarsi un poco a contemplare la pittura a braccia
conserte col capo piegato or da una parte or dall’altra, stringersi
tra le dita un mento pieno di fossette sospirando e corrugando la
fronte e picchierellando il piede per terra, cacciarsi febbrilmente
le dita fra le trecce in disordine per cercarvi un’errabonda
forcina... I quali gesti erano accompagnati da un’occhiata
irrequieta che essa lanciava meglio che altrove sopra il signore in
questione. Finalmente costui si alzò repentinamente, si mise il
cappello e si accostò a lei. Poi collocatosi davanti alla copia, la
contemplò per qualche momento, durante il quale essa fece mostra di
non accorgersi di lui. Quindi volgendosi a lei con la sola parola
che costituiva il forte del suo vocabolario francese e tenendo
levato il dito in modo da illuminarne il significato: – Combien? –
domandò d’un tratto.
La pittrice lo fissò un poco con
gli occhi sbarrati, strizzò un poco le labbra, alzò le spalle, poi
deposti pennello e tavolozza si mise a stropicciarsi le mani.
— Quanto? – chiese il nostro
amico in inglese. – Combien?
— Il signore desidera forse
acquistare il mio quadro? – domandò la signorina in francese.
— Molto grazioso, splendide.
Quanto? – ripeté l’Americano.
— Piace al signore la mia piccola
copia? È un soggetto molto bello – fece la signorina.
— La Madonna, sí... Non sono
cattolico, ma voglio acquistarla ugualmente. Combien? Me lo scriva
qui. – E tratta di tasca una matita le mostrò un foglietto volante
nella sua guida. L’altra rimase là a fissarlo un poco grattandosi
il mento con la matita. – Non è forse in vendita? – egli le
domandò. E poiché ella continuava a riflettere e a fissarlo con
occhi che, nonostante il suo desiderio di stimare cosa comune
quella velleità di mecenatismo, tradiva una quasi commovente
incredulità, egli temette d’averla quasi offesa. Ella cercava
semplicemente di parer indifferente e si chiedeva tra sé fin dove
potesse arrivare. – Non ho errato?... Pas insulté, non? – continuò
a dire il suo interlocutore. – Lei comprende un poco
l’inglese?
L’attitudine della signorina per
definire le cose alla svelta era piuttosto notevole. Lo fissò
ancora col suo sguardo acuto e sagace e gli chiese se non parlava
francese. Poi: – Donnez! – fece bravamente. E presa la guida
aperta, nell’angolo superiore del foglietto scrisse una cifra a
carattere minuto e molto nitido. Quindi ritornò il libro al suo
interlocutore e riprese il pennello.
Il nostro amico lesse la cifra:
«2000 franchi». Non disse nulla pel momento, ma guardando la
pittura mentre la copiatrice aveva ricominciato a menare svelte
pennellate coi suoi colori: – Per una copia non è troppo? – le
domandò finalmente. – Pas beaucoup?
La signorina rialzò gli occhi
dalla tavolozza, lo squadrò da capo a piedi, e inspirata da
un’ammirevole sagacità a dar la piú esatta delle risposte:
— Sí, è molto. Ma la mia copia ha
notevoli qualità e non merita meno.
Il signore non capiva il
francese, ma ho detto che era intelligente e qui è il momento
opportuno per provarlo. Egli comprese per naturale istinto il
significato della frase di lei e questo lo condusse a pensare che
ella doveva essere onesta. Bellezza, talento, virtú, ella tutto
aveva! – Ma lei deve finirlo – egli disse – finish, sa? – E le
additò nella figura una mano che non aveva ancora dipinto.
— Oh, sarà finito alla
perfezione: alla perfezione delle perfezioni! – esclamò la
signorina. E per confermar la promessa, mise giú una pennellata di
rosa sulla guancia della Madonna.
L’Americano corrugò la fronte. –
Ah, troppo rosso, troppo rosso! – fece additando il Murillo. – È
piú delicato là sull’originale.
— Delicato? Oh, verrà delicato,
signore, verrà delicato come un biscuit de Sèvres. Ora lo smorzerò
un poco di tono. Conosco tutti i segreti della mia arte... E dove
desidera che il quadro le venga recapitato? Il suo indirizzo,
prego?
— Il mio indirizzo? – Egli trasse
una carta da visita dal suo notes e vi scrisse su qualcosa, poi
dopo aver esitato un momento, soggiunse: – Però se quando la copia
sarà finita non dovesse piacermi non sarò mica obbligato a
prenderla.
La signorina sembrò buona
indovina quanto lui. – Oh, io sono certa che il signore non è
capriccioso – ella disse con un sorriso maliziosetto.
— Capriccioso? – e il signore
cominciò a ridere. – Oh, non sono capriccioso affatto. Sono fedele
anzi, molto costante. Comprenez?
— Il signore è costante, capisco
perfettamente. È questa una virtú rara. In compenso lei avrà il suo
quadro al piú presto possibile: la settimana prossima... appena
sarà asciugato. Prenderò la carta da visita del signore. – E la
prese e lesse il suo nome: «Christopher Newman». – Poi si provò a
ripeterlo forte e rise alla sua cattiva pronuncia. – I vostri nomi
inglesi son cosí buffi!
— Buffi? – disse il signor Newman
ridendo lui pure. – Non ha mai udito parlare di Cristoforo
Colombo?
— Bien sûr! Colui che ha
inventato l’America. Un grand’uomo. È il suo patrono?
— Mio patrono?
— Il suo santo nel
calendario.
— Oh, appunto, i miei genitori mi
hanno dato questo nome per lui.
— Il signore è americano?
— Non lo vede? – egli
domandò.
— E lei porterà il mio piccolo
quadro laggiú? – essa soggiunse chiarendo la frase con un breve
gesto.
— Oh io intendo acquistare tanti
quadri... beaucoup, beaucoup – disse Cristoforo Newman.
— Tanto maggior onore per me –
fece la ragazza – poiché io son sicura che il signore ha molto buon
gusto.
— Ma lei mi deve dare la sua
carta da visita, – Newman disse. – La sua carta, sa?
L’altra parve adombrarsi per un
istante e poi disse: – Mio padre verrà da lei.
Stavolta i poteri
d’interpretazione di Newman fallirono. – La sua carta, il suo
indirizzo – ripeté semplicemente.
— Il mio indirizzo? – disse la
signorina, poi con una breve alzata di spalle: – Fortuna che lei è
americano! È la prima volta che do il mio biglietto da visita a un
signore. – E tolto di tasca un portamonete piuttosto unto, ne
trasse una lucida carta da visita che porse al suo mecenate.
Vi stava scritto nitidamente a
pennello, tra grandi svolazzi: «M.lle Noémie Nioche». Ma il signor
Newman al contrario della sua interlocutrice lesse il nome con
perfetta gravità; tutti i nomi francesi gli riuscivano egualmente
curiosi.
— Ed ecco qua mio padre ch’è
venuto per riaccompagnarmi a casa – fece la signorina Noemi. – Egli
sa l’inglese e potrà intendersi con lei. E si volse a salutare un
piccolo vecchio che si inoltrava nella sala, con passo strascicato,
guardando Newman al di sopra degli occhiali.
Il signor Nioche sopra un piccolo
viso, umile, bianco e vacante portava una lucida parrucca di un
singolare colore che lasciava quel viso quasi egualmente
inespressivo come quello di certe anonime testiere sopra le quali
sogliono siffatti articoli apparire nelle botteghe dei
parrucchieri. Era una squisita immagine di nobiltà decaduta. Il suo
pastranuccio mal fatto, spazzolato le mille volte, i suoi guanti
rammendati, i suoi stivali fortemente lucidati, il suo cappello
sudicetto e assettatuzzo attestavano di una persona che aveva
subíto dei tracolli e che si aggrappava allo spirito di un vestire
decente quantunque la lettera di esso fosse scomparsa ormai senza
speranza. Tra l’altro il signor Nioche aveva perduto anche il
coraggio. Le avversità non solo lo avevano rovinato, ma spaventato,
ed egli si accingeva a passare attraverso il restante della sua
vita in punta di piedi per non scatenare i fati avversi. Se poi
quello strano signore stava dicendo alcunché di sconveniente alla
sua figliuola, il signor Nioche lo avrebbe bruscamente pregato,
come particolare favore, di astenersene: quantunque ammettesse che
era presuntuoso da parte sua domandare simili favori.
— Il signore ha comperato il mio
quadro – fece la signorina Noemi. – Quando sarà finito glielo
porterai a casa in un cab.
— Con un cab! – esclamò il signor
Nioche e sbarrò tanto d’occhi, smarritamente, come avesse veduto
sorgere il sole a mezzanotte.
— È lei il padre della signorina?
– fece Newman. – Credo mi abbia detto che lei parla inglese.
— Parlare inglese?... Sí – fece
il vecchio stropicciandosi adagio il dorso delle mani. – Glielo
porterò in un cab.
— Digli qualcosa allora – esclamò
Noemi. – Ringrazialo un poco... ma non troppo.
— Un poco, figlia mia, un poco –
disse il signor Nioche, perplesso. – Quanto?
— Duemila! – profferí Noemi. – Ma
non far tanto chiasso perché altrimenti c’è caso ch’egli si
riprenda la parola.
— Duemila! – esclamò il vecchio,
e cominciò a frugarsi addosso per cercare la sua tabacchiera. Poi
guardò Newman da capo a piedi, guardò la sua figliuola, guardò il
quadro. – E stai attenta a non peggiorarlo, ora! – egli le gridò in
modo quasi sublime.
— Dobbiamo andare a casa – disse
Noemi. – È stata una buona giornata di lavoro. Ma tu stai attento
di portarlo bene. – Poi cominciò a raccogliere assieme i suoi
ordegni di lavoro.
— Come posso ringraziarla? – fece
il signor Nioche. – Il mio inglese non basta.
— Vorrei io parlare francese cosí
bene! – disse Newman di buon umore. – La sua figliola è molto
brava.
— Oh signore! – e Nioche lo
guardò al di sotto degli occhiali con occhi pieni di lagrime
scrollando il capo piú volte con infinita tristezza. – Essa ha
avuto un’educazione... très supérieure! Nulla ho risparmiato:
lezioni di pastello a dieci franchi l’una, lezioni di pittura a
olio a dodici franchi. Io non badavo a spendere. Oh, essa è una
vera artiste!
— E mi ha detto di avere avuto
dei tracolli? – domandò Newman.
— Tracolli? Oh signore,
disgrazie, terribili disgrazie!
— Insuccessi negli affari,
eh?
— Molti, molti insuccessi!
— Ma, niente paura, si rimetterà
in gamba ancora – proruppe Newman allegramente.
Il vecchio piegò il capo da un
lato e lo fissò con espressione penosa come si trattasse di uno
scherzo crudele.
— Che cosa dice? – domandò
Noemi.
Il signor Nioche annusò una presa
di tabacco.
— Dice che potrò rifare la mia
fortuna.
— Forse ti potrà aiutare lui. E
che altro dice?
— Dice che sei molto brava.
— È possibile. Del resto lo credi
anche tu, papà.
— Se lo credo, figliola! Con
questa testimonianza! – E si volse di colpo a gettare uno sguardo
pieno d’orgoglio e d’ammirazione sull’ardito scarabocchio della
figliola.
— Domandagli allora se gli
piacerebbe imparare un po’ il francese.
— Imparare il francese?
— Sí, prendere qualche
lezione.
— Prendere lezioni da te.
— Ma da te!
— Da me, bimba? Ma come potrei
dar lezioni io?
— Pas de raisons! Domandaglielo,
e subito! – fece Noemi, asciutta.
Il signor Nioche rimase
atterrito, ma sotto lo sguardo della figliola si riprese e facendo
del suo meglio per sorridere l’obbedí.
— Vorrebbe ella – chiese con
implorante tremore a Newman – vorrebbe ella avere qualche nozione
del nostro bel linguaggio?
— Studiare il francese? – fece
Newman guardandolo con stupore.
Il signor Nioche strinse insieme
la punta delle dita e alzò un poco le spalle. – Una piccola
conversazione!
— Conversazione... Ecco, sí –
mormorò la signorina Nioche che aveva colto al volo le parole. –
Conversazione della miglior società.
— La nostra conversazione
francese è famosa e lei lo sa – s’azzardò ad aggiungere il signor
Nioche. – È un gran dono.
— Ma non è terribilmente
difficile? – chiese Newman con semplicità.
— Non per un uomo d’esprit come
il signore, per uno come lei che ammira la bellezza sotto ogni
forma! – E qui il signor Nioche lanciò una occhiata significativa
alla Madonna della figliola.
— Non mi ci vedo a chiacchierare
in francese, ecco – fece Newman ridendo. – Ma comunque suppongo che
piú cose l’uomo sa, meglio sia.
— Il signore l’ha detta giusta.
Hélas, oui!
— Penso che mi gioverà molto, per
apprendere la vostra lingua, andare un po’ a zonzo per
Parigi.
— Ah, ci sono molte cose che al
signore occorrerà di dire: cose difficili!
— Ogni cosa ch’io voglio dire è
difficile. Ma lei dà lezioni?
Il povero Nioche fu imbarazzato a
rispondere. Sorrise con aria ancor piú supplichevole. – Io non sono
un professore regolare. – Poi alla figliola: – Non posso mica
dirgli che son professore, eh?
— Fagli capire che sarebbe una
vera fortuna per lui – ribatté la signorina. – Un homme du monde,
un gentleman che discorre con un altro! E tu ricòrdati ciò che
sei... ciò che sei stato.
— Comunque mai un maestro di
lingua! Non lo fui pel passato e tanto meno adesso. E se mi chiede
il prezzo delle lezioni?
— Non te lo chiederà.
— Posso rimettermi a lui?
— No, non è di buon gusto.
— E se me lo chiede?
Noemi si era messa in capo la
cuffietta e stava allacciandosi i nastri. Poi se li ravviò un poco
con la mano spingendo in fuori il suo grazioso musetto, e: – Dieci
franchi – disse rapida.
— Oh, figlia mia, io non oserò
mai domandargli un simile prezzo.
— E non osare! Egli non vorrà
richiedertene finché le lezioni non saran finite, e allora lo farò
io il prezzo.
Il signor Nioche si rivolse al
fiducioso forastiero, strofinandosi le mani con l’aria di un uomo
colpevole, la quale se non era piú intensa era soltanto perché era
d’abitudine cosí strana e sorprendente. Non venne in mente a Newman
di richiederlo di qualche garanzia circa la sua abilità ad insegnar
lingue; immaginò, naturalmente, che il signor Nioche conoscesse la
sua e quell’aria d’umile riserbo che egli aveva era appunto per lui
la piú perfetta espressione di quell’aspetto che l’Americano, per
vaghe ragioni, associava al tipo del vecchio insegnante di lingue
forastiere. Newman non aveva mai meditato sui procedimenti della
scienza filologica. Aveva l’impressione che cercar di scoprire le
misteriose corrispondenze tra i vocaboli del suo inglese famigliare
e quelli che trovava usati correntemente in quella straordinaria
Parigi si dovesse alla fine risolvere in una quantità di ridicoli
sforzi muscolari da parte sua. – Come ha imparato l’inglese lei? –
domandò al vecchio.
— Quand’ero giovane, prima della
mia disgrazia. Oh ero ben sveglio e intelligente allora! Mio padre
era un gran commerçant e per qualche anno mi collocò presso
un’amministrazione in Inghilterra. Cosí un po’ d’inglese m’è
rimasto attaccato. Ma poi lo scordai.
— Quanto francese posso imparare
in un mese?
— Che cosa dice? – fece la
signorina Noemi.
Il signor Nioche le spiegò.
— Ma egli parlerà come un angelo!
– ribatté la figlia.
Però quella nativa integrità che
il signor Nioche aveva vanamente esercitata per appoggiare la sua
commerciale prosperità qui brillò di nuovo: – Dame, monsieur – egli
rispose – tutto, tutto io le posso insegnare! – Ma poi
riprendendosi ad un cenno della figliuola: – Verrò, verrò da lei,
al suo albergo.
— Oh, sí, mi piacerebbe imparare
il francese, – Newman proseguí con democratico abbandono. – Al
diavolo s’io ci avevo mai pensato prima d’ora! Davo per certo che
la cosa mi sarebbe stata impossibile. Ma se lei ha appreso la mia
lingua perché non potrò io imparare la sua? – soggiunse poi
togliendo ogni punta allo scherzo con una franca e schietta risata.
– Soltanto, s’io mi metterò a conversare con lei, lei dovrà trovare
qualche argomento un po’ allegro.
— Il signore è molto buono. Io
sono addirittura soggiogato – disse il signor Nioche levando le
braccia verso di lui. – Ma lei mi pare allegro e spiritoso per
due.
— Oh no – disse Newman piú
gravemente. – È lei piuttosto che dev’esserlo: questo fa parte del
contratto.
Il signor Nioche s’inchinò con
una mano sul cuore.
— Benissimo, signore. Lei mi ha
già messo lo spirito in corpo.
— Venga allora da me, e mi porti
il quadro che glielo pagherò: e intanto ne discorreremo un poco:
sarà un tema divertente.
La signorina Noemi frattanto
aveva raccolto i suoi strumenti da lavoro e aveva data da tenere la
preziosa Madonna a suo padre, il quale, ritiratosi in disparte, con
in mano il quadro andava rinnovando le sue riverenze. La giovane si
ravvolse nello scialle con lo stile di una perfetta parigina, e con
un sorriso, pure parigino, prese congedo dal suo mecenate.
II
Newman ritornò al divano sedendo
al lato opposto davanti alla grande tela di Paolo Veronese: Le
nozze di Canaan. Era stanco e trovò il quadro divertente. Esso gli
dava l’illusione alquanto grandiosa di ciò che potesse essere uno
splendido convito. Alla sinistra del quadro, una giovane dalle
trecce bionde racchiuse in una acconciatura d’oro sta chinata in
avanti ad ascoltare con un sorriso di bella convitata il suo
vicino. Newman la cercò nella folla delle figure, l’ammirò e poi
s’accorse ch’essa pure aveva il suo devoto copista: un giovane dai
capelli a spazzola, ritti sulla fronte. Improvvisamente, allora,
comprese la mania del collezionista; il primo passo egli l’aveva
già fatto e perché dunque non continuerebbe? Erano trascorsi venti
minuti soltanto da che aveva comperato il primo quadro della sua
vita e già pensava ad un’arte del mecenatismo come ad una impresa
affascinante. Queste sue riflessioni raddoppiarono il suo buon
umore e già stava per avvicinarsi al giovanotto con un altro
Combien? Due o tre fatti, a questo proposito, sono da rilevarsi,
quantunque ineguale possa sembrare la catena logica che li unisce
tra loro. Newman si era accorto che la signorina Nioche gli aveva
chiesto troppo: non le serbava rancore per questo ma già deliberava
tra sé che avrebbe dato al giovane la somma che semplicemente si
meritava. Ma in quel momento la sua attenzione fu attratta da un
signore che era entrato dall’altra parte della sala e il cui
aspetto era quello di straniero, nuovo alla galleria, quantunque
colui non recasse con sé né una guida né un binoccolo. Portava con
sé un ombrellino bianco per il sole, orlato di seta turchina, e
passeggiava davanti al quadro del Veronese dandogli delle vaghe
occhiate, ma troppo da vicino in modo da non poter veder altro se
non la grana della tela. Come si trovò davanti a Cristoforo Newman
egli si fermò e si volse, ed allora il nostro amico che stava
osservandolo ebbe un sospetto che gli venne dall’aver considerato
vagamente il suo viso. Il risultato di questa piú larga indagine fu
che di colpo egli balzò in piedi, attraversò la sala e distendendo
le mani fermò il signore dal parasole listato di blu. Questi lo
guardò stupefatto e stese la mano a caso. Era corpulento e roseo, e
quantunque la sua figura, provvista di bella e morbida barba
accuratamente spartita nel mezzo e spazzolata non fosse notevole
per intensità d’espressione, pure egli aveva l’aria di uno che
volesse stringere volentieri la mano a tutti quanti. Non so che
pensasse Newman del suo viso, ma sentí nella sua stretta un
desiderio di risposta.
— Oh guarda, guarda! – gli fece
ridendo. – E non dire adesso che non mi conosci, se anche non ho
con me un parasole bianco!
Il suono di questa voce rischiarò
la memoria dell’altro; la sua faccia si dilatò al massimo grado, ed
egli pure scoppiò in una risata.
— Bene, Newman, che il cielo mi
fulmini! Chi mai al mondo ti avrebbe pensato qui? Ma sai che sei
cambiato!
— E tu no! – fece Newman.
— Non in meglio certo. Quando sei
venuto qui?
— Tre giorni fa.
— E perché non me l’hai fatto
sapere?
— Non avevo la minima idea che tu
ti trovassi a Parigi.
— Sono qui da sei anni.
— Dev’essere otto o nove anni fa
che ci siamo incontrati.
— O giú di lí. Eravamo molto
giovani, allora.
— Fu in San Louis, durante la
guerra. Tu eri nell’esercito.
— Oh, io no; tu piuttosto.
— Credo bene che ci fossi.
— Te la sei cavata bene?
— Ci ho cavato mani e piedi... E
con soddisfazione, anche. Ma tutto ciò sembra assai lontano.
— Da quanto tempo sei in
Europa?
— Da diciassette giorni.
— È la prima volta che ci
vieni?
— La prima.
— Hai messo insieme una grossa
fortuna, eh?
Cristoforo Newman restò
silenzioso per un momento, poi con un tranquillo sorriso accennò di
sí.
— E sei venuto a Parigi, a farli
fuori?
— Là, vedremo... E cosí, qui usa
parasoli bianchi la gente?
— Certo. Son gente alla grande
qui. Hanno una vera idea del comfort da queste parti.
— E dove si comprano?
— Un po’ dappertutto.
— Bene, Tristam, sono contento di
averti acciuffato; tu mi mostrerai ogni cosa qui. Immagino che
conoscerai Parigi dentro e fuori.
Il signor Tristam ebbe un sorriso
di compiacimento. – Bene, francamente credo che non ci siano molti
uomini che saprebbero mostrarti Parigi meglio di me. Sí, ti prendo
sotto la mia protezione.
— Ah, peccato che tu non eri qui
qualche minuto fa. Ho comperato un quadro, e tu avresti potuto
condur l’affare per me.
— Comprato un quadro? – fece
Tristam guardando vagamente alle pareti. – Perché? Li vendono
questi quadri?
— Intendo una copia.
— Oh, vedo, vedo. Questi –
soggiunse Tristam accennando ai Tiziani ed ai Van Dyck – questi,
suppongo, sono originali.
— Lo spero bene – fece Newman. –
Perché io non voglio mica una copia d’una copia.
— Ah – soggiunse Tristam con aria
di mistero – non si può mai dire. Oggi, sai, si imita cosí
indiavolatamente bene!... Come i gioiellieri con le loro pietre
false. Vai al Palais Royal e vedrai scritto «Imitazione» su metà
delle vetrine. La legge, sai, li obbliga ad apporre quella
dichiarazione. Ma tu non puoi distinguere le vere dalle false. A
dirti la verità – continuò corrugando un poco il viso, – io non me
la faccio molto coi quadri. Lascio questa briga a mia moglie.
— Tu hai preso moglie?
— Già, non te l’avevo ancor
detto. È una donna molto piacente. Devi conoscerla. Sta lassú
nell’Avenue Jéna.
— E cosí, ti sei regolarmente
accasato: casa, figlioli, e tutto.
— Sí, una casa chic e un paio di
bambini.
— Bene – fece Newman con un gesto
e un sospiro – t’invidio.
— Oh, non devi invidiarmi! –
ribatté Tristam dandogli un colpetto col parasole.
— Scusami, ma t’invidio
proprio.
— Bene, tu non diresti cosí
quando... quando...
— Non vorrai mica dire quando
avrò veduto la tua bella famiglia?
— Quando avrai veduto Parigi,
ragazzo mio! Tu, qui, devi essere libero padrone di te.
— Oh, sono stato libero padrone
di me tutta la vita, e ormai ne sono sazio.
— Ebbene, prova Parigi. Quanti
anni hai?
— Trentasei.
— C’est un bel âge! come dicono
qui.
— E che significa?
— Significa che un uomo non
dovrebbe mai allontanare il suo piatto finché non l’ha
finito.
— Cosí? Ho fatto or ora un
accordo per prendere delle lezioni in francese.
— Oh, non hai bisogno di lezioni
tu! Il francese lo imparerai sentendolo parlare qua e là. Io non ho
mai preso lezioni.
— Immagino che tu parlerai il
francese bene come l’inglese.
— Meglio! – esclamò Tristam
schiettamente. – È una lingua magnifica il francese. Tu puoi dire
ogni genere di cose spiritose.
— Ma, suppongo – disse Cristoforo
Newman con vivo desiderio d’informarsi – che bisogna essere
spiritosi per poterle dire.
— Ma per nulla affatto; e questo
è il bello.
Mentre i due amici si scambiavano
queste riflessioni erano rimasti là in piedi, appoggiati alla
ringhiera che proteggeva i quadri. Ma alla fine Tristam dichiarò
che egli era piuttosto stanco e che sarebbe stato felice di
sedersi. Newman allora gli raccomandò con entusiasmo il divano sul
quale si era abbandonato poco prima. Ed ambedue sedettero.
— È un gran luogo questo, non è
vero? – fece Newman con ardore.
— Grande, grande. La piú bella
cosa che sia al mondo. – Ma d’un tratto Tristam si arrestò esitante
e volse intorno lo sguardo. – Immagino che non si potrà fumare
qui.
Newman lo guardò con stupore. –
Fumare? Non so, tu conoscerai il regolamento meglio di me.
— Non son mai venuto qui prima
d’ora.
— Mai, in sei anni?
— Credo che mi ci abbia
trascinato una volta mia moglie quando siamo venuti a Parigi, ma
non ho mai trovato la strada di ritornarci.
— Ma se m’hai detto che conosci
Parigi cosí bene!
— Questo io non lo chiamo Parigi!
– esclamò Tristam con decisione. – Vieni, andiamo al Palais Royal a
farci una fumatina.
— Non fumo – disse Newman.
— Berremo un sorso allora.
E il signor Tristam condusse via
il suo compagno.
Essi passarono attraverso le
gloriose aule del Louvre; discesero, pei gradini, lungo le gelide e
tetre gallerie delle statue e uscirono sull’immensa corte. Newman
si guardava intorno, camminando, ma senza abbandonarsi a commenti e
solo quando si ritrovarono all’aria aperta egli disse al suo amico:
– Mi pare che s’io fossi in te sarei venuto qui almeno una volta
alla settimana.
— Oh, non ci saresti venuto –
disse Tristam. – Lo pensi, ma non lo avresti fatto. Non ne avresti
avuto il tempo. Avresti sí avuto l’intenzione di venirci, ma non ti
saresti deciso. Ci son delle cose ben piú divertenti di queste in
Parigi. L’Italia, quello sí che è un paese d’andarci a vedere delle
pitture: aspetta quando sarai là. E là tu devi andare, Newman, là
tu non puoi far altro che veder quadri; è una meravigliosa regione,
non ci trovi un sigaro decente... Io non so perché son venuto qui,
oggi. Girandolavo da queste parti, incapace di trovarmi uno spasso,
quando, passando di qua scorsi il Louvre e pensai di entrare a
vedere cosa vi succedesse. Ma se non ti avessi trovato qui mi sarei
piuttosto annoiato. Al diavolo, non amo i quadri, preferisco la
vita. – E Tristam scosse quella sua formula di felicità con una
sicurezza che avrebbe potuto invidiargli la classe numerosa delle
persone che soffrono per una dose eccessiva di cultura.
I due gentiluomini procedettero
lungo la Rue de Rivoli ed entrarono al Palais Royal, dove sedettero
ad uno dei tavolini situati all’ingresso del caffè che dava sulla
grande corte quadrangolare. Il luogo era pieno di gente, le fontane
zampillavano, una banda suonava e gruppi di sedie stavano raccolte
sotto i tigli, mentre balie pettorute dalle bianche cuffie sedevano
sulle panchine offrendo ai loro infanti la piú ampia disponibilità
di nutrizione. Dominava su tutta la scena un’agevole e casalinga
gaiezza, e Cristoforo Newman sentí che essa era molto, tipicamente
parigina.
— Ed ora – incominciò Tristam
come ebbero assaggiate le bibite che egli aveva ordinate – ora
raccontami di te. Quali sono le tue idee, i tuoi progetti; da dove
vieni e dove vai? In primo luogo, dove alloggi?
— Al Grand Hôtel.
Tristam corrugò il viso paffuto.
– Non va bene – disse. – Devi mutare.
— Mutare? – fece Newman – Ma se è
l’albergo piú distinto nel quale io sia mai stato.
— Tu non hai bisogno di un
albergo distinto, ma piuttosto di qualcosa di piccolo, di quieto,
di squisito, dove i camerieri accorrano quando suoni il campanello
e ti sappiano riconoscere.
— Ma se accorrono prima ch’io
tocchi il campanello – esclamò Newman – e mi fanno un mucchio
d’inchini.
— Sarai largo in mance. Questo
non è bon ton.
— In ogni caso, non credo. Uno
ieri mi portò qualcosa, poi stava là a dondolarsi intorno come se
intendesse chiedermi l’elemosina. Io allora gli offrii una sedia e
lo invitai a sedere. Questo non era bon ton?
— Oh, no davvero!
— Ma egli se la svignò subito.
Comunque il luogo mi diverte. Al diavolo l’eleganza, se mi annoia.
La sera scorsa stetti su nel cortile dell’albergo fino alle due a
guardare l’andirivieni della gente che girellava intorno.
— Ti accontenti di poco. Ma fa
come vuoi. Sopra ogni cosa i propri comodi. Hai fatto su un mucchio
di soldi eh?
— Abbastanza, insomma.
— Beato chi lo può dire.
Abbastanza per che?
— Per riposarmi un poco, per
dimenticare i fastidi, per guardarmi intorno e vedere il mondo e
concedermi qualche spasso e perfezionare il mio spirito, e, se me
ne prende capriccio, sposarmi. – Newman parlava adagio, con una
certa asciuttezza d’accento, a pause frequenti. Era il suo modo di
esprimersi, ma appariva ancor piú marcato in queste ultime
parole.
— Per Giove, ecco un programma! –
esclamò Tristam. – E certo per realizzarlo si richiede del denaro e
soprattutto una moglie; a meno che il denaro non te lo dia lei,
come ha fatto la mia... E come hai fatto a farne?
Newman, cacciato un po’
all’indietro il cappello, e incrociate le braccia e distese le
gambe, era rimasto là ad ascoltar la banda che suonava e a guardare
intorno a sé la gente che andava e veniva, e lo zampillar delle
fontane e le balie e i bimbi. – Ho lavorato! – rispose
finalmente.
Tristam lo fissò per un istante,
i suoi placidi occhi misurarono l’altezza generosa del suo amico, e
si fermarono sopra il suo viso contemplativo e sereno. – In che
cosa hai lavorato? – domandò.
— Oh, a parecchie cose.
— Immagino che tu sia molto
abile, eh?
Newman continuò a guardare le
bambinaie e i bambini che davano a quella scena una specie di
primitiva e pastorale semplicità. – Sí – disse, – credo di esserlo.
– E sempre rispondendo all’amico, prese a raccontargli brevemente
la storia della sua vita dal giorno che si erano incontrati per
l’ultima volta. Una storia tutta propriamente occidentale che si
era svolta fra intraprese ch’è inutile qui raccontare
particolareggiatamente al lettore.
Newman era uscito dalla guerra
col grado di brigadiere generale, un grado che nel suo caso, senza
voler fare paragoni odiosi, era stato affidato a spalle largamente
capaci di portarlo. Ma ancorché capace, ove occorresse, di
comandare un attacco, Newman cordialmente sdegnava quel mestiere, e
i quattro anni che era stato nell’esercito gli avevano lasciato
indosso un amaro e cruccioso ricordo di tante cose belle depredate
e distrutte: la vita, il tempo, il denaro e l’«abilità» e i primi
freschi impeti. E si era dato a ricercare la pace con gusto
appassionato ed energico.
Povero e squattrinato quando si
era tolto di dosso lo zaino come quando se l’era messo sulle
spalle, l’unico capitale di cui disponeva era la sua intrepida
risolutezza e la netta percezione dei fini e dei mezzi. La fatica e
l’azione gli erano naturali come il respiro, perché davvero uomo
piú ricco di salute non ebbe mai a calpestare l’elastico suolo del
West. Inoltre la sua esperienza di vita era grande quanto la sua
capacità. Già a quattordici anni la necessità lo aveva preso per le
sue magre spalle di ragazzo e lo aveva spinto nella via a
guadagnarsi la cena della sera. Non si era guadagnato questa, ma
quella della sera dopo, e, in seguito, ogni volta che non riusciva
a cenare si era perché aveva imparato a farne a meno servendosi del
denaro per qualcos’altro, per un piú acuto piacere, per uno scopo
piú nobile.
Aveva posto mano e cervello in
tante cose, era stato intraprendente nel vero senso della parola:
avventuroso e pure indifferente, aveva conosciuto le amare cadute e
i piú brillanti successi, ma, sperimentatore per natura, aveva
sempre trovato alcunché che lo rallegrava anche nelle stretture del
bisogno, anche quando il bisogno gli irritava carne ed anima come
il cilicio di un monaco medioevale. Ci fu tempo in cui la sfortuna
parve diventata la sua dote inesorabile, la disgrazia la sua
compagna di letto, e che qualunque cosa le sue mani toccassero
tramutavano non in oro ma in cenere. E fu appunto una volta
allorquando questa ostinata persistenza della disgrazia nella sua
vita era giunta al colmo che gli balenò la piú vivida idea di un
elemento soprannaturale che dominasse gli affari del mondo; gli
sembrò vi fosse qualcosa di piú forte nella vita che nella sua
stessa volontà, e che questo misterioso qualcosa fosse soltanto il
diavolo, e di conseguenza provò una personale ferocia contro questa
forza impertinente ed ostile. Conobbe allora cosa volesse dire aver
esaurito fino all’ultimo il proprio credito, essere incapace di
guadagnarsi pur un dollaro, di trovarsi al cader della notte in una
città straniera senza un soldo in tasca per mitigarne l’ostilità. E
fu in tali circostanze ch’egli entrò la prima volta in San
Francisco, la quale divenne poi la scena dei suoi piú felici colpi
di fortuna. E se egli non camminava per la strada, come il Dr.
Franklin in Filadelfia, cibandosi alla meglio con una pagnottella,
era soltanto perché non aveva la pagnottella indispensabile per la
scena. Nei suoi giorni piú tetri egli aveva avuto un solo e
semplice desiderio: esserne fuori. Egli riuscí alla fine a spingere
il proprio cammino per un terreno piú calmo e a far denaro in larga
misura. Bisogna dire però, crudamente, che la sola aspirazione
nella vita di Cristoforo Newman era il far denaro; che, quanto a
lui, era stato messo al mondo semplicemente per strappare a viva
forza una fortuna, e piú grande era meglio era, dalle difficoltà
piú terribili della vita. Questa prospettiva colmava pienamente il
suo orizzonte e appagava la sua fantasia. Ma sull’uso da farsi del
danaro, sopra ciò che uno potesse fare di una vita nella quale
fosse riuscito ad iniettare il fiume dell’oro, fino al suo
trentacinquesimo anno di età aveva assai scarsamente riflettuto. La
vita era stata per lui un gioco scoperto ed egli aveva puntato su
alte poste. Aveva vinto alla fine e intascata la vincita. Ma ora,
che fare del danaro? Era uomo al quale o presto o tardi tale
domanda doveva presentarsi, e la risposta appartiene appunto a
questa nostra storia. Egli aveva già avuto una vaga idea che a
questa domanda si potessero dare piú risposte di quanto la sua
filosofia avesse fino allora pensato, e questa idea pareva prendere
come una blanda e piacevole consistenza nel suo spirito mentre se
ne stava là oziando col suo amico in quel vivido cantuccio di
Parigi.
— Tuttavia ti debbo confessare –
egli continuò – che qui io non mi sento affatto un uomo abile. Il
mio notevole talento sembra qui di nessuna utilità. Mi sento
semplice come un ragazzino, e un ragazzino potrebbe prendermi per
mano e condurmi in giro.
— Oh, ti farò io da ragazzino –
esclamò Tristam – e ti prenderò per mano. Affidati a me.
— Sono un buon lavoratore –
Newman continuò – ma credo di essere un cattivo flâneur. Son venuto
qui per divertirmi, ma dubito di potervi riuscire.
— Oh, è presto imparato.
— Sí, posso forse apprendere come
si fa, ma temo che non saprò mai farlo per abitudine. Ho la miglior
volontà del mondo per impararlo, ma il mio talento non mi porta in
quella direzione. Come flâneur non sarò mai originale come sento
che lo sei tu.
— Sí – disse Tristam – credo di
essere originale, come quelle pitture immortali del Louvre.
— Per di piú – proseguí Newman –
io non voglio lavorare per divertirmi piú di quello che non mi
divertissi quando lavoravo. Voglio prendere la cosa con tutta
comodità. Io mi sento deliziosamente poltrone, e vorrei trascorrere
sei mesi cosí, come adesso qui, sedendo sotto un albero ad
ascoltare la banda. C’è soltanto una cosa: voglio però che la
musica sia buona.
— Musica e pittura! Mio Dio, che
gusti raffinati! Tu sei quello che mia moglie chiama un
intellettuale. Io non lo sono per niente. Ma via, ti troveremo ben
qualcosa di meglio da fare che stare a sedere sotto un albero.
Tanto per cominciare, devi venire al mio club.
— Che club?
— «L’Occidentale». Troverai là
tutti americani, i migliori per lo meno. Naturalmente tu giochi a
poker.
— Oh, dico – esclamò Newman con
energia – non vorrai mica rinchiudermi in una sala e inchiodarmi a
una tavola di gioco. Non son venuto qui per questo.
— E che diavolo sei venuto a
fare? Ti piaceva giocare a poker a San Louis, quando, ben lo
ricordo, mi spazzasti la borsa.
— Io son venuto qui per vedere
l’Europa, e prenderne il meglio che posso. Voglio vedere tutte le
grandi cose, e fare ciò che le persone intelligenti fanno.
— Le persone intelligenti? Molto
obbligato; mi prendi forse per una testa di legno?
Newman stava seduto di fianco
nella sua sedia, col gomito appoggiato alla spalliera e il capo
piegato sulla mano. Senza muoversi egli fissò per un istante il
compagno col suo mite sorriso, non del tutto comprensibile e pure
cosí semplice e naturale. – Presentami a tua moglie – disse alla
fine.
Tristam diede un mezzo salto
sulla sedia.
— In verità non lo posso fare.
Essa non ha bisogno d’aiuti per guardarmi dall’alto in basso, come
neanche tu del resto.
— Ma io non ti guardo dall’alto
in basso, amico: e nessuno, niente, io guardo cosí. Non sono
affatto superbo, t’assicuro. Ed è per questo che desidero di
prendere ad esempio la gente intelligente.
— Ebbene, s’io non sono della
élite, come si dice qui, ci sono vissuto vicino. E cosí potrò
mostrarti qualche brava persona. Conosci il Generar Packard?
Conosci G. P. Hatch? Conosci la signorina Kitty Upjohn?
— Sarò felice di fare la loro
conoscenza. Intendo coltivare la buona società.
Tristam che sembrava inquieto e
sospettoso gittò al suo amico un’occhiata di traverso, poi disse: –
E che stai facendo adesso? Stai scrivendo un libro?
Cristoforo Newman si arricciò per
un istante in silenzio la punta dei mustacchi, poi rispose:
— Un giorno, un paio di mesi fa,
m’accadde un fatto assai curioso. Mi ero recato a New York per un
affare importante; si trattava di una storia piuttosto lunga, si
trattava di battere un concorrente in un certo modo, sul mercato.
Questo concorrente mi aveva già altre volte giocato un brutto tiro;
io l’avevo su con lui ed ero proprio adiratissimo, e mi dicevo che
se mi fosse capitata l’occasione gli avrei cambiato i connotati,
come si dice. C’era di mezzo una sessantina di migliaia di dollari.
Se io fossi riuscito a portarglieli via sarebbe stato un ben fiero
colpo per lui che veramente era uomo da non meritar quartiere.
Saltai dentro una vettura da piazza, e fu su questa vettura, su
questa immortale e storica vettura da piazza che mi avvenne il
curioso fatto di cui sto per parlarti. Era una vettura come
un’altra, soltanto un po’ piú sudicia, con una riga d’unto sullo
scrimolo dei suoi cuscini color tané, come fosse stata adibita ad
un gran numero di funerali irlandesi. È possibile ch’io abbia fatto
un pisolino su quella vettura: ero stato in viaggio tutta la notte
e, quantunque eccitato per la mia impresa, avevo gran voglia di
dormire. Comunque io mi svegliai subitamente dal sonno o da una
specie di fantasticheria con una sensazione la piú straordinaria
del mondo: con un mortale disgusto per la cosa ch’io ero in
procinto di fare. Questa sensazione era entrata in me, cosí! – E
Newman fece schioccare le dita. – Cosí, bruscamente, come una
vecchia ferita che ricomincia a dolere. Non potrei dire come la
cosa precisamente accadesse, ma sentii ch’essa mi ripugnava, che mi
ripugnava tutta l’intera faccenda, e che desideravo di lavarmene le
mani. L’idea di perdere quei sessantamila dollari e lasciare che
essi andassero alla malora e di non piú udirne parlare, mi parve,
lí per lí, la piú dolce cosa del mondo. Tutto ciò era entrato in me
in modo affatto indipendente dalla mia volontà, e io stavo là,
osservando questo mutamento mio dentro di me, come mi trovassi alla
commedia, a teatro. Puoi star sicuro che ci son cose che procedono
dentro di noi e intorno alle quali noi sappiamo assai, assai
poco.
— Per Giove! Ma tu mi dài i
brividi! – esclamò Tristam. – E magari mentre te ne stavi là seduto
nella tua vettura di piazza osservando la commedia dentro di te,
magari l’altro procedeva ad insaccare i tuoi sessantamila
dollari.
— Non so se l’abbia fatto, ma lo
spero, povero diavolo! Però non l’ho mai potuto sapere. Poi
arrivammo al luogo dov’ero avviato, in Wall Street, ma io me ne
stetti là tranquillamente seduto nella mia vettura, tanto che alla
fine il cocchiere saltò giú da cassetta per vedere se caso mai la
sua vettura non era tramutata in un carro funebre. E infatti io non
avrei potuto uscirne quasi che se fossi stato cadavere. Cos’avevo?
Un’improvvisa idiozia, dirai, ma ciò ch’io volevo era di esser
fuori assolutamente da Wall Street. Dissi all’uomo di riprendere le
redini e di avviarsi al ponte di Brooklyn e passar oltre. E quando
fummo là gli dissi di condurmi all’aperta campagna. E siccome poco
prima gli avevo raccomandato di condurmi rapidamente a tutta
velocità verso il centro, immagino che mi avrà preso per un pazzo.
E forse lo ero, ma in questo caso lo sono ancora. Io trascorsi la
mattinata a contemplare le prime foglie verdi a Long Island. Ero
stanco d’affari e volevo buttare all’aria ogni cosa e farla finita
alla svelta. Danaro ne avevo abbastanza o dovevo averne. Mi parve
di sentirmi uomo nuovo entro la mia vecchia pelle, e bramai un
nuovo mondo. Quando si vuole una cosa in un modo cosí feroce è
meglio concedersela. Io non compresi la cosa allora, ma abbandonate
le briglie sul collo del vecchio cavallo lasciai che riprendesse la
sua strada. Appena ho potuto liberarmi dagli affari mi sono
imbarcato per l’Europa; ed ecco come in questo momento sono seduto
qui.
— Avresti dovuto comperarla
quella carrozza – disse Tristam; – non è un veicolo sicuro da
lasciar attorno. E allora tu hai veramente venduto ogni cosa e ti
sei ritirato dagli affari?
— Ho passato il mazzo ad un amico
e, allorquando io mi sentirò ancora disposto, potrò riprenderlo di
nuovo nelle mie mani. Oso dire che tra un anno la faccenda potrebbe
essere invertita e il pendolo tornar ad oscillare dall’altra parte.
Un giorno, chissà, stando seduto in una gondola o sopra un
dromedario, d’un tratto io sentirò il desiderio di battermela. Ma
oggi come oggi sono perfettamente libero, ed ho decretato che non
riceverò nessuna lettera d’affari.
— Oh, è veramente un caprice de
prince! – disse Tristam. – Mi disdico: un povero diavolo come me
non può aiutarti a smaltire un ozio cosí magnifico come il tuo. Tu
dovresti essere presentato a delle teste coronate.
Newman lo guardò per un istante;
poi con un sorriso sereno: – Come si fa? – domandò.
— To’, questo mi piace! – esclamò
Tristam. – Mi dimostra che tu fai proprio sul serio.
— Sicuro che faccio sul serio.
Non ho detto che voglio il meglio delle cose piú belle? Io so che
il meglio non si può ottenere col solo danaro, quantunque son del
parere che il danaro serva pure a molte cose. Per giunta son
disposto anche a sobbarcarmi molti fastidi.
— Tu non sei pavido, eh?
— Non credo. Io voglio godere i
passatempi piú grandi che l’uomo possa avere. Gente, luoghi, arte,
natura, ogni cosa! Voglio vedere le piú alte montagne e i laghi piú
azzurri, le piú delicate pitture e le chiese piú leggiadre, gli
uomini piú acclamati e le donne piú belle.
— Allora stabilisciti a Parigi.
Qui non ci sono montagne, ch’io sappia, e il solo lago è al Bois de
Boulogne, ma non è particolarmente azzurro. Ma c’è ogni altra cosa:
abbondanza di pitture e di chiese, uomini acclamati senza fine e
parecchie belle donne.
— Ma non posso stabilirmi in
Parigi adesso che andiamo incontro all’estate.
— Oh, d’estate vai su a
Trouville.
— Cos’è Trouville?
— Il Newport francese. Metà degli
Americani ci vanno.
— È vicino alle Alpi?
— Sí, vicino a un dipresso come
Newport lo è alle Montagne Rocciose.
— Oh, voglio vedere il Monte
Bianco – soggiunse Newman. – E Amsterdam e il Reno e un mucchio di
posti. E Venezia in particolare. Su Venezia poi ho grandi
idee.
— Ah – disse Tristam alzandosi –
capisco che dovrò proprio presentarti a mia moglie!
III
Tale presentazione ebbe luogo il
giorno seguente, quando, dopo avergli dato convegno, Cristoforo
Newman si recò a pranzo dall’amico. Il signore e la signora Tristam
abitavano dietro una di quelle facciate tinte alla calce che con la
loro pomposa identità adornano i larghi viali costruiti dal barone
Haussmann, nelle vicinanze dell’Arc de Triomphe. Il loro
appartamento era ricco di ogni moderna comodità, e Tristam non
perdette tempo a richiamare l’attenzione del suo amico sui
principali tesori della casa: la lampada a gas e le bocche da
calore. – Ogni volta che ti senti nostalgia del tuo home americano
– gli disse – vieni qua. Noi t’inchioderemo davanti ad un mastro,
sotto ad una grossa lampada a petrolio e...
— E voi sarete liberato dalla
vostra nostalgia – soggiunse la signora Tristam.
Suo marito la fissò. Spesso sua
moglie aveva un tono che non riusciva a comprendere; in nessun modo
egli arrivava a capire s’ella facesse per scherzo o sul serio. La
verità era che le circostanze della vita avevano molto contribuito
a coltivare nella signora Tristam una marcata vocazione per
l’ironia. In molti punti i suoi gusti differivano da quelli di suo
marito, e quantunque ella facesse ai gusti di lui parecchie
concessioni, queste non erano sempre fatte con garbo. Si fondavano
sopra un vago progetto ch’ella aveva di compiere un giorno o
l’altro qualcosa di molto decisivo, di un pochetto appassionato.
Che cosa poi precisamente volesse fare, non avrebbe saputo dirlo
neanche lei; ma nel frattempo ella si stava comprando una buona
coscienza, a rate.
Occorre aggiungere subito, per
evitare ogni equivoco, che quel suo piccolo progetto d’indipendenza
non implicava necessariamente l’aiuto di un’altra persona di sesso
diverso. Non era donna da salvare la virtú per coprire le spese di
un flirt. E di ciò erano molte le ragioni. Per cominciare, aveva un
viso assai comune ed essa non nutriva alcuna illusione sul suo
aspetto. Aveva preso la sua misura a filo di capello, e conoscendo
qual era il peggio e quale il meglio, si accettava cosí com’era. Ma
questo non era avvenuto senza un’intima lotta in lei. Già da
ragazza aveva passato delle ore col dorso voltato alla specchiera,
piangendo a calde lagrime, e piú tardi, un po’ per disperazione un
po’ per spavalderia, aveva preso l’abitudine di proclamarsi la
donna meno fortunata del mondo, a fine che qualcuno
contraddicendola, come vogliono le regole del galateo, la
rassicurasse del contrario. E fu solo da quando ella era venuta a
vivere in Europa che aveva cominciato a prendere la cosa con
filosofia. Vivendo qui ella aveva osservato che il primo dovere di
una donna non è di esser bella, ma di piacere, e tante ne aveva
incontrate che piacevano senza essere belle ch’essa cominciò ad
accorgersi intimamente di aver scoperto la propria missione. Una
volta aveva udito un musicista entusiasta che s’arrabbiava
nell’ascoltare un gonzo dotato di una bella voce e dichiarava che
una bella voce è veramente un ostacolo al cantar bene: e cosí anche
a lei era venuto in mente che la stessa cosa poteva dirsi del suo
viso, e che cioè un bel viso può essere un ostacolo all’acquisto di
maniere affascinanti. La signora Tristam allora intraprese ad
essere squisitamente graziosa con tutti e si prodigò in
quell’impresa con un impegno commovente. Come poi ci riuscisse io
non sono in grado di dirlo: sfortunatamente nel buono del
procedimento essa piantò là ogni cosa, scusandosi col dire che non
era stata incoraggiata dalla cerchia dei suoi amici piú intimi; ma
io propendo a credere che non avesse un genio particolare per
questa impresa, e ch’ella perseguisse piuttosto un’arte di piacere
per se stessa. La povera signora in conclusione era assai
incompleta. Ritornò allora a dedicarsi alle armonie della toilette
di cui essa s’intendeva assai bene e si contentò d’abbigliarsi in
uno stile perfetto. Dimorava in Parigi, città che ella fingeva di
detestare, perché solo in Parigi si ritrovano le cose perfettamente
adatte a far bella la carnagione d’una donna. Tanto piú che fuori
di Parigi è sempre piú o meno una faccenda trovare dei guanti a
dieci bottoni. Quando poi sprezzando essa questa servizievole
città, le chiedevate dove amasse meglio abitare, ella vi diceva
Copenaghen o Barcellona, poiché, girando per l’Europa, aveva
sostato in quelle città un paio di giorni. Nel complesso, coi suoi
poetici falbalà e il suo visuccio bruttino e intelligente, ella
era, a conoscerla, una donna decisamente interessante. Di natura
riservata, anche se fosse nata una bellezza, non essendo affatto
vanitosa, tale sarebbe rimasta. Adesso era una donna diffidente e
impronta; talora piena di eccessivo riserbo con gli amici, tal
altra stranamente espansiva con gli estranei. Disprezzava il marito
e lo disprezzava sin troppo, dal momento ch’era stata perfettamente
libera di non sposarlo. Si era innamorata a suo tempo di un uomo
intelligente, che poi l’aveva spregiata, e cosí aveva sposato poi
uno sciocco nella speranza che l’ingrato si convincesse di non aver
apprezzato i suoi meriti come doveva e di aver sbagliato a credere
ch’ella lo avesse amato per le sue qualità. Irrequieta, scontenta,
visionaria, senza ambizioni personali, dotata di una certa
cupidigia d’immaginazione, la signora Tristam era, come abbiamo
detto, una donna eminentemente incompleta. Donna ricca, sia nel
male che nel bene, di tanti buoni inizi, ma che non approdavano a
niente, ella possedeva, tuttavia, moralmente parlando, una
scintilla della sacra fiamma.
A Newman, in ogni circostanza,
era sempre piaciuta assai la compagnia delle donne, ed ora che egli
era fuori del suo elemento e della cerchia dei suoi interessi
abituali, per compenso, si rivolse ad essa.
Egli prese gran piacere alla
compagnia della signora Tristam; essa schiettamente lo ricambiò,
sicché, dopo il loro primo incontro, egli già passava molte ore
della giornata nel salotto di lei. Dopo due o tre buone
chiacchierate erano diventati grandi amici. Newman aveva con le
donne modi tutti suoi e bisognava che una signora fosse molto
ingenua per supporre che egli le facesse la corte. Newman non era
galante nel senso usuale della parola, non faceva complimenti, non
atti graziosi, non lunghi discorsi. Lui che trattando con gli
uomini era tanto amante dello scherzo, ogni volta che si trovava
sopra un sofà accanto ad una rappresentante del sesso debole si
sentiva estremamente serio. Ma non era timidezza la sua, e fin dove
l’imbarazzo procede da un contrasto con la timidezza, non era
neanche imbarazzato; ma grave, attento, ossequioso, spesso
taciturno, egli nuotava semplicemente in una specie di rapimento
rispettoso. Questa emozione non proveniva in lui da teoria, ma non
era nemmeno in un alto senso un’emozione sentimentale. Assai poco
aveva meditato intorno alla «posizione» della donna, e né
simpaticamente o in altro modo gli era famigliare l’immagine di un
Presidente in gonnella. La sua attitudine verso la donna era
semplicemente il fiore del suo buon istinto naturale e parte della
sua congenita e schiettamente democratica convinzione che ogni
essere umano ha diritto di condurre una vita agiata. Se un povero
straccione aveva diritto ad un letto, alla mensa, al salario ed al
voto, le donne che sono naturalmente piú deboli dei poveri, e di
cui i fisici tessuti sono per se stessi un richiamo alla pietà,
sentimentalmente dovrebbero essere mantenute a spese dello Stato. E
Newman per questo si sarebbe tassato largamente, in proporzione dei
suoi mezzi. Di piú, molte di quelle cose che sono idee assai comuni
ed acquisite riguardo alle donne erano per lui fresche e personali
impressioni; egli non aveva mai letto un romanzo! Era stato colpito
dall’acutezza del loro spirito, dalla loro sottigliezza, dal loro
tatto, dalla loro felicità di giudizio. Gli sembravano esseri
squisitamente organizzati. E se è vero che noi dobbiamo sempre
avere, operando quaggiú, una religione o almeno un ideale, Newman
scopriva la sua metafisica fede verso una vaga accettazione delle
finali responsabilità dell’uomo su qualche luminosa fronte
femminile.
Egli spese gran quantità di tempo
ad ascoltare i buoni consigli della signora Tristam: consigli
tuttavia che egli non le aveva richiesti. E d’altra parte egli
sarebbe stato incapace di richiedergliene poiché, non possedendo
alcuna intuizione delle difficoltà della vita, non aveva
conseguentemente nessuna curiosità intorno ai rimedi per evitarle.
Il complesso mondo parigino che era intorno a lui pareva cosa assai
semplice: formava un immenso, impressionante spettacolo che però
non infiammava la sua immaginazione né eccitava la sua curiosità.
Con le mani in tasca si guardava intorno di buon umore, attento a
non perdere nulla di caratteristico, osservando tante cose da
vicino e non mai ritornando sui propri passi. I consigli della
signora Tristam facevano parte della faccenda e quei suoi
abbondanti discorsi erano un elemento piú divertente degli altri.
Godeva a sentirla parlare di lui, ciò faceva parte della sua bella
genialità, ma egli non mise mai in pratica ciò ch’ella gli
consigliava di fare e che subito gli passava di mente una volta
fuori dell’uscio. Quanto a lei, s’era impossessata di lui; egli era
per lei la cosa piú interessante a cui ella avesse pensato da molti
mesi a quella parte. Desiderò di farne qualcosa, ma anch’essa
sapeva che egli era naturalmente tante cose: era ricco, robusto,
piacevole, sereno, buon compagno, sempre in ottima disposizione di
spirito, per modo che egli teneva costantemente all’erta la sua
immaginazione. Pel momento la sola cosa che potesse fare era
volergli bene. Ella gli disse che era «orribilmente occidentale»,
ma in questo complimento l’avverbio non era troppo sincero. Se lo
condusse attorno con lei, lo presentò ad una cinquantina di persone
e si sentí estremamente soddisfatta della sua conquista. Newman
accettava ogni proposta sua, stringeva mani qua e là
promiscuamente, e non si mostrava mai né troppo riservato né troppo
entusiasta. Tom Tristam compiangeva questa ansiosa avidità di sua
moglie e protestò che non gli restavano mai cinque minuti per
godersi in pace il suo amico. Se egli avesse immaginato come
stavano per mettersi le cose, non avrebbe mai voluto portarlo in
Avenue Jéna. Un tempo i due uomini non erano stati intimi, ma
Newman ricordava le prime impressioni che aveva avuto del suo
ospite, e con la signora Tristam, che non glielo aveva confidato ma
il cui segreto egli aveva scoperto, dovette convenire che suo
marito era un mortale piuttosto degenere. A venticinque anni egli
era stato per lei un buon compagno ed in questo non era cambiato:
ma da un uomo della sua età ci s’aspetta un po’ di piú. Lo dicevano
anche socievole, ma era questo un concetto elastico come una spugna
inzuppata, e la sua, comunque, non era una nobile qualità di
socievolezza. Egli era gran chiacchierone e discorritore che, pur
di strappar una risata alla gente, avrebbe compromesso persino la
reputazione della sua vecchia madre. E ancorché Newman avesse il
culto degli antichi ricordi, trovò impossibile non accorgersi che
Tristam era per i tempi che correvano un tipo leggero. Il solo suo
divertimento era di recarsi a giocare a poker al club, conoscere i
nomi di tutte le cocottes, stringere parecchie mani attorno a sé,
rimpinzarsi di tartufi e di champagne e creare ogni sorta di
spiacevoli equivoci ed impicci fra i vari atomi costituenti la
colonia americana. Era vergognosamente pigro, svogliato, sensuale e
snob. Indispettiva sovente il nostro amico col tono delle allusioni
che egli faceva al loro paese natale. E Newman non riusciva a
capire perché mai gli Stati Uniti non accontentassero il signor
Tristam. Newman non era stato mai un gran patriota, ma lo irritava
veder trattati i suoi connazionali poco meglio di un cattivo odore
al naso del suo amico; e un giorno sbottò fuori e disse che
formavano invece la piú grande regione del mondo e che potevano
mettersi in tasca tutta quanta l’Europa e che un Americano che
sparlava del proprio paese meritava di essere riportato in patria
incatenato e costretto a vivere a Boston (e questa per Newman era
la piú gran vendetta). Ma Tristam era uomo che si poteva sgridare
con tutto comodo, non tenne rancore all’amico, e continuò ad
insistere perché venisse a finire le sue serate al Club
Occidentale.
Cristoforo Newman si recò a
pranzo parecchie volte in Avenue Jéna, e il suo ospite sempre
proponeva di riportare a piú di buon’ora questa consuetudine. La
signora Tristam protestava dichiarando che suo marito esauriva la
sua genialità cercando di dispiacerle.
— Oh, no non ho mai cercato
questo, amor mio – rispose Tristam. – Lo so che tu mi odii
discretamente quando la fortuna mi sorride.
Spiaceva a Newman vedere marito e
moglie in questi contrasti e pensava che certo uno dei due era
infelice: e sapeva bene che quello non doveva essere Tristam.
La signora Tristam aveva un
balcone davanti alla sua finestra sul quale durante le sere di
giugno le piaceva tanto di stare e Newman le confessava
candidamente che preferiva il suo balcone al club. Era orlato da
una fila di odorose pianticelle in cassetta e di là da quello si
poteva guardare nell’ampia via e vedere l’Arc de Triomphe delineare
confusamente la massa delle sue eroiche sculture nella luce estiva
delle stelle. Talvolta Newman prometteva al suo amico che l’avrebbe
raggiunto di lí ad una mezz’ora all’«Occidentale», ma poi spesso se
ne scordava. La sua ospite gli andava facendo di molte domande
intorno alla sua persona, ma a questo proposito egli rispondeva
sempre con indifferenza. Egli non era ciò che si chiama un
soggettivo, ancorché, quando capiva che l’interesse di lei era
veramente sincero, facesse un tentativo quasi eroico per
diventarlo. Le raccontò le tante cose che aveva fatto, le narrò
aneddoti della sua vita nell’Ovest. Essa era di Filadelfia e coi
suoi otto anni di Parigi parlava di sé come una languida orientale;
ma un’altra persona era sempre l’eroe del suo racconto e non mai
con suo vantaggio; e quanto alle sue emozioni, Newman scarsamente
le metteva in cronaca. Essa aveva un vivo desiderio di sapere se
egli era mai stato innamorato, seriamente, appassionatamente, e non
riuscendo ad essere soddisfatta delle poche allusioni ch’egli
faceva, un giorno glielo chiese apertamente. Egli esitò un poco,
poi alla fine disse di no. Ella allora dichiarò che era felice di
sentirglielo dire e che questo confermava la sua opinione essere
egli uomo di nessun sentimento.
— Veramente? – egli domandò,
serio. – Lo pensate davvero? E come lo riconoscete un uomo di
sentimento?
— Non riesco a capire – ribatté
la signora Tristam – se voi siete molto semplice o molto
profondo.
— Sono molto profondo, questa è
la verità.
— Io credo che se vi avessi
detto, con una cert’aria, che non avete sentimento, implicitamente
mi credereste.
— Con una cert’aria? – fece
Newman. – Provatevi e vedremo.
— Vi credereste, ma poi non ve ne
importerebbe nulla – disse la signora Tristam.
— No, avete torto, me ne
importerebbe invece immensamente, ma non vi crederei. Il fatto è
che io non ho mai avuto tempo di sentir le cose. Ho sempre dovuto
farle, per render sensibile me stesso.
— E immagino che avrete fatto
questo tremendamente, qualche volta.
— Sí, senza dubbio.
— Voi non dovete essere piacevole
quando andate in furia.
— Non sono mai infuriato.
— Arrabbiato, là, o
malcontento.
— Arrabbiato non lo sono mai, ed
è da sí gran tempo ch’io fui malcontento che l’ho ormai
dimenticato.
— Non credo – soggiunse la
signora Tristam – che voi non siate mai stato arrabbiato. Un uomo
deve arrabbiarsi di tanto in tanto, e non mi parete né troppo buono
né troppo cattivo da tenere in sesto il vostro umore.
— L’ho perduto soltanto una volta
in cinque anni.
— Le occasioni ritornano, allora
– ribatté l’ospite. – Prima che trascorrano sei mesi vi vedrò in
preda ad una furia deliziosa.
— Pensate di cacciarmici
voi?
— E non mi spiacerebbe davvero!
Prendete la vita con troppa calma, e ciò m’esaspera. E poi siete
troppo felice. Voi possedete ciò che deve essere la piú piacevole
cosa al mondo, la coscienza di aver comprato il proprio piacere in
avanzo e di esserselo pagato. Voi non avete il giorno della resa
dei conti scritto in fronte; la vostra resa dei conti è già
avvenuta.
— Ebbene, suppongo di essere
felice – disse Newman.
— Siete stato odiosamente ricco
di successi.
— Sí, successo nel rame – disse
Newman, – poco successo nelle ferrovie, e fiasco completo negli
olii.
— È veramente spiacevole come gli
Americani hanno fatto il loro danaro! E adesso che avete il mondo
davanti a voi non vi manca che goderne.
— Oh, suppongo, sí, di avere una
discreta fortuna – disse Newman. – Soltanto sono stanco di
vedermelo rinfacciare. E poi ci sono anche i suoi bravi svantaggi.
Io non sono un intellettuale.
— Oh, nessuno s’aspetta che voi
lo siate – rispose la signora Tristam. Poi, dopo un istante: –
Tanto piú che invece lo siete.
— Intendo di avere del buon tempo
a mia disposizione – disse Newman. – Non sono un uomo colto, non
sono neanche istruito, non so nulla di storia, di arte, di lingue o
di altre materie di cultura: ma non sono neanche un somaro e
riuscirò bene a conoscere qualcosa dell’Europa durante il tempo che
ci starò. Sento qualcosa sotto alle mie costole, qui – e aggiunse
subito: – che non posso spiegare, una sorta di bramosia ardente e
irrequieta, una voglia di protendermi e di raccogliermi.
— Bravo! – esclamò la signora
Tristam. – Ciò è molto bello. Voi siete il grande Barbaro
dell’Occidente che si avanza a gran passi in tutta la sua innocenza
e potenza su questo povero e sterile vecchio mondo, per piombarvi
sopra.