L’americano - Henry James - E-Book

L’americano E-Book

Henry James

0,0
0,99 €

oder
-100%
Sammeln Sie Punkte in unserem Gutscheinprogramm und kaufen Sie E-Books und Hörbücher mit bis zu 100% Rabatt.
Mehr erfahren.
Beschreibung

Il terzo romanzo di Henry James è un'esplorazione del suo tema più potente e perenne: lo scontro tra le culture europea e americana, il Vecchio e il Nuovo. Christopher Newman, un milionario americano "fatto da sé" in Francia, si innamora della bella aristocratica Claire de Bellegarde. La sua famiglia, tuttavia, colta alla sprovvista dai suoi modi sfacciati americani, rifiuta la sua proposta di matrimonio. Quando Newman scopre un segreto colpevole nel passato dei Bellegarde, affronta un dilemma morale: dovrebbe smascherarli e ottenere così la sua vendetta? I primi lavori magistrali di James sono allo stesso tempo una commedia sociale, un romanzo melodrammatico e un romanzo realistico di buone maniere.

Das E-Book können Sie in Legimi-Apps oder einer beliebigen App lesen, die das folgende Format unterstützen:

EPUB
Bewertungen
0,0
0
0
0
0
0
Mehr Informationen
Mehr Informationen
Legimi prüft nicht, ob Rezensionen von Nutzern stammen, die den betreffenden Titel tatsächlich gekauft oder gelesen/gehört haben. Wir entfernen aber gefälschte Rezensionen.



Henry James

L'AMERICANO

ISBN 979-12-5971-972-0

Greenbooks editore

Edizione digitale

Novembre 2021

www.greenbooks-editore.com

ISBN: 979-12-5971-972-0
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Writehttps://writeapp.io

Index

LIBRO PRIMO

LIBRO SECONDO

LIBRO PRIMO

LIBRO PRIMO
I
Un chiaro giorno di maggio dell’anno 1868 un signore stava comodamente allungato sul grande divano circolare che in quel tempo occupava il centro del Salon Carré del Museo del Louvre. Questo spazioso sofà è stato tolto via, ora, con gran rimpianto di tutti gli amatori di belle arti dalle ginocchia comode, ma il signore in questione aveva preso possesso di quel morbidissimo divano e, con la testa gittata all’indietro, le gambe distese, guardava intensamente la bella Madonna del Murillo portata dalla luna e godeva con beatitudine della propria agiata posizione. S’era tolto il cappello e gli aveva gittato là accanto la piccola guida rossa e un cannocchiale da teatro. Faceva caldo e, sudato pel camminare che aveva fatto, si andava passando ripetutamente il fazzoletto sulla fronte con un gesto un poco stanco. Non sembrava però uomo a cui la stanchezza fosse famigliare: lungo, slanciato, muscoloso, pareva possedere quella specie di vigore che si potrebbe chiamare «inflessibilità». Ma il trambusto che si era dato quel giorno era stato per lui di una qualità alquanto insolita, poiché spesso egli aveva compiuto grandi fatiche fisiche che lo avevano lasciato meno stanco di quel suo tranquillo passeggiare attraverso il Louvre. Aveva passato in rassegna tutti i quadri che Baedeker segnalava con un asterisco in quelle sue formidabili pagine di stampa minuta: la sua attenzione era stata estremamente affaticata, i suoi occhi erano abbagliati, ed egli sedeva là in preda ad un estetico mal di capo. Ma oltre a ciò aveva osservato anche tutte le copie che intorno ai quadri andavano progredendo per mano di quelle innumerevoli giovani donne le quali in Francia, vestite in impeccabili toilettes, sogliono consacrarsi alla divulgazione dei capolavori; e, se vogliamo dire il vero, aveva ammirato spesso piú le copie degli originali. I tratti del suo volto lo rivelavano per un uomo sagace, abile, e in verità egli aveva spesso passato notti intere sopra ispidi fasci di conti e udito il gallo cantare senza pur emettere uno sbadiglio. Ma Raffaello, Tiziano e Rubens erano una nuova aritmetica per lui e per la prima volta andavano inspirando al nostro amico una leggera diffidenza verso se stesso.
Un osservatore che appena fosse stato sensibile al tipo nazionale non avrebbe avuto alcuna difficoltà a definire l’origine etnica di questo inesperto amatore d’arte, e avrebbe potuto sentire un certo umoroso sentore della quasi ideale perfezione con cui egli colmava il modello nazionale del suo paese. Era un potente tipo d’americano, ma era soprattutto fisicamente un bell’uomo. Dimostrava di possedere quella specie di salute e di vigore che giunti al massimo grado sono molto impressionanti: quell’aspetto fisico che chi lo possiede in genere non fa nulla per conservare. Era forte e robusto senza sapere di esserlo. Se doveva recarsi in qualche luogo lontano, ci andava senza pensare di compiere un grande sforzo. Non aveva teorie né sui bagni freddi né sull’uso dei clubs indiani; non era né un canottiere né un tiratore né uno spadaccino (non aveva mai avuto tempo per simili spassi) e quasi non sapeva che il cavalcare è raccomandabile per certe forme d’indigestione. Era per indole un uomo temperato, ma la sera prima di quella sua visita al Louvre aveva pranzato al Café Anglais perché gli avevano detto che era quella un’esperienza da non trascurare, poi aveva dormito poco meno che il sonno del giusto. La sua aria, il suo portamento consueti erano piuttosto rilassati e svagati, ma quando si raddrizzava sotto una speciale inspirazione pareva un granatiere in parata. Non fumava mai; gli era stato assicurato che il sigaro è eccellente per la salute ed egli era anche capace di crederci, ma s’intendeva di tabacco quanto di scienza omeopatica. Aveva una testa assai ben fatta, con una ben modellata simmetria tra la parte frontale e l’occipitale, e una quantità di dritti e scuri capelli piuttosto aridi. Bruno di carnagione, il suo naso possedeva una curva alquanto accentuata e baldanzosa. L’occhio era di un grigio chiaro e freddo, e il viso, tranne che per un paio di baffi abbondanti, era tutto sbarbato. Aveva mascelle piatte e un collo tendinoso frequente nel tipo americano; ma le tracce del suo carattere etnico si ritrovavano piú nell’espressione che nelle fattezze del viso, ed era a questo riguardo che l’aspetto del nostro amico appariva oltremodo eloquente. Il sottile osservatore che abbiamo supposto poco fa, dopo aver ben considerato il carattere espressivo della sua persona poteva tuttavia trovarsi imbarazzato nel descriverla. Essa aveva quella tipica vaghezza che non è vacuità, quell’insignificante candore che non è semplicità, quell’aria di non essere legato a niente in particolare come di uno che si trova in un’attitudine di benevola accoglienza in tutte le circostanze della vita, che si trova sempre a suo agio dappertutto, cosí caratteristica di molte facce americane. Ma era soprattutto nell’occhio che stava scritta la storia dell’uomo: un occhio in cui innocenza ed esperienza si fondevano in modo singolare. Quell’occhio dava contraddittorie suggestioni, e se pur non era l’occhio sfolgorante dell’eroe da romanzo, voi potevate trovare in esso quasi ogni cosa che vi andavate cercando. Freddo e pur amichevole, franco e pur cauto, sagace e pur credulo, positivo e pur scettico, pieno di confidenza e pur riservato, estremamente intelligente ed estremamente lieto d’umore, esso possedeva qualcosa di vagamente sprezzante pur nella sua cordialità e qualcosa di profondamente rassicurante pur nel suo riserbo. Il taglio dei suoi mustacchi di gentleman, con le due pieghe premature al di sopra di quelli e la foggia del suo vestito in cui uno sparato di camicia ed una cravatta d’azzurro chiaro facevano forse troppo macchia, completavano il suo ritratto. Noi lo abbiamo avvicinato forse in un momento non troppo favorevole, egli certo non stava posando per un ritratto. Ma disattento, piuttosto imbarazzato della questione estetica e colpevole del triste errore (come da ultimo abbiamo scoperto) di confondere il merito dell’artista con quello della sua opera (poiché in verità egli ammirava la deforme Madonna della signorina dalla pettinatura di maschietto, vedendo ch’ella stessa vi dava tanta importanza), egli è una conoscenza discretamente promettevole. Risolutezza, salute, giocondità, ricchezza erano tutte cose che egli aveva a sua disposizione; evidentemente era uomo pratico, ma l’idea di praticità nel suo caso aveva limiti indefiniti e misteriosi che invitavano l’immaginazione a lavorare.
Di tanto in tanto, mentre la piccola copiatrice procedeva nel suo lavoro, dava un’occhiata interrogativa al suo ammiratore. Pareva che per lei coltivare le belle arti volesse dire compiere una quantità di gesti marginali, come allontanarsi un poco a contemplare la pittura a braccia conserte col capo piegato or da una parte or dall’altra, stringersi tra le dita un mento pieno di fossette sospirando e corrugando la fronte e picchierellando il piede per terra, cacciarsi febbrilmente le dita fra le trecce in disordine per cercarvi un’errabonda forcina... I quali gesti erano accompagnati da un’occhiata irrequieta che essa lanciava meglio che altrove sopra il signore in questione. Finalmente costui si alzò repentinamente, si mise il cappello e si accostò a lei. Poi collocatosi davanti alla copia, la contemplò per qualche momento, durante il quale essa fece mostra di non accorgersi di lui. Quindi volgendosi a lei con la sola parola che costituiva il forte del suo vocabolario francese e tenendo levato il dito in modo da illuminarne il significato: – Combien? – domandò d’un tratto.
La pittrice lo fissò un poco con gli occhi sbarrati, strizzò un poco le labbra, alzò le spalle, poi deposti pennello e tavolozza si mise a stropicciarsi le mani.
— Quanto? – chiese il nostro amico in inglese. – Combien?
— Il signore desidera forse acquistare il mio quadro? – domandò la signorina in francese.
— Molto grazioso, splendide. Quanto? – ripeté l’Americano.
— Piace al signore la mia piccola copia? È un soggetto molto bello – fece la signorina.
— La Madonna, sí... Non sono cattolico, ma voglio acquistarla ugualmente. Combien? Me lo scriva qui. – E tratta di tasca una matita le mostrò un foglietto volante nella sua guida. L’altra rimase là a fissarlo un poco grattandosi il mento con la matita. – Non è forse in vendita? – egli le domandò. E poiché ella continuava a riflettere e a fissarlo con occhi che, nonostante il suo desiderio di stimare cosa comune quella velleità di mecenatismo, tradiva una quasi commovente incredulità, egli temette d’averla quasi offesa. Ella cercava semplicemente di parer indifferente e si chiedeva tra sé fin dove potesse arrivare. – Non ho errato?... Pas insulté, non? – continuò a dire il suo interlocutore. – Lei comprende un poco l’inglese?
L’attitudine della signorina per definire le cose alla svelta era piuttosto notevole. Lo fissò ancora col suo sguardo acuto e sagace e gli chiese se non parlava francese. Poi: – Donnez! – fece bravamente. E presa la guida aperta, nell’angolo superiore del foglietto scrisse una cifra a carattere minuto e molto nitido. Quindi ritornò il libro al suo interlocutore e riprese il pennello.
Il nostro amico lesse la cifra: «2000 franchi». Non disse nulla pel momento, ma guardando la pittura mentre la copiatrice aveva ricominciato a menare svelte pennellate coi suoi colori: – Per una copia non è troppo? – le domandò finalmente. – Pas beaucoup?
La signorina rialzò gli occhi dalla tavolozza, lo squadrò da capo a piedi, e inspirata da un’ammirevole sagacità a dar la piú esatta delle risposte:
— Sí, è molto. Ma la mia copia ha notevoli qualità e non merita meno.
Il signore non capiva il francese, ma ho detto che era intelligente e qui è il momento opportuno per provarlo. Egli comprese per naturale istinto il significato della frase di lei e questo lo condusse a pensare che ella doveva essere onesta. Bellezza, talento, virtú, ella tutto aveva! – Ma lei deve finirlo – egli disse – finish, sa? – E le additò nella figura una mano che non aveva ancora dipinto.
— Oh, sarà finito alla perfezione: alla perfezione delle perfezioni! – esclamò la signorina. E per confermar la promessa, mise giú una pennellata di rosa sulla guancia della Madonna.
L’Americano corrugò la fronte. – Ah, troppo rosso, troppo rosso! – fece additando il Murillo. – È piú delicato là sull’originale.
— Delicato? Oh, verrà delicato, signore, verrà delicato come un biscuit de Sèvres. Ora lo smorzerò un poco di tono. Conosco tutti i segreti della mia arte... E dove desidera che il quadro le venga recapitato? Il suo indirizzo, prego?
— Il mio indirizzo? – Egli trasse una carta da visita dal suo notes e vi scrisse su qualcosa, poi dopo aver esitato un momento, soggiunse: – Però se quando la copia sarà finita non dovesse piacermi non sarò mica obbligato a prenderla.
La signorina sembrò buona indovina quanto lui. – Oh, io sono certa che il signore non è capriccioso – ella disse con un sorriso maliziosetto.
— Capriccioso? – e il signore cominciò a ridere. – Oh, non sono capriccioso affatto. Sono fedele anzi, molto costante. Comprenez?
— Il signore è costante, capisco perfettamente. È questa una virtú rara. In compenso lei avrà il suo quadro al piú presto possibile: la settimana prossima... appena sarà asciugato. Prenderò la carta da visita del signore. – E la prese e lesse il suo nome: «Christopher Newman». – Poi si provò a ripeterlo forte e rise alla sua cattiva pronuncia. – I vostri nomi inglesi son cosí buffi!
— Buffi? – disse il signor Newman ridendo lui pure. – Non ha mai udito parlare di Cristoforo Colombo?
— Bien sûr! Colui che ha inventato l’America. Un grand’uomo. È il suo patrono?
— Mio patrono?
— Il suo santo nel calendario.
— Oh, appunto, i miei genitori mi hanno dato questo nome per lui.
— Il signore è americano?
— Non lo vede? – egli domandò.
— E lei porterà il mio piccolo quadro laggiú? – essa soggiunse chiarendo la frase con un breve gesto.
— Oh io intendo acquistare tanti quadri... beaucoup, beaucoup – disse Cristoforo Newman.
— Tanto maggior onore per me – fece la ragazza – poiché io son sicura che il signore ha molto buon gusto.
— Ma lei mi deve dare la sua carta da visita, – Newman disse. – La sua carta, sa?
L’altra parve adombrarsi per un istante e poi disse: – Mio padre verrà da lei.
Stavolta i poteri d’interpretazione di Newman fallirono. – La sua carta, il suo indirizzo – ripeté semplicemente.
— Il mio indirizzo? – disse la signorina, poi con una breve alzata di spalle: – Fortuna che lei è americano! È la prima volta che do il mio biglietto da visita a un signore. – E tolto di tasca un portamonete piuttosto unto, ne trasse una lucida carta da visita che porse al suo mecenate.
Vi stava scritto nitidamente a pennello, tra grandi svolazzi: «M.lle Noémie Nioche». Ma il signor Newman al contrario della sua interlocutrice lesse il nome con perfetta gravità; tutti i nomi francesi gli riuscivano egualmente curiosi.
— Ed ecco qua mio padre ch’è venuto per riaccompagnarmi a casa – fece la signorina Noemi. – Egli sa l’inglese e potrà intendersi con lei. E si volse a salutare un piccolo vecchio che si inoltrava nella sala, con passo strascicato, guardando Newman al di sopra degli occhiali.
Il signor Nioche sopra un piccolo viso, umile, bianco e vacante portava una lucida parrucca di un singolare colore che lasciava quel viso quasi egualmente inespressivo come quello di certe anonime testiere sopra le quali sogliono siffatti articoli apparire nelle botteghe dei parrucchieri. Era una squisita immagine di nobiltà decaduta. Il suo pastranuccio mal fatto, spazzolato le mille volte, i suoi guanti rammendati, i suoi stivali fortemente lucidati, il suo cappello sudicetto e assettatuzzo attestavano di una persona che aveva subíto dei tracolli e che si aggrappava allo spirito di un vestire decente quantunque la lettera di esso fosse scomparsa ormai senza speranza. Tra l’altro il signor Nioche aveva perduto anche il coraggio. Le avversità non solo lo avevano rovinato, ma spaventato, ed egli si accingeva a passare attraverso il restante della sua vita in punta di piedi per non scatenare i fati avversi. Se poi quello strano signore stava dicendo alcunché di sconveniente alla sua figliuola, il signor Nioche lo avrebbe bruscamente pregato, come particolare favore, di astenersene: quantunque ammettesse che era presuntuoso da parte sua domandare simili favori.
— Il signore ha comperato il mio quadro – fece la signorina Noemi. – Quando sarà finito glielo porterai a casa in un cab.
— Con un cab! – esclamò il signor Nioche e sbarrò tanto d’occhi, smarritamente, come avesse veduto sorgere il sole a mezzanotte.
— È lei il padre della signorina? – fece Newman. – Credo mi abbia detto che lei parla inglese.
— Parlare inglese?... Sí – fece il vecchio stropicciandosi adagio il dorso delle mani. – Glielo porterò in un cab.
— Digli qualcosa allora – esclamò Noemi. – Ringrazialo un poco... ma non troppo.
— Un poco, figlia mia, un poco – disse il signor Nioche, perplesso. – Quanto?
— Duemila! – profferí Noemi. – Ma non far tanto chiasso perché altrimenti c’è caso ch’egli si riprenda la parola.
— Duemila! – esclamò il vecchio, e cominciò a frugarsi addosso per cercare la sua tabacchiera. Poi guardò Newman da capo a piedi, guardò la sua figliuola, guardò il quadro. – E stai attenta a non peggiorarlo, ora! – egli le gridò in modo quasi sublime.
— Dobbiamo andare a casa – disse Noemi. – È stata una buona giornata di lavoro. Ma tu stai attento di portarlo bene. – Poi cominciò a raccogliere assieme i suoi ordegni di lavoro.
— Come posso ringraziarla? – fece il signor Nioche. – Il mio inglese non basta.
— Vorrei io parlare francese cosí bene! – disse Newman di buon umore. – La sua figliola è molto brava.
— Oh signore! – e Nioche lo guardò al di sotto degli occhiali con occhi pieni di lagrime scrollando il capo piú volte con infinita tristezza. – Essa ha avuto un’educazione... très supérieure! Nulla ho risparmiato: lezioni di pastello a dieci franchi l’una, lezioni di pittura a olio a dodici franchi. Io non badavo a spendere. Oh, essa è una vera artiste!
— E mi ha detto di avere avuto dei tracolli? – domandò Newman.
— Tracolli? Oh signore, disgrazie, terribili disgrazie!
— Insuccessi negli affari, eh?
— Molti, molti insuccessi!
— Ma, niente paura, si rimetterà in gamba ancora – proruppe Newman allegramente.
Il vecchio piegò il capo da un lato e lo fissò con espressione penosa come si trattasse di uno scherzo crudele.
— Che cosa dice? – domandò Noemi.
Il signor Nioche annusò una presa di tabacco.
— Dice che potrò rifare la mia fortuna.
— Forse ti potrà aiutare lui. E che altro dice?
— Dice che sei molto brava.
— È possibile. Del resto lo credi anche tu, papà.
— Se lo credo, figliola! Con questa testimonianza! – E si volse di colpo a gettare uno sguardo pieno d’orgoglio e d’ammirazione sull’ardito scarabocchio della figliola.
— Domandagli allora se gli piacerebbe imparare un po’ il francese.
— Imparare il francese?
— Sí, prendere qualche lezione.
— Prendere lezioni da te.
— Ma da te!
— Da me, bimba? Ma come potrei dar lezioni io?
— Pas de raisons! Domandaglielo, e subito! – fece Noemi, asciutta.
Il signor Nioche rimase atterrito, ma sotto lo sguardo della figliola si riprese e facendo del suo meglio per sorridere l’obbedí.
— Vorrebbe ella – chiese con implorante tremore a Newman – vorrebbe ella avere qualche nozione del nostro bel linguaggio?
— Studiare il francese? – fece Newman guardandolo con stupore.
Il signor Nioche strinse insieme la punta delle dita e alzò un poco le spalle. – Una piccola conversazione!
— Conversazione... Ecco, sí – mormorò la signorina Nioche che aveva colto al volo le parole. – Conversazione della miglior società.
— La nostra conversazione francese è famosa e lei lo sa – s’azzardò ad aggiungere il signor Nioche. – È un gran dono.
— Ma non è terribilmente difficile? – chiese Newman con semplicità.
— Non per un uomo d’esprit come il signore, per uno come lei che ammira la bellezza sotto ogni forma! – E qui il signor Nioche lanciò una occhiata significativa alla Madonna della figliola.
— Non mi ci vedo a chiacchierare in francese, ecco – fece Newman ridendo. – Ma comunque suppongo che piú cose l’uomo sa, meglio sia.
— Il signore l’ha detta giusta. Hélas, oui!
— Penso che mi gioverà molto, per apprendere la vostra lingua, andare un po’ a zonzo per Parigi.
— Ah, ci sono molte cose che al signore occorrerà di dire: cose difficili!
— Ogni cosa ch’io voglio dire è difficile. Ma lei dà lezioni?
Il povero Nioche fu imbarazzato a rispondere. Sorrise con aria ancor piú supplichevole. – Io non sono un professore regolare. – Poi alla figliola: – Non posso mica dirgli che son professore, eh?
— Fagli capire che sarebbe una vera fortuna per lui – ribatté la signorina. – Un homme du monde, un gentleman che discorre con un altro! E tu ricòrdati ciò che sei... ciò che sei stato.
— Comunque mai un maestro di lingua! Non lo fui pel passato e tanto meno adesso. E se mi chiede il prezzo delle lezioni?
— Non te lo chiederà.
— Posso rimettermi a lui?
— No, non è di buon gusto.
— E se me lo chiede?
Noemi si era messa in capo la cuffietta e stava allacciandosi i nastri. Poi se li ravviò un poco con la mano spingendo in fuori il suo grazioso musetto, e: – Dieci franchi – disse rapida.
— Oh, figlia mia, io non oserò mai domandargli un simile prezzo.
— E non osare! Egli non vorrà richiedertene finché le lezioni non saran finite, e allora lo farò io il prezzo.
Il signor Nioche si rivolse al fiducioso forastiero, strofinandosi le mani con l’aria di un uomo colpevole, la quale se non era piú intensa era soltanto perché era d’abitudine cosí strana e sorprendente. Non venne in mente a Newman di richiederlo di qualche garanzia circa la sua abilità ad insegnar lingue; immaginò, naturalmente, che il signor Nioche conoscesse la sua e quell’aria d’umile riserbo che egli aveva era appunto per lui la piú perfetta espressione di quell’aspetto che l’Americano, per vaghe ragioni, associava al tipo del vecchio insegnante di lingue forastiere. Newman non aveva mai meditato sui procedimenti della scienza filologica. Aveva l’impressione che cercar di scoprire le misteriose corrispondenze tra i vocaboli del suo inglese famigliare e quelli che trovava usati correntemente in quella straordinaria Parigi si dovesse alla fine risolvere in una quantità di ridicoli sforzi muscolari da parte sua. – Come ha imparato l’inglese lei? – domandò al vecchio.
— Quand’ero giovane, prima della mia disgrazia. Oh ero ben sveglio e intelligente allora! Mio padre era un gran commerçant e per qualche anno mi collocò presso un’amministrazione in Inghilterra. Cosí un po’ d’inglese m’è rimasto attaccato. Ma poi lo scordai.
— Quanto francese posso imparare in un mese?
— Che cosa dice? – fece la signorina Noemi.
Il signor Nioche le spiegò.
— Ma egli parlerà come un angelo! – ribatté la figlia.
Però quella nativa integrità che il signor Nioche aveva vanamente esercitata per appoggiare la sua commerciale prosperità qui brillò di nuovo: – Dame, monsieur – egli rispose – tutto, tutto io le posso insegnare! – Ma poi riprendendosi ad un cenno della figliuola: – Verrò, verrò da lei, al suo albergo.
— Oh, sí, mi piacerebbe imparare il francese, – Newman proseguí con democratico abbandono. – Al diavolo s’io ci avevo mai pensato prima d’ora! Davo per certo che la cosa mi sarebbe stata impossibile. Ma se lei ha appreso la mia lingua perché non potrò io imparare la sua? – soggiunse poi togliendo ogni punta allo scherzo con una franca e schietta risata. – Soltanto, s’io mi metterò a conversare con lei, lei dovrà trovare qualche argomento un po’ allegro.
— Il signore è molto buono. Io sono addirittura soggiogato – disse il signor Nioche levando le braccia verso di lui. – Ma lei mi pare allegro e spiritoso per due.
— Oh no – disse Newman piú gravemente. – È lei piuttosto che dev’esserlo: questo fa parte del contratto.
Il signor Nioche s’inchinò con una mano sul cuore.
— Benissimo, signore. Lei mi ha già messo lo spirito in corpo.
— Venga allora da me, e mi porti il quadro che glielo pagherò: e intanto ne discorreremo un poco: sarà un tema divertente.
La signorina Noemi frattanto aveva raccolto i suoi strumenti da lavoro e aveva data da tenere la preziosa Madonna a suo padre, il quale, ritiratosi in disparte, con in mano il quadro andava rinnovando le sue riverenze. La giovane si ravvolse nello scialle con lo stile di una perfetta parigina, e con un sorriso, pure parigino, prese congedo dal suo mecenate.
II
Newman ritornò al divano sedendo al lato opposto davanti alla grande tela di Paolo Veronese: Le nozze di Canaan. Era stanco e trovò il quadro divertente. Esso gli dava l’illusione alquanto grandiosa di ciò che potesse essere uno splendido convito. Alla sinistra del quadro, una giovane dalle trecce bionde racchiuse in una acconciatura d’oro sta chinata in avanti ad ascoltare con un sorriso di bella convitata il suo vicino. Newman la cercò nella folla delle figure, l’ammirò e poi s’accorse ch’essa pure aveva il suo devoto copista: un giovane dai capelli a spazzola, ritti sulla fronte. Improvvisamente, allora, comprese la mania del collezionista; il primo passo egli l’aveva già fatto e perché dunque non continuerebbe? Erano trascorsi venti minuti soltanto da che aveva comperato il primo quadro della sua vita e già pensava ad un’arte del mecenatismo come ad una impresa affascinante. Queste sue riflessioni raddoppiarono il suo buon umore e già stava per avvicinarsi al giovanotto con un altro Combien? Due o tre fatti, a questo proposito, sono da rilevarsi, quantunque ineguale possa sembrare la catena logica che li unisce tra loro. Newman si era accorto che la signorina Nioche gli aveva chiesto troppo: non le serbava rancore per questo ma già deliberava tra sé che avrebbe dato al giovane la somma che semplicemente si meritava. Ma in quel momento la sua attenzione fu attratta da un signore che era entrato dall’altra parte della sala e il cui aspetto era quello di straniero, nuovo alla galleria, quantunque colui non recasse con sé né una guida né un binoccolo. Portava con sé un ombrellino bianco per il sole, orlato di seta turchina, e passeggiava davanti al quadro del Veronese dandogli delle vaghe occhiate, ma troppo da vicino in modo da non poter veder altro se non la grana della tela. Come si trovò davanti a Cristoforo Newman egli si fermò e si volse, ed allora il nostro amico che stava osservandolo ebbe un sospetto che gli venne dall’aver considerato vagamente il suo viso. Il risultato di questa piú larga indagine fu che di colpo egli balzò in piedi, attraversò la sala e distendendo le mani fermò il signore dal parasole listato di blu. Questi lo guardò stupefatto e stese la mano a caso. Era corpulento e roseo, e quantunque la sua figura, provvista di bella e morbida barba accuratamente spartita nel mezzo e spazzolata non fosse notevole per intensità d’espressione, pure egli aveva l’aria di uno che volesse stringere volentieri la mano a tutti quanti. Non so che pensasse Newman del suo viso, ma sentí nella sua stretta un desiderio di risposta.
— Oh guarda, guarda! – gli fece ridendo. – E non dire adesso che non mi conosci, se anche non ho con me un parasole bianco!
Il suono di questa voce rischiarò la memoria dell’altro; la sua faccia si dilatò al massimo grado, ed egli pure scoppiò in una risata.
— Bene, Newman, che il cielo mi fulmini! Chi mai al mondo ti avrebbe pensato qui? Ma sai che sei cambiato!
— E tu no! – fece Newman.
— Non in meglio certo. Quando sei venuto qui?
— Tre giorni fa.
— E perché non me l’hai fatto sapere?
— Non avevo la minima idea che tu ti trovassi a Parigi.
— Sono qui da sei anni.
— Dev’essere otto o nove anni fa che ci siamo incontrati.
— O giú di lí. Eravamo molto giovani, allora.
— Fu in San Louis, durante la guerra. Tu eri nell’esercito.
— Oh, io no; tu piuttosto.
— Credo bene che ci fossi.
— Te la sei cavata bene?
— Ci ho cavato mani e piedi... E con soddisfazione, anche. Ma tutto ciò sembra assai lontano.
— Da quanto tempo sei in Europa?
— Da diciassette giorni.
— È la prima volta che ci vieni?
— La prima.
— Hai messo insieme una grossa fortuna, eh?
Cristoforo Newman restò silenzioso per un momento, poi con un tranquillo sorriso accennò di sí.
— E sei venuto a Parigi, a farli fuori?
— Là, vedremo... E cosí, qui usa parasoli bianchi la gente?
— Certo. Son gente alla grande qui. Hanno una vera idea del comfort da queste parti.
— E dove si comprano?
— Un po’ dappertutto.
— Bene, Tristam, sono contento di averti acciuffato; tu mi mostrerai ogni cosa qui. Immagino che conoscerai Parigi dentro e fuori.
Il signor Tristam ebbe un sorriso di compiacimento. – Bene, francamente credo che non ci siano molti uomini che saprebbero mostrarti Parigi meglio di me. Sí, ti prendo sotto la mia protezione.
— Ah, peccato che tu non eri qui qualche minuto fa. Ho comperato un quadro, e tu avresti potuto condur l’affare per me.
— Comprato un quadro? – fece Tristam guardando vagamente alle pareti. – Perché? Li vendono questi quadri?
— Intendo una copia.
— Oh, vedo, vedo. Questi – soggiunse Tristam accennando ai Tiziani ed ai Van Dyck – questi, suppongo, sono originali.
— Lo spero bene – fece Newman. – Perché io non voglio mica una copia d’una copia.
— Ah – soggiunse Tristam con aria di mistero – non si può mai dire. Oggi, sai, si imita cosí indiavolatamente bene!... Come i gioiellieri con le loro pietre false. Vai al Palais Royal e vedrai scritto «Imitazione» su metà delle vetrine. La legge, sai, li obbliga ad apporre quella dichiarazione. Ma tu non puoi distinguere le vere dalle false. A dirti la verità – continuò corrugando un poco il viso, – io non me la faccio molto coi quadri. Lascio questa briga a mia moglie.
— Tu hai preso moglie?
— Già, non te l’avevo ancor detto. È una donna molto piacente. Devi conoscerla. Sta lassú nell’Avenue Jéna.
— E cosí, ti sei regolarmente accasato: casa, figlioli, e tutto.
— Sí, una casa chic e un paio di bambini.
— Bene – fece Newman con un gesto e un sospiro – t’invidio.
— Oh, non devi invidiarmi! – ribatté Tristam dandogli un colpetto col parasole.
— Scusami, ma t’invidio proprio.
— Bene, tu non diresti cosí quando... quando...
— Non vorrai mica dire quando avrò veduto la tua bella famiglia?
— Quando avrai veduto Parigi, ragazzo mio! Tu, qui, devi essere libero padrone di te.
— Oh, sono stato libero padrone di me tutta la vita, e ormai ne sono sazio.
— Ebbene, prova Parigi. Quanti anni hai?
— Trentasei.
— C’est un bel âge! come dicono qui.
— E che significa?
— Significa che un uomo non dovrebbe mai allontanare il suo piatto finché non l’ha finito.
— Cosí? Ho fatto or ora un accordo per prendere delle lezioni in francese.
— Oh, non hai bisogno di lezioni tu! Il francese lo imparerai sentendolo parlare qua e là. Io non ho mai preso lezioni.
— Immagino che tu parlerai il francese bene come l’inglese.
— Meglio! – esclamò Tristam schiettamente. – È una lingua magnifica il francese. Tu puoi dire ogni genere di cose spiritose.
— Ma, suppongo – disse Cristoforo Newman con vivo desiderio d’informarsi – che bisogna essere spiritosi per poterle dire.
— Ma per nulla affatto; e questo è il bello.
Mentre i due amici si scambiavano queste riflessioni erano rimasti là in piedi, appoggiati alla ringhiera che proteggeva i quadri. Ma alla fine Tristam dichiarò che egli era piuttosto stanco e che sarebbe stato felice di sedersi. Newman allora gli raccomandò con entusiasmo il divano sul quale si era abbandonato poco prima. Ed ambedue sedettero.
— È un gran luogo questo, non è vero? – fece Newman con ardore.
— Grande, grande. La piú bella cosa che sia al mondo. – Ma d’un tratto Tristam si arrestò esitante e volse intorno lo sguardo. – Immagino che non si potrà fumare qui.
Newman lo guardò con stupore. – Fumare? Non so, tu conoscerai il regolamento meglio di me.
— Non son mai venuto qui prima d’ora.
— Mai, in sei anni?
— Credo che mi ci abbia trascinato una volta mia moglie quando siamo venuti a Parigi, ma non ho mai trovato la strada di ritornarci.
— Ma se m’hai detto che conosci Parigi cosí bene!
— Questo io non lo chiamo Parigi! – esclamò Tristam con decisione. – Vieni, andiamo al Palais Royal a farci una fumatina.
— Non fumo – disse Newman.
— Berremo un sorso allora.
E il signor Tristam condusse via il suo compagno.
Essi passarono attraverso le gloriose aule del Louvre; discesero, pei gradini, lungo le gelide e tetre gallerie delle statue e uscirono sull’immensa corte. Newman si guardava intorno, camminando, ma senza abbandonarsi a commenti e solo quando si ritrovarono all’aria aperta egli disse al suo amico: – Mi pare che s’io fossi in te sarei venuto qui almeno una volta alla settimana.
— Oh, non ci saresti venuto – disse Tristam. – Lo pensi, ma non lo avresti fatto. Non ne avresti avuto il tempo. Avresti sí avuto l’intenzione di venirci, ma non ti saresti deciso. Ci son delle cose ben piú divertenti di queste in Parigi. L’Italia, quello sí che è un paese d’andarci a vedere delle pitture: aspetta quando sarai là. E là tu devi andare, Newman, là tu non puoi far altro che veder quadri; è una meravigliosa regione, non ci trovi un sigaro decente... Io non so perché son venuto qui, oggi. Girandolavo da queste parti, incapace di trovarmi uno spasso, quando, passando di qua scorsi il Louvre e pensai di entrare a vedere cosa vi succedesse. Ma se non ti avessi trovato qui mi sarei piuttosto annoiato. Al diavolo, non amo i quadri, preferisco la vita. – E Tristam scosse quella sua formula di felicità con una sicurezza che avrebbe potuto invidiargli la classe numerosa delle persone che soffrono per una dose eccessiva di cultura.
I due gentiluomini procedettero lungo la Rue de Rivoli ed entrarono al Palais Royal, dove sedettero ad uno dei tavolini situati all’ingresso del caffè che dava sulla grande corte quadrangolare. Il luogo era pieno di gente, le fontane zampillavano, una banda suonava e gruppi di sedie stavano raccolte sotto i tigli, mentre balie pettorute dalle bianche cuffie sedevano sulle panchine offrendo ai loro infanti la piú ampia disponibilità di nutrizione. Dominava su tutta la scena un’agevole e casalinga gaiezza, e Cristoforo Newman sentí che essa era molto, tipicamente parigina.
— Ed ora – incominciò Tristam come ebbero assaggiate le bibite che egli aveva ordinate – ora raccontami di te. Quali sono le tue idee, i tuoi progetti; da dove vieni e dove vai? In primo luogo, dove alloggi?
— Al Grand Hôtel.
Tristam corrugò il viso paffuto. – Non va bene – disse. – Devi mutare.
— Mutare? – fece Newman – Ma se è l’albergo piú distinto nel quale io sia mai stato.
— Tu non hai bisogno di un albergo distinto, ma piuttosto di qualcosa di piccolo, di quieto, di squisito, dove i camerieri accorrano quando suoni il campanello e ti sappiano riconoscere.
— Ma se accorrono prima ch’io tocchi il campanello – esclamò Newman – e mi fanno un mucchio d’inchini.
— Sarai largo in mance. Questo non è bon ton.
— In ogni caso, non credo. Uno ieri mi portò qualcosa, poi stava là a dondolarsi intorno come se intendesse chiedermi l’elemosina. Io allora gli offrii una sedia e lo invitai a sedere. Questo non era bon ton?
— Oh, no davvero!
— Ma egli se la svignò subito. Comunque il luogo mi diverte. Al diavolo l’eleganza, se mi annoia. La sera scorsa stetti su nel cortile dell’albergo fino alle due a guardare l’andirivieni della gente che girellava intorno.
— Ti accontenti di poco. Ma fa come vuoi. Sopra ogni cosa i propri comodi. Hai fatto su un mucchio di soldi eh?
— Abbastanza, insomma.
— Beato chi lo può dire. Abbastanza per che?
— Per riposarmi un poco, per dimenticare i fastidi, per guardarmi intorno e vedere il mondo e concedermi qualche spasso e perfezionare il mio spirito, e, se me ne prende capriccio, sposarmi. – Newman parlava adagio, con una certa asciuttezza d’accento, a pause frequenti. Era il suo modo di esprimersi, ma appariva ancor piú marcato in queste ultime parole.
— Per Giove, ecco un programma! – esclamò Tristam. – E certo per realizzarlo si richiede del denaro e soprattutto una moglie; a meno che il denaro non te lo dia lei, come ha fatto la mia... E come hai fatto a farne?
Newman, cacciato un po’ all’indietro il cappello, e incrociate le braccia e distese le gambe, era rimasto là ad ascoltar la banda che suonava e a guardare intorno a sé la gente che andava e veniva, e lo zampillar delle fontane e le balie e i bimbi. – Ho lavorato! – rispose finalmente.
Tristam lo fissò per un istante, i suoi placidi occhi misurarono l’altezza generosa del suo amico, e si fermarono sopra il suo viso contemplativo e sereno. – In che cosa hai lavorato? – domandò.
— Oh, a parecchie cose.
— Immagino che tu sia molto abile, eh?
Newman continuò a guardare le bambinaie e i bambini che davano a quella scena una specie di primitiva e pastorale semplicità. – Sí – disse, – credo di esserlo. – E sempre rispondendo all’amico, prese a raccontargli brevemente la storia della sua vita dal giorno che si erano incontrati per l’ultima volta. Una storia tutta propriamente occidentale che si era svolta fra intraprese ch’è inutile qui raccontare particolareggiatamente al lettore.
Newman era uscito dalla guerra col grado di brigadiere generale, un grado che nel suo caso, senza voler fare paragoni odiosi, era stato affidato a spalle largamente capaci di portarlo. Ma ancorché capace, ove occorresse, di comandare un attacco, Newman cordialmente sdegnava quel mestiere, e i quattro anni che era stato nell’esercito gli avevano lasciato indosso un amaro e cruccioso ricordo di tante cose belle depredate e distrutte: la vita, il tempo, il denaro e l’«abilità» e i primi freschi impeti. E si era dato a ricercare la pace con gusto appassionato ed energico.
Povero e squattrinato quando si era tolto di dosso lo zaino come quando se l’era messo sulle spalle, l’unico capitale di cui disponeva era la sua intrepida risolutezza e la netta percezione dei fini e dei mezzi. La fatica e l’azione gli erano naturali come il respiro, perché davvero uomo piú ricco di salute non ebbe mai a calpestare l’elastico suolo del West. Inoltre la sua esperienza di vita era grande quanto la sua capacità. Già a quattordici anni la necessità lo aveva preso per le sue magre spalle di ragazzo e lo aveva spinto nella via a guadagnarsi la cena della sera. Non si era guadagnato questa, ma quella della sera dopo, e, in seguito, ogni volta che non riusciva a cenare si era perché aveva imparato a farne a meno servendosi del denaro per qualcos’altro, per un piú acuto piacere, per uno scopo piú nobile.
Aveva posto mano e cervello in tante cose, era stato intraprendente nel vero senso della parola: avventuroso e pure indifferente, aveva conosciuto le amare cadute e i piú brillanti successi, ma, sperimentatore per natura, aveva sempre trovato alcunché che lo rallegrava anche nelle stretture del bisogno, anche quando il bisogno gli irritava carne ed anima come il cilicio di un monaco medioevale. Ci fu tempo in cui la sfortuna parve diventata la sua dote inesorabile, la disgrazia la sua compagna di letto, e che qualunque cosa le sue mani toccassero tramutavano non in oro ma in cenere. E fu appunto una volta allorquando questa ostinata persistenza della disgrazia nella sua vita era giunta al colmo che gli balenò la piú vivida idea di un elemento soprannaturale che dominasse gli affari del mondo; gli sembrò vi fosse qualcosa di piú forte nella vita che nella sua stessa volontà, e che questo misterioso qualcosa fosse soltanto il diavolo, e di conseguenza provò una personale ferocia contro questa forza impertinente ed ostile. Conobbe allora cosa volesse dire aver esaurito fino all’ultimo il proprio credito, essere incapace di guadagnarsi pur un dollaro, di trovarsi al cader della notte in una città straniera senza un soldo in tasca per mitigarne l’ostilità. E fu in tali circostanze ch’egli entrò la prima volta in San Francisco, la quale divenne poi la scena dei suoi piú felici colpi di fortuna. E se egli non camminava per la strada, come il Dr. Franklin in Filadelfia, cibandosi alla meglio con una pagnottella, era soltanto perché non aveva la pagnottella indispensabile per la scena. Nei suoi giorni piú tetri egli aveva avuto un solo e semplice desiderio: esserne fuori. Egli riuscí alla fine a spingere il proprio cammino per un terreno piú calmo e a far denaro in larga misura. Bisogna dire però, crudamente, che la sola aspirazione nella vita di Cristoforo Newman era il far denaro; che, quanto a lui, era stato messo al mondo semplicemente per strappare a viva forza una fortuna, e piú grande era meglio era, dalle difficoltà piú terribili della vita. Questa prospettiva colmava pienamente il suo orizzonte e appagava la sua fantasia. Ma sull’uso da farsi del danaro, sopra ciò che uno potesse fare di una vita nella quale fosse riuscito ad iniettare il fiume dell’oro, fino al suo trentacinquesimo anno di età aveva assai scarsamente riflettuto. La vita era stata per lui un gioco scoperto ed egli aveva puntato su alte poste. Aveva vinto alla fine e intascata la vincita. Ma ora, che fare del danaro? Era uomo al quale o presto o tardi tale domanda doveva presentarsi, e la risposta appartiene appunto a questa nostra storia. Egli aveva già avuto una vaga idea che a questa domanda si potessero dare piú risposte di quanto la sua filosofia avesse fino allora pensato, e questa idea pareva prendere come una blanda e piacevole consistenza nel suo spirito mentre se ne stava là oziando col suo amico in quel vivido cantuccio di Parigi.
— Tuttavia ti debbo confessare – egli continuò – che qui io non mi sento affatto un uomo abile. Il mio notevole talento sembra qui di nessuna utilità. Mi sento semplice come un ragazzino, e un ragazzino potrebbe prendermi per mano e condurmi in giro.
— Oh, ti farò io da ragazzino – esclamò Tristam – e ti prenderò per mano. Affidati a me.
— Sono un buon lavoratore – Newman continuò – ma credo di essere un cattivo flâneur. Son venuto qui per divertirmi, ma dubito di potervi riuscire.
— Oh, è presto imparato.
— Sí, posso forse apprendere come si fa, ma temo che non saprò mai farlo per abitudine. Ho la miglior volontà del mondo per impararlo, ma il mio talento non mi porta in quella direzione. Come flâneur non sarò mai originale come sento che lo sei tu.
— Sí – disse Tristam – credo di essere originale, come quelle pitture immortali del Louvre.
— Per di piú – proseguí Newman – io non voglio lavorare per divertirmi piú di quello che non mi divertissi quando lavoravo. Voglio prendere la cosa con tutta comodità. Io mi sento deliziosamente poltrone, e vorrei trascorrere sei mesi cosí, come adesso qui, sedendo sotto un albero ad ascoltare la banda. C’è soltanto una cosa: voglio però che la musica sia buona.
— Musica e pittura! Mio Dio, che gusti raffinati! Tu sei quello che mia moglie chiama un intellettuale. Io non lo sono per niente. Ma via, ti troveremo ben qualcosa di meglio da fare che stare a sedere sotto un albero. Tanto per cominciare, devi venire al mio club.
— Che club?
— «L’Occidentale». Troverai là tutti americani, i migliori per lo meno. Naturalmente tu giochi a poker.
— Oh, dico – esclamò Newman con energia – non vorrai mica rinchiudermi in una sala e inchiodarmi a una tavola di gioco. Non son venuto qui per questo.
— E che diavolo sei venuto a fare? Ti piaceva giocare a poker a San Louis, quando, ben lo ricordo, mi spazzasti la borsa.
— Io son venuto qui per vedere l’Europa, e prenderne il meglio che posso. Voglio vedere tutte le grandi cose, e fare ciò che le persone intelligenti fanno.
— Le persone intelligenti? Molto obbligato; mi prendi forse per una testa di legno?
Newman stava seduto di fianco nella sua sedia, col gomito appoggiato alla spalliera e il capo piegato sulla mano. Senza muoversi egli fissò per un istante il compagno col suo mite sorriso, non del tutto comprensibile e pure cosí semplice e naturale. – Presentami a tua moglie – disse alla fine.
Tristam diede un mezzo salto sulla sedia.
— In verità non lo posso fare. Essa non ha bisogno d’aiuti per guardarmi dall’alto in basso, come neanche tu del resto.
— Ma io non ti guardo dall’alto in basso, amico: e nessuno, niente, io guardo cosí. Non sono affatto superbo, t’assicuro. Ed è per questo che desidero di prendere ad esempio la gente intelligente.
— Ebbene, s’io non sono della élite, come si dice qui, ci sono vissuto vicino. E cosí potrò mostrarti qualche brava persona. Conosci il Generar Packard? Conosci G. P. Hatch? Conosci la signorina Kitty Upjohn?
— Sarò felice di fare la loro conoscenza. Intendo coltivare la buona società.
Tristam che sembrava inquieto e sospettoso gittò al suo amico un’occhiata di traverso, poi disse: – E che stai facendo adesso? Stai scrivendo un libro?
Cristoforo Newman si arricciò per un istante in silenzio la punta dei mustacchi, poi rispose:
— Un giorno, un paio di mesi fa, m’accadde un fatto assai curioso. Mi ero recato a New York per un affare importante; si trattava di una storia piuttosto lunga, si trattava di battere un concorrente in un certo modo, sul mercato. Questo concorrente mi aveva già altre volte giocato un brutto tiro; io l’avevo su con lui ed ero proprio adiratissimo, e mi dicevo che se mi fosse capitata l’occasione gli avrei cambiato i connotati, come si dice. C’era di mezzo una sessantina di migliaia di dollari. Se io fossi riuscito a portarglieli via sarebbe stato un ben fiero colpo per lui che veramente era uomo da non meritar quartiere. Saltai dentro una vettura da piazza, e fu su questa vettura, su questa immortale e storica vettura da piazza che mi avvenne il curioso fatto di cui sto per parlarti. Era una vettura come un’altra, soltanto un po’ piú sudicia, con una riga d’unto sullo scrimolo dei suoi cuscini color tané, come fosse stata adibita ad un gran numero di funerali irlandesi. È possibile ch’io abbia fatto un pisolino su quella vettura: ero stato in viaggio tutta la notte e, quantunque eccitato per la mia impresa, avevo gran voglia di dormire. Comunque io mi svegliai subitamente dal sonno o da una specie di fantasticheria con una sensazione la piú straordinaria del mondo: con un mortale disgusto per la cosa ch’io ero in procinto di fare. Questa sensazione era entrata in me, cosí! – E Newman fece schioccare le dita. – Cosí, bruscamente, come una vecchia ferita che ricomincia a dolere. Non potrei dire come la cosa precisamente accadesse, ma sentii ch’essa mi ripugnava, che mi ripugnava tutta l’intera faccenda, e che desideravo di lavarmene le mani. L’idea di perdere quei sessantamila dollari e lasciare che essi andassero alla malora e di non piú udirne parlare, mi parve, lí per lí, la piú dolce cosa del mondo. Tutto ciò era entrato in me in modo affatto indipendente dalla mia volontà, e io stavo là, osservando questo mutamento mio dentro di me, come mi trovassi alla commedia, a teatro. Puoi star sicuro che ci son cose che procedono dentro di noi e intorno alle quali noi sappiamo assai, assai poco.
— Per Giove! Ma tu mi dài i brividi! – esclamò Tristam. – E magari mentre te ne stavi là seduto nella tua vettura di piazza osservando la commedia dentro di te, magari l’altro procedeva ad insaccare i tuoi sessantamila dollari.
— Non so se l’abbia fatto, ma lo spero, povero diavolo! Però non l’ho mai potuto sapere. Poi arrivammo al luogo dov’ero avviato, in Wall Street, ma io me ne stetti là tranquillamente seduto nella mia vettura, tanto che alla fine il cocchiere saltò giú da cassetta per vedere se caso mai la sua vettura non era tramutata in un carro funebre. E infatti io non avrei potuto uscirne quasi che se fossi stato cadavere. Cos’avevo? Un’improvvisa idiozia, dirai, ma ciò ch’io volevo era di esser fuori assolutamente da Wall Street. Dissi all’uomo di riprendere le redini e di avviarsi al ponte di Brooklyn e passar oltre. E quando fummo là gli dissi di condurmi all’aperta campagna. E siccome poco prima gli avevo raccomandato di condurmi rapidamente a tutta velocità verso il centro, immagino che mi avrà preso per un pazzo. E forse lo ero, ma in questo caso lo sono ancora. Io trascorsi la mattinata a contemplare le prime foglie verdi a Long Island. Ero stanco d’affari e volevo buttare all’aria ogni cosa e farla finita alla svelta. Danaro ne avevo abbastanza o dovevo averne. Mi parve di sentirmi uomo nuovo entro la mia vecchia pelle, e bramai un nuovo mondo. Quando si vuole una cosa in un modo cosí feroce è meglio concedersela. Io non compresi la cosa allora, ma abbandonate le briglie sul collo del vecchio cavallo lasciai che riprendesse la sua strada. Appena ho potuto liberarmi dagli affari mi sono imbarcato per l’Europa; ed ecco come in questo momento sono seduto qui.
— Avresti dovuto comperarla quella carrozza – disse Tristam; – non è un veicolo sicuro da lasciar attorno. E allora tu hai veramente venduto ogni cosa e ti sei ritirato dagli affari?
— Ho passato il mazzo ad un amico e, allorquando io mi sentirò ancora disposto, potrò riprenderlo di nuovo nelle mie mani. Oso dire che tra un anno la faccenda potrebbe essere invertita e il pendolo tornar ad oscillare dall’altra parte. Un giorno, chissà, stando seduto in una gondola o sopra un dromedario, d’un tratto io sentirò il desiderio di battermela. Ma oggi come oggi sono perfettamente libero, ed ho decretato che non riceverò nessuna lettera d’affari.
— Oh, è veramente un caprice de prince! – disse Tristam. – Mi disdico: un povero diavolo come me non può aiutarti a smaltire un ozio cosí magnifico come il tuo. Tu dovresti essere presentato a delle teste coronate.
Newman lo guardò per un istante; poi con un sorriso sereno: – Come si fa? – domandò.
— To’, questo mi piace! – esclamò Tristam. – Mi dimostra che tu fai proprio sul serio.
— Sicuro che faccio sul serio. Non ho detto che voglio il meglio delle cose piú belle? Io so che il meglio non si può ottenere col solo danaro, quantunque son del parere che il danaro serva pure a molte cose. Per giunta son disposto anche a sobbarcarmi molti fastidi.
— Tu non sei pavido, eh?
— Non credo. Io voglio godere i passatempi piú grandi che l’uomo possa avere. Gente, luoghi, arte, natura, ogni cosa! Voglio vedere le piú alte montagne e i laghi piú azzurri, le piú delicate pitture e le chiese piú leggiadre, gli uomini piú acclamati e le donne piú belle.
— Allora stabilisciti a Parigi. Qui non ci sono montagne, ch’io sappia, e il solo lago è al Bois de Boulogne, ma non è particolarmente azzurro. Ma c’è ogni altra cosa: abbondanza di pitture e di chiese, uomini acclamati senza fine e parecchie belle donne.
— Ma non posso stabilirmi in Parigi adesso che andiamo incontro all’estate.
— Oh, d’estate vai su a Trouville.
— Cos’è Trouville?
— Il Newport francese. Metà degli Americani ci vanno.
— È vicino alle Alpi?
— Sí, vicino a un dipresso come Newport lo è alle Montagne Rocciose.
— Oh, voglio vedere il Monte Bianco – soggiunse Newman. – E Amsterdam e il Reno e un mucchio di posti. E Venezia in particolare. Su Venezia poi ho grandi idee.
— Ah – disse Tristam alzandosi – capisco che dovrò proprio presentarti a mia moglie!
III
Tale presentazione ebbe luogo il giorno seguente, quando, dopo avergli dato convegno, Cristoforo Newman si recò a pranzo dall’amico. Il signore e la signora Tristam abitavano dietro una di quelle facciate tinte alla calce che con la loro pomposa identità adornano i larghi viali costruiti dal barone Haussmann, nelle vicinanze dell’Arc de Triomphe. Il loro appartamento era ricco di ogni moderna comodità, e Tristam non perdette tempo a richiamare l’attenzione del suo amico sui principali tesori della casa: la lampada a gas e le bocche da calore. – Ogni volta che ti senti nostalgia del tuo home americano – gli disse – vieni qua. Noi t’inchioderemo davanti ad un mastro, sotto ad una grossa lampada a petrolio e...
— E voi sarete liberato dalla vostra nostalgia – soggiunse la signora Tristam.
Suo marito la fissò. Spesso sua moglie aveva un tono che non riusciva a comprendere; in nessun modo egli arrivava a capire s’ella facesse per scherzo o sul serio. La verità era che le circostanze della vita avevano molto contribuito a coltivare nella signora Tristam una marcata vocazione per l’ironia. In molti punti i suoi gusti differivano da quelli di suo marito, e quantunque ella facesse ai gusti di lui parecchie concessioni, queste non erano sempre fatte con garbo. Si fondavano sopra un vago progetto ch’ella aveva di compiere un giorno o l’altro qualcosa di molto decisivo, di un pochetto appassionato. Che cosa poi precisamente volesse fare, non avrebbe saputo dirlo neanche lei; ma nel frattempo ella si stava comprando una buona coscienza, a rate.
Occorre aggiungere subito, per evitare ogni equivoco, che quel suo piccolo progetto d’indipendenza non implicava necessariamente l’aiuto di un’altra persona di sesso diverso. Non era donna da salvare la virtú per coprire le spese di un flirt. E di ciò erano molte le ragioni. Per cominciare, aveva un viso assai comune ed essa non nutriva alcuna illusione sul suo aspetto. Aveva preso la sua misura a filo di capello, e conoscendo qual era il peggio e quale il meglio, si accettava cosí com’era. Ma questo non era avvenuto senza un’intima lotta in lei. Già da ragazza aveva passato delle ore col dorso voltato alla specchiera, piangendo a calde lagrime, e piú tardi, un po’ per disperazione un po’ per spavalderia, aveva preso l’abitudine di proclamarsi la donna meno fortunata del mondo, a fine che qualcuno contraddicendola, come vogliono le regole del galateo, la rassicurasse del contrario. E fu solo da quando ella era venuta a vivere in Europa che aveva cominciato a prendere la cosa con filosofia. Vivendo qui ella aveva osservato che il primo dovere di una donna non è di esser bella, ma di piacere, e tante ne aveva incontrate che piacevano senza essere belle ch’essa cominciò ad accorgersi intimamente di aver scoperto la propria missione. Una volta aveva udito un musicista entusiasta che s’arrabbiava nell’ascoltare un gonzo dotato di una bella voce e dichiarava che una bella voce è veramente un ostacolo al cantar bene: e cosí anche a lei era venuto in mente che la stessa cosa poteva dirsi del suo viso, e che cioè un bel viso può essere un ostacolo all’acquisto di maniere affascinanti. La signora Tristam allora intraprese ad essere squisitamente graziosa con tutti e si prodigò in quell’impresa con un impegno commovente. Come poi ci riuscisse io non sono in grado di dirlo: sfortunatamente nel buono del procedimento essa piantò là ogni cosa, scusandosi col dire che non era stata incoraggiata dalla cerchia dei suoi amici piú intimi; ma io propendo a credere che non avesse un genio particolare per questa impresa, e ch’ella perseguisse piuttosto un’arte di piacere per se stessa. La povera signora in conclusione era assai incompleta. Ritornò allora a dedicarsi alle armonie della toilette di cui essa s’intendeva assai bene e si contentò d’abbigliarsi in uno stile perfetto. Dimorava in Parigi, città che ella fingeva di detestare, perché solo in Parigi si ritrovano le cose perfettamente adatte a far bella la carnagione d’una donna. Tanto piú che fuori di Parigi è sempre piú o meno una faccenda trovare dei guanti a dieci bottoni. Quando poi sprezzando essa questa servizievole città, le chiedevate dove amasse meglio abitare, ella vi diceva Copenaghen o Barcellona, poiché, girando per l’Europa, aveva sostato in quelle città un paio di giorni. Nel complesso, coi suoi poetici falbalà e il suo visuccio bruttino e intelligente, ella era, a conoscerla, una donna decisamente interessante. Di natura riservata, anche se fosse nata una bellezza, non essendo affatto vanitosa, tale sarebbe rimasta. Adesso era una donna diffidente e impronta; talora piena di eccessivo riserbo con gli amici, tal altra stranamente espansiva con gli estranei. Disprezzava il marito e lo disprezzava sin troppo, dal momento ch’era stata perfettamente libera di non sposarlo. Si era innamorata a suo tempo di un uomo intelligente, che poi l’aveva spregiata, e cosí aveva sposato poi uno sciocco nella speranza che l’ingrato si convincesse di non aver apprezzato i suoi meriti come doveva e di aver sbagliato a credere ch’ella lo avesse amato per le sue qualità. Irrequieta, scontenta, visionaria, senza ambizioni personali, dotata di una certa cupidigia d’immaginazione, la signora Tristam era, come abbiamo detto, una donna eminentemente incompleta. Donna ricca, sia nel male che nel bene, di tanti buoni inizi, ma che non approdavano a niente, ella possedeva, tuttavia, moralmente parlando, una scintilla della sacra fiamma.
A Newman, in ogni circostanza, era sempre piaciuta assai la compagnia delle donne, ed ora che egli era fuori del suo elemento e della cerchia dei suoi interessi abituali, per compenso, si rivolse ad essa.
Egli prese gran piacere alla compagnia della signora Tristam; essa schiettamente lo ricambiò, sicché, dopo il loro primo incontro, egli già passava molte ore della giornata nel salotto di lei. Dopo due o tre buone chiacchierate erano diventati grandi amici. Newman aveva con le donne modi tutti suoi e bisognava che una signora fosse molto ingenua per supporre che egli le facesse la corte. Newman non era galante nel senso usuale della parola, non faceva complimenti, non atti graziosi, non lunghi discorsi. Lui che trattando con gli uomini era tanto amante dello scherzo, ogni volta che si trovava sopra un sofà accanto ad una rappresentante del sesso debole si sentiva estremamente serio. Ma non era timidezza la sua, e fin dove l’imbarazzo procede da un contrasto con la timidezza, non era neanche imbarazzato; ma grave, attento, ossequioso, spesso taciturno, egli nuotava semplicemente in una specie di rapimento rispettoso. Questa emozione non proveniva in lui da teoria, ma non era nemmeno in un alto senso un’emozione sentimentale. Assai poco aveva meditato intorno alla «posizione» della donna, e né simpaticamente o in altro modo gli era famigliare l’immagine di un Presidente in gonnella. La sua attitudine verso la donna era semplicemente il fiore del suo buon istinto naturale e parte della sua congenita e schiettamente democratica convinzione che ogni essere umano ha diritto di condurre una vita agiata. Se un povero straccione aveva diritto ad un letto, alla mensa, al salario ed al voto, le donne che sono naturalmente piú deboli dei poveri, e di cui i fisici tessuti sono per se stessi un richiamo alla pietà, sentimentalmente dovrebbero essere mantenute a spese dello Stato. E Newman per questo si sarebbe tassato largamente, in proporzione dei suoi mezzi. Di piú, molte di quelle cose che sono idee assai comuni ed acquisite riguardo alle donne erano per lui fresche e personali impressioni; egli non aveva mai letto un romanzo! Era stato colpito dall’acutezza del loro spirito, dalla loro sottigliezza, dal loro tatto, dalla loro felicità di giudizio. Gli sembravano esseri squisitamente organizzati. E se è vero che noi dobbiamo sempre avere, operando quaggiú, una religione o almeno un ideale, Newman scopriva la sua metafisica fede verso una vaga accettazione delle finali responsabilità dell’uomo su qualche luminosa fronte femminile.
Egli spese gran quantità di tempo ad ascoltare i buoni consigli della signora Tristam: consigli tuttavia che egli non le aveva richiesti. E d’altra parte egli sarebbe stato incapace di richiedergliene poiché, non possedendo alcuna intuizione delle difficoltà della vita, non aveva conseguentemente nessuna curiosità intorno ai rimedi per evitarle. Il complesso mondo parigino che era intorno a lui pareva cosa assai semplice: formava un immenso, impressionante spettacolo che però non infiammava la sua immaginazione né eccitava la sua curiosità. Con le mani in tasca si guardava intorno di buon umore, attento a non perdere nulla di caratteristico, osservando tante cose da vicino e non mai ritornando sui propri passi. I consigli della signora Tristam facevano parte della faccenda e quei suoi abbondanti discorsi erano un elemento piú divertente degli altri. Godeva a sentirla parlare di lui, ciò faceva parte della sua bella genialità, ma egli non mise mai in pratica ciò ch’ella gli consigliava di fare e che subito gli passava di mente una volta fuori dell’uscio. Quanto a lei, s’era impossessata di lui; egli era per lei la cosa piú interessante a cui ella avesse pensato da molti mesi a quella parte. Desiderò di farne qualcosa, ma anch’essa sapeva che egli era naturalmente tante cose: era ricco, robusto, piacevole, sereno, buon compagno, sempre in ottima disposizione di spirito, per modo che egli teneva costantemente all’erta la sua immaginazione. Pel momento la sola cosa che potesse fare era volergli bene. Ella gli disse che era «orribilmente occidentale», ma in questo complimento l’avverbio non era troppo sincero. Se lo condusse attorno con lei, lo presentò ad una cinquantina di persone e si sentí estremamente soddisfatta della sua conquista. Newman accettava ogni proposta sua, stringeva mani qua e là promiscuamente, e non si mostrava mai né troppo riservato né troppo entusiasta. Tom Tristam compiangeva questa ansiosa avidità di sua moglie e protestò che non gli restavano mai cinque minuti per godersi in pace il suo amico. Se egli avesse immaginato come stavano per mettersi le cose, non avrebbe mai voluto portarlo in Avenue Jéna. Un tempo i due uomini non erano stati intimi, ma Newman ricordava le prime impressioni che aveva avuto del suo ospite, e con la signora Tristam, che non glielo aveva confidato ma il cui segreto egli aveva scoperto, dovette convenire che suo marito era un mortale piuttosto degenere. A venticinque anni egli era stato per lei un buon compagno ed in questo non era cambiato: ma da un uomo della sua età ci s’aspetta un po’ di piú. Lo dicevano anche socievole, ma era questo un concetto elastico come una spugna inzuppata, e la sua, comunque, non era una nobile qualità di socievolezza. Egli era gran chiacchierone e discorritore che, pur di strappar una risata alla gente, avrebbe compromesso persino la reputazione della sua vecchia madre. E ancorché Newman avesse il culto degli antichi ricordi, trovò impossibile non accorgersi che Tristam era per i tempi che correvano un tipo leggero. Il solo suo divertimento era di recarsi a giocare a poker al club, conoscere i nomi di tutte le cocottes, stringere parecchie mani attorno a sé, rimpinzarsi di tartufi e di champagne e creare ogni sorta di spiacevoli equivoci ed impicci fra i vari atomi costituenti la colonia americana. Era vergognosamente pigro, svogliato, sensuale e snob. Indispettiva sovente il nostro amico col tono delle allusioni che egli faceva al loro paese natale. E Newman non riusciva a capire perché mai gli Stati Uniti non accontentassero il signor Tristam. Newman non era stato mai un gran patriota, ma lo irritava veder trattati i suoi connazionali poco meglio di un cattivo odore al naso del suo amico; e un giorno sbottò fuori e disse che formavano invece la piú grande regione del mondo e che potevano mettersi in tasca tutta quanta l’Europa e che un Americano che sparlava del proprio paese meritava di essere riportato in patria incatenato e costretto a vivere a Boston (e questa per Newman era la piú gran vendetta). Ma Tristam era uomo che si poteva sgridare con tutto comodo, non tenne rancore all’amico, e continuò ad insistere perché venisse a finire le sue serate al Club Occidentale.
Cristoforo Newman si recò a pranzo parecchie volte in Avenue Jéna, e il suo ospite sempre proponeva di riportare a piú di buon’ora questa consuetudine. La signora Tristam protestava dichiarando che suo marito esauriva la sua genialità cercando di dispiacerle.
— Oh, no non ho mai cercato questo, amor mio – rispose Tristam. – Lo so che tu mi odii discretamente quando la fortuna mi sorride.
Spiaceva a Newman vedere marito e moglie in questi contrasti e pensava che certo uno dei due era infelice: e sapeva bene che quello non doveva essere Tristam.
La signora Tristam aveva un balcone davanti alla sua finestra sul quale durante le sere di giugno le piaceva tanto di stare e Newman le confessava candidamente che preferiva il suo balcone al club. Era orlato da una fila di odorose pianticelle in cassetta e di là da quello si poteva guardare nell’ampia via e vedere l’Arc de Triomphe delineare confusamente la massa delle sue eroiche sculture nella luce estiva delle stelle. Talvolta Newman prometteva al suo amico che l’avrebbe raggiunto di lí ad una mezz’ora all’«Occidentale», ma poi spesso se ne scordava. La sua ospite gli andava facendo di molte domande intorno alla sua persona, ma a questo proposito egli rispondeva sempre con indifferenza. Egli non era ciò che si chiama un soggettivo, ancorché, quando capiva che l’interesse di lei era veramente sincero, facesse un tentativo quasi eroico per diventarlo. Le raccontò le tante cose che aveva fatto, le narrò aneddoti della sua vita nell’Ovest. Essa era di Filadelfia e coi suoi otto anni di Parigi parlava di sé come una languida orientale; ma un’altra persona era sempre l’eroe del suo racconto e non mai con suo vantaggio; e quanto alle sue emozioni, Newman scarsamente le metteva in cronaca. Essa aveva un vivo desiderio di sapere se egli era mai stato innamorato, seriamente, appassionatamente, e non riuscendo ad essere soddisfatta delle poche allusioni ch’egli faceva, un giorno glielo chiese apertamente. Egli esitò un poco, poi alla fine disse di no. Ella allora dichiarò che era felice di sentirglielo dire e che questo confermava la sua opinione essere egli uomo di nessun sentimento.
— Veramente? – egli domandò, serio. – Lo pensate davvero? E come lo riconoscete un uomo di sentimento?
— Non riesco a capire – ribatté la signora Tristam – se voi siete molto semplice o molto profondo.
— Sono molto profondo, questa è la verità.
— Io credo che se vi avessi detto, con una cert’aria, che non avete sentimento, implicitamente mi credereste.
— Con una cert’aria? – fece Newman. – Provatevi e vedremo.
— Vi credereste, ma poi non ve ne importerebbe nulla – disse la signora Tristam.
— No, avete torto, me ne importerebbe invece immensamente, ma non vi crederei. Il fatto è che io non ho mai avuto tempo di sentir le cose. Ho sempre dovuto farle, per render sensibile me stesso.
— E immagino che avrete fatto questo tremendamente, qualche volta.
— Sí, senza dubbio.
— Voi non dovete essere piacevole quando andate in furia.
— Non sono mai infuriato.
— Arrabbiato, là, o malcontento.
— Arrabbiato non lo sono mai, ed è da sí gran tempo ch’io fui malcontento che l’ho ormai dimenticato.
— Non credo – soggiunse la signora Tristam – che voi non siate mai stato arrabbiato. Un uomo deve arrabbiarsi di tanto in tanto, e non mi parete né troppo buono né troppo cattivo da tenere in sesto il vostro umore.
— L’ho perduto soltanto una volta in cinque anni.
— Le occasioni ritornano, allora – ribatté l’ospite. – Prima che trascorrano sei mesi vi vedrò in preda ad una furia deliziosa.
— Pensate di cacciarmici voi?
— E non mi spiacerebbe davvero! Prendete la vita con troppa calma, e ciò m’esaspera. E poi siete troppo felice. Voi possedete ciò che deve essere la piú piacevole cosa al mondo, la coscienza di aver comprato il proprio piacere in avanzo e di esserselo pagato. Voi non avete il giorno della resa dei conti scritto in fronte; la vostra resa dei conti è già avvenuta.
— Ebbene, suppongo di essere felice – disse Newman.
— Siete stato odiosamente ricco di successi.
— Sí, successo nel rame – disse Newman, – poco successo nelle ferrovie, e fiasco completo negli olii.
— È veramente spiacevole come gli Americani hanno fatto il loro danaro! E adesso che avete il mondo davanti a voi non vi manca che goderne.
— Oh, suppongo, sí, di avere una discreta fortuna – disse Newman. – Soltanto sono stanco di vedermelo rinfacciare. E poi ci sono anche i suoi bravi svantaggi. Io non sono un intellettuale.
— Oh, nessuno s’aspetta che voi lo siate – rispose la signora Tristam. Poi, dopo un istante: – Tanto piú che invece lo siete.
— Intendo di avere del buon tempo a mia disposizione – disse Newman. – Non sono un uomo colto, non sono neanche istruito, non so nulla di storia, di arte, di lingue o di altre materie di cultura: ma non sono neanche un somaro e riuscirò bene a conoscere qualcosa dell’Europa durante il tempo che ci starò. Sento qualcosa sotto alle mie costole, qui – e aggiunse subito: – che non posso spiegare, una sorta di bramosia ardente e irrequieta, una voglia di protendermi e di raccogliermi.
— Bravo! – esclamò la signora Tristam. – Ciò è molto bello. Voi siete il grande Barbaro dell’Occidente che si avanza a gran passi in tutta la sua innocenza e potenza su questo povero e sterile vecchio mondo, per piombarvi sopra.