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Pubblicato nel 1949, il libro offre la visione da incubo del satirista politico George Orwell di un mondo totalitario e burocratico e il tentativo di un povero uomo di trovare l'individualità. Il genio del romanzo è la presenza di Orwell nella vita moderna - l'ubiquità della televisione, la distorsione del linguaggio - e la sua capacità di costruire una versione così completa dell'inferno. Lettura obbligatoria per gli studenti da quando è stata pubblicata, si colloca tra i romanzi più terrificanti mai scritti.
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1984
MILLENOVECENTO-OTTANTAQUATTRO
DI
GEORGE ORWELL
1949
Edizione 2021 a cura di David De Angelis©
Traduzionedall’Inglese a cura di David De Angelis
Tutti i diritti di traduzione sono riservati
Credits copertina 123rf.com: ID 87752840
Copyright : wbraga
INDICE
PARTE PRIMA
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
PARTE SECONDA
Capitolo1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
PARTE TERZA
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
APPENDICE
Era un giorno freddo e soleggiato di aprile e gli orologi segnavano le tredici. Winston Smith, tenendo il mento premuto in giù verso il petto per tentare di sfuggire a un vento orribile, si infilò velocemente tra le porte di vetro dei Palazzi Vittoria, anche se non abbastanza velocemente da impedire che un mulinello di polvere sabbiosa entrasse insieme a lui.
L’atrio odorava di cavoli lessi e di vecchi zerbini di pezza. Su un lato dell’atrio, sulla parete, era stato attaccato un manifesto colorato, troppo grande per stare esposto in un ambiente chiuso. Raffigurava soltanto un volto enorme, più largo di un metro: il volto di un uomo sui quarantacinque anni, con folti baffi neri e dei bei tratti virili. Winston si diresse verso le scale. Era inutile provare l’ascensore. Anche nei migliori dei casi era raramente funzionante, e in quel periodo la corrente elettrica veniva staccata durante le ore diurne. Faceva parte della campagna di risparmio per preparare la Settimana dell’Odio. L’appartamento era sette rampe di scale più su, e Winston, che aveva trentanove anni e un’ulcera varicosa sopra la caviglia destra, si incamminò lentamente, fermandosi a riposare diverse volte lungo il tragitto. A ogni pianerottolo, di fronte al pozzo dell’ascensore, il manifesto con il volto enorme lo guardava fisso dal muro. Era una di quelle immagini fatte in modo che gli occhi ti seguano quando ti muovi. IL GRANDE FRATELLO TI STA GUARDANDO: così diceva la scritta sottostante.
All’interno dell’appartamento una voce profonda stava leggendo un elenco di cifre che avevano qualcosa a che fare con la produzione di ghisa. La voce veniva da una piastra metallica oblunga simile a uno specchio offuscato che formava parte della superficie della parete destra. Winston azionò un interruttore e la voce in qualche modo si affievolì, ma le parole erano ancora distinguibili. Quell’apparecchio (veniva chiamato teleschermo) poteva essere attenuato, ma non c’era modo di spegnerlo del tutto. Si spostò verso la finestra: una figura piccolina, gracile, la magrezza del suo corpo veniva anche messa in evidenza dalla tuta da lavoro blu che costituiva l’uniforme del partito. I suoi capelli erano molto chiari, il suo volto aveva un colorito sanguigno naturale, la sua pelle era resa ruvida dal sapone grezzo e dalle lamette da barba senza filo e dal freddo dell’inverno che era appena terminato.
All’esterno, anche attraverso il vetro della finestra chiusa, il mondo appariva freddo. Giù in strada i piccoli mulinelli di vento stavano facendo turbinare polvere e carta straccia andando a formare delle spirali, e anche se il sole stava splendendo e il cielo era di un azzurro intenso, sembrava che nulla avesse colore, a eccezione dei manifesti che erano affissi ovunque. Il volto dai baffi neri guardava fisso da ogni posizione dominante. Ce n’era uno sulla facciata che gli stava di fronte. IL GRANDE FRATELLO TI STA GUARDANDO, diceva la scritta, mentre quegli occhi scuri scrutavano a fondo dentro quelli di Winston. Giù al livello della strada un altro manifesto, strappato in un angolo, sbatacchiato con irregolarità dal vento, andava a coprire e scoprire alternatamente la parola SOCING. In lontananza un elicottero si abbassava tra i tetti, stava sospeso per un momento come un moscone, e poi si allontanava velocemente con un volo curvo. Era una pattuglia della polizia che ficcanasava dalle finestre della gente. Le pattuglie però non contavano. Solo la Polizia del Pensiero contava.
Alle spalle di Winston la voce proveniente dal teleschermo stava ancora ciarlando di ghisa e dell’aver più che soddisfatto il Nono Piano Triennale. Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualunque suono Winston facesse, più forte di un leggerissimo sussurro, sarebbe stato captato da quell’apparecchio; inoltre, finché egli rimaneva all’interno del campo visivo controllato dalla piastra metallica, poteva anche essere visto oltre che sentito. Naturalmente non c’era modo di sapere se ti stessero osservando in un dato momento. Quante volte o con quale sistema la Polizia del Pensiero si collegasse al cavo di un dato individuo erano pure congetture. Era persino concepibile che guardassero tutti tutto il tempo. Ma ad ogni modo potevano collegarsi al tuo cavo in qualunque momento volessero. Dovevi vivere – vivevi, con un’abitudine che diventava istinto – con il presupposto che ogni suono che facevi venisse captato, e, tranne che al buio, ogni movimento fosse scrutato.
Winston teneva la schiena rivolta verso il teleschermo. Era più sicuro così; tuttavia, come lui sapeva bene, anche una schiena poteva essere rivelatrice. Un chilometro più in là il Ministero della Verità, il suo luogo di lavoro, torreggiava ampio e bianco sul paesaggio fuligginoso. Quella – lo pensò con una specie di vago disprezzo – quella era Londra, città principale di Pista d’Atterraggio Uno, che a sua volta era la terza provincia più popolata tra le province dell’Oceania. Provò a richiamare alla mente qualche ricordo d’infanzia che potesse dirgli se Londra fosse sempre stata proprio così. C’erano sempre state queste vedute di case marcescenti del diciannovesimo secolo, con i fianchi puntellati da travi di legno, le finestre rattoppate col cartone e i tetti con la lamiera ondulata? E le instabili mura di recinzione che si incurvavano in tutte le direzioni? E i luoghi bombardati dove la polvere d’intonaco turbinava nell’aria e l’epilobio cresceva sparso sui cumuli di macerie, e i luoghi dove le bombe avevano liberato uno spazio ampio e in quel luogo erano spuntate sordide colonie di abitazioni di legno come pollai? Ma era inutile, non riusciva a ricordare: della sua infanzia non rimaneva nulla tranne una serie di scene luminose senza alcuno sfondo dietro e perlopiù incomprensibili.
Il Ministero della Verità – Minivero, in Neolingua [la Neolingua era la lingua ufficiale dell’Oceania. Per un resoconto sulla sua struttura e sulla sua etimologia fare riferimento all’Appendice.] – era sorprendentemente diverso da qualunque altro oggetto presente in quel campo visivo. Era un’enorme struttura piramidale di cemento bianco scintillante, che si elevava, gradone su gradone, fino a 300 metri d’altezza. Da dove si trovava Winston era appena possibile leggere, ben distinti, sulla sua facciata bianca, con dei caratteri eleganti, i tre motti del Partito:
LA GUERRA È PACE
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ
L’IGNORANZA È FORZA
Il Ministero della Verità conteneva, così si diceva, tremila stanze sopra il livello del terreno, e le corrispondenti ramificazioni sottoterra. Sparsi per Londra c’erano solo altri tre edifici con aspetto e dimensioni simili. Erano così imponenti rispetto a tutte le strutture circostanti che dal tetto dei Palazzi Vittoria li si poteva vedere tutti e quattro contemporaneamente. Erano le sedi dei quattro Ministeri tra cui l’intero apparato di governo era diviso. Il Ministero della Verità, che si occupava di notizie, intrattenimento, istruzione e arte. Il Ministero della Pace, che si occupava della guerra. Il Ministero dell’Amore, che manteneva l’ordine e faceva rispettare la legge. E il Ministero dell’Abbondanza, che era responsabile delle questioni economiche. I loro nomi, in Neolingua, erano: Minivero, Minipax, Miniamor e Miniabbondante.
Il Ministero dell’Amore era quello davvero spaventoso. In esso non c’era nessuna finestra. Winston non era mai stato all’interno del Ministero dell’Amore, e neanche a meno di mezzo chilometro da esso. Era un luogo in cui era impossibile entrare se non per motivi ufficiali, e in quel caso si entrava solo passando attraverso un dedalo di grovigli di filo spinato, porte d’acciaio e nidi di mitragliatrici nascosti. E le strade che conducevano alle sue barriere esterne erano percorse da guardie con la faccia da gorilla che indossavano uniformi nere, armate di manganelli snodati.
Winston si voltò bruscamente. Aveva sistemato i tratti del suo volto andando ad assumere l’espressione di sobrio ottimismo che era consigliabile mostrare quando si stava davanti al teleschermo. Attraversò la stanza per andare nella sua minuscola cucina. Lasciando il Ministero a quell’ora del giorno aveva sacrificato il suo pranzo nella mensa, ed era consapevole che non c’era cibo in cucina eccetto una bella fetta di pane scuro che doveva essere tenuto per la colazione del giorno successivo. Tirò giù dallo scaffale una bottiglia di liquido incolore su cui c’era un’etichetta bianca con la scritta GIN VITTORIA. Emanava un odore oleoso, nauseante, come quello del liquore di riso cinese. Winston ne versò fino a riempire quasi una tazza da tè, si fece forza per prepararsi al colpo, e lo trangugiò come una dose di un medicinale.
Immediatamente il suo volto diventò scarlatto e gli lacrimarono gli occhi. Quella roba era come acido nitrico, e in più, nel mandarlo giù, uno aveva la sensazione di essere colpito dietro la testa con una mazza di gomma. Un attimo dopo, però, il bruciore nel suo stomaco si attenuò e il mondo iniziò ad apparire più lieto. Prese una sigaretta da un pacchetto accartocciato marchiato SIGARETTE VITTORIA e incautamente la tenne in verticale, al che il tabacco fuoriuscì e andò a finire per terra. Con la successiva ebbe più fortuna. Tornò nel salotto e si mise a sedere a un tavolino che stava a sinistra del teleschermo. Dal cassetto del tavolino tirò fuori uno stiloforo, un calamaio e un libro vuoto, spesso, con un formato in-quarto, il retro rosso e la copertina marezzata.
Per qualche motivo il teleschermo che si trovava nel salotto era in una posizione inusuale. Invece di essere piazzato, com’era normale, contro la parete di fondo, da cui poteva controllare l’intera stanza, si trovava contro il muro più lungo, davanti alla finestra. Da un lato c’era una nicchia vuota dove Winston ora stava seduto, e che, quando quegli appartamenti erano stati costruiti, probabilmente era stata concepita per contenere delle librerie. Stando seduto in quella nicchia, e tenendosi ben indietro, Winston era in grado di restare fuori dal campo del teleschermo, per quanto riguardava il campo visivo. Di certo poteva essere sentito, ma finché restava in quella posizione non poteva essere visto. In parte fu l’inusuale geografia di quella stanza a fargli venire in mente la cosa che ora stava per fare.
Ma gli era anche stata fatta venire in mente dal libro che aveva appena tirato fuori dal cassetto. Era un libro particolarmente bello. La sua carta liscia e simile a crema, resa un po’ gialla dal tempo, era di un tipo che non era stato più prodotto da almeno quarant’anni. Ma poteva supporre che quel libro fosse ben più vecchio. Lo aveva visto esposto nella vetrina di un negozietto trasandato di un rigattiere in un quartiere dei bassifondi della città (ora non si ricordava quale quartiere fosse) ed era stato immediatamente preso da un incontenibile desiderio di possederlo. I membri del Partito erano tenuti a non frequentare dei negozi normali (“comprare nel libero mercato”, così veniva definito), ma quella regola non veniva osservata rigidamente, poiché c’erano varie cose, come i lacci delle scarpe o le lamette da barba, che era impossibile procurarsi in altri modi. Aveva dato una rapida occhiata su e giù per la strada e poi si era infilato dentro e aveva comprato quel libro per due dollari e cinquanta centesimi. In quel momento non aveva la consapevolezza di volerlo per un qualche scopo preciso. Se l’era portato colpevolmente a casa all’interno della sua valigetta. Anche se al suo interno non c’era scritto nulla, si trattava di un possedimento compromettente.
La cosa che stava per mettersi a fare era iniziare un diario. Non era una cosa illegale (niente era illegale, dato che non esisteva più nessuna legge), ma, se fosse stata scoperta, era abbastanza certo che sarebbe stata punita con la morte, o almeno con venticinque anni in un campo di lavoro forzato. Winston sistemò un pennino nello stiloforo e lo succhiò per togliere il grasso. La penna era uno strumento arcaico, raramente usata anche per le firme, e lui se ne era procurata una, segretamente e con qualche difficoltà, semplicemente perché sentiva che quella bella carta color crema meritava di essere segnata da un vero pennino anziché di essere scalfita da una biro. In realtà non era abituato a scrivere a mano. Fatta eccezione per brevissimi appunti, di solito si dettava tutto con la parlascrivi, cosa che naturalmente era impossibile fare per il suo scopo presente. Intinse la penna nell’inchiostro e poi vacillò per un istante. Sentì un tremito nelle viscere. Segnare la carta era l’atto decisivo. Con piccole lettere sgraziate scrisse:
4 aprile 1984.
Si riassestò sulla sedia. Gli piombò addosso un senso di completa impotenza. Tanto per cominciare, non sapeva in modo certo che quello fosse il 1984. Doveva essere intorno a quella data, poiché era abbastanza sicuro che la sua età fosse trentanove anni, e credeva di essere nato nel 1944 o 1945; ma oggigiorno non era mai possibile stabilire una data senza che ci fosse un’imprecisione di uno o due anni.
E poi per chi – gli capitò improvvisamente di domandarsi – stava scrivendo quel diario? Per il futuro, per i non ancora nati. La sua mente restò indecisa per un momento sulla data incerta appena scritta su quella pagina, e poi, con un sobbalzo, andò a finire contro la parola della Neolingua DOPPIOPENSIERO. Per la prima volta le proporzioni di ciò che aveva intrapreso gli furono chiare. Come si poteva comunicare con il futuro? Era una cosa naturalmente impossibile. O il futuro avrebbe somigliato al presente, nel qual caso non gli avrebbe dato ascolto, oppure sarebbe stato diverso dal presente, e la sua attuale situazione difficile sarebbe quindi stata insignificante.
Per un po’ restò seduto a fissare la carta con aria stupida. Il teleschermo era passato a una stridente musica militare. Era curioso che lui sembrasse aver perso non soltanto la forza di esprimersi, ma anche aver dimenticato che cosa fosse che intendeva dire inizialmente. Per settimane si era preparato per questo momento, e non gli era mai passato per la mente che gli sarebbe servito prima di tutto il coraggio. La scrittura vera e propria sarebbe stata una cosa semplice. Tutto ciò che doveva fare era trasferire sulla carta l’interminabile e irrequieto monologo che gli era girato in testa, letteralmente per anni. In questo momento, però, anche il monologo si era esaurito. Inoltre la sua ulcera varicosa aveva iniziato a prudere in modo insopportabile. Non osava grattarla, perché quando lo faceva diventava sempre infiammata. I secondi stavano passando ticchettando. Non era conscio di nulla al di fuori della vacuità della pagina che gli stava davanti, del prurito della pelle sopra la caviglia, dello squillare della musica, e di una lieve ebbrezza causata dal gin.
Improvvisamente iniziò a scrivere preso da un panico puro, solo parzialmente consapevole di quello che stava buttando giù. La sua calligrafia piccola ma infantile vagava su e giù per la pagina, perdendo prima le lettere maiuscole e poi anche i punti fermi:
4 aprile 1984. La scorsa sera al cinema. Tutti film di guerra. Uno ottimo uno di una barca piena di profughi che veniva bombardata da qualche parte nel Mediterraneo. Gli spettatori molto divertiti dalle immagini di un grande uomo grasso enorme che provava a nuotare via con un elicottero dietro di lui, prima lo si vedeva sguazzare nell’acqua come una focena, poi lo vedevi tra i mirini degli elicotteri, poi era pieno di buchi e il mare intorno a lui diventava rosa e lui andava a fondo improvvisamente come se i buchi avessero lasciato entrare l’acqua, gli spettatori schiamazzavano ridendo mentre andava a fondo. poi vedevi una scialuppa di salvataggio piena di bambini con un elicottero che gli stava sospeso sopra. c’era una donna di mezza età poteva essere un’ebrea che stava seduta sulla prua con un bambino di circa tre anni in braccio. il bambino gridava per la paura e nascondeva la testa tra i seni di lei come se stesse provando a rintanarsi dentro di lei e la donna gli metteva le braccia intorno e lo confortava anche se anche lei era livida per la paura, coprendolo tutto il tempo il più possibile come se pensasse che le sue braccia potessero tenerlo al riparo dai proiettili. poi l’elicottero mollò una bomba da 20 chili tra di loro un lampo terribile e la barca diventò tutta legna per fiammiferi. poi ci fu una meravigliosa immagine di un braccio di bambino che andava su su su dritto su per aria un elicottero con una videocamera sul muso deve averlo seguito su e ci furono un sacco di applausi dai posti del partito ma una donna che stava giù nei posti per i proletari iniziò di colpo a fare un gran chiasso e urlava che non avrebbero dovuto farlo vedere non davanti ai bambini non dovevano non era giusto non davanti ai bambini non era finché la polizia non la buttò non la buttò fuori non penso che le sia successo nulla a nessuno importa quello che dicono i proletari tipica reazione da proletari loro non . . .
Winston smise di scrivere, in parte perché gli era venuto un crampo. Non sapeva che cosa gli avesse fatto buttar fuori quel fiume di robaccia. Ma la cosa curiosa era che, mentre lo stava facendo, un ricordo del tutto diverso si era fatto chiaro nella sua mente, al punto che gli sembrava quasi di poterlo mettere per iscritto. Era, ora se ne rendeva conto, a causa di questo altro episodio che aveva deciso improvvisamente di tornare a casa per iniziare il diario oggi.
Era accaduto quella mattina al Ministero, se si poteva usare la parola accaduto per una così vaga.
Erano quasi le millecento, e nel Reparto Documenti, dove Winston lavorava, stavano tirando fuori le sedie dagli scomparti per raggrupparle al centro della sala di fronte al grande teleschermo, per preparare i Due Minuti d’Odio. Winston stava prendendo posto in una delle file centrali quando due persone che conosceva di vista, ma a cui non aveva mai parlato, entrarono inaspettatamente nella stanza. Una era una ragazza che aveva incrociato spesso nei corridoi. Non sapeva il suo nome, ma sapeva che lavorava nel Reparto Finzioni. Presumibilmente – dato che qualche volta l’aveva vista con le mani sporche d’olio e con in mano una chiave inglese – aveva un lavoro di tipo meccanico legato a una delle macchine scriviromanzi. Era una ragazza dall’aspetto spavaldo, sui ventisette anni, con capelli folti, viso lentigginoso e movimenti agili, atletici. Una stretta fascia scarlatta, emblema della Lega Giovanile Antisesso, era avvolta con diversi giri intorno alla cintola della sua tuta, abbastanza stretta da mettere in risalto l’armoniosità dei suoi fianchi. Winston l’aveva detestata fin dal primo momento in cui l’aveva vista. E ne sapeva il motivo. Era a causa di quell’atmosfera da campi da hockey e bagni freddi ed escursioni collettive e la generale mentalità pulita che lei portava con sé. Lui detestava quasi tutte le donne, e in particolare quelle giovani e carine. Erano sempre le donne, e soprattutto quelle giovani, le più fanatiche seguaci del Partito, quelle che abboccavano ai motti, le spie dilettanti, e quelle che fiutavano l’eterodossia. Ma questa ragazza in particolare gli dava l’impressione di essere più pericolosa di gran parte delle altre. Una volta in cui si incrociarono nel corridoio lei gli diede una rapida occhiata furtiva che sembrò perforarlo diritto dentro, e per un attimo lo riempì di un terrore cieco. Gli era anche venuto in mente che potesse trattarsi di un agente della Polizia del Pensiero. Il che, in verità, era assai improbabile. Eppure continuava a sentire un disagio particolare, in cui si miscelavano in parti uguali la paura e l’ostilità, ogniqualvolta lei si trovava vicino a lui.
L’altra persona era un uomo di nome O’Brien, un membro del Partito Interno e detentore di una posizione tanto importante e remota che Winston aveva solo una vaga idea di quale fosse la sua natura. Un silenzio momentaneo si diffuse tra le persone che stavano intorno alle sedie come videro avvicinarsi la tuta nera di un membro del Partito Interno. O’Brien era un uomo grosso, corpulento, con un collo spesso e un viso duro, rude e buffo. A dispetto della sua apparenza temibile aveva un certo fascino nei modi. Aveva l’abitudine di risistemarsi gli occhiali sul naso in un modo che era curiosamente disarmante – in qualche modo indefinibile, era curiosamente civile. Era un gesto che, se qualcuno avesse ancora pensato in tali termini, avrebbe potuto richiamare alla mente un nobiluomo del diciottesimo secolo che porgeva la propria tabacchiera. Winston aveva visto O’Brien forse una dozzina di volte in quasi altrettanti anni. Si sentiva profondamente attratto da lui, e non solo perché era intrigato dal contrasto tra i modi urbani di O’Brien e il suo fisico da pugile professionista. Era attratto da lui molto di più a causa di una credenza che serbava segretamente — o forse neanche una credenza, ma soltanto una speranza — ovvero che l’ortodossia politica di O’Brien non fosse perfetta. Qualcosa nel suo volto lo suggeriva irresistibilmente. E anche in questo caso, forse non era nemmeno eterodossia quello che aveva scritto in faccia, ma semplicemente intelligenza. Ma in ogni caso appariva come una persona a cui si poteva parlare, se in qualche modo si fosse potuto ingannare il teleschermo per essere da soli con lui. Winston non aveva mai fatto neanche un minimo tentativo di verificare la sua supposizione: in verità, non c’era modo di farlo. In quel momento O’Brien diede un’occhiata al suo orologio da polso, vide che erano quasi le millecento ed evidentemente decise di restare nel Reparto Documenti finché i Due Minuti d’Odio non fossero finiti. Prese posto a sedere nella stessa fila di Winston, un paio di posti più in là. Una piccola donna dai capelli biondo-rossicci che lavorava nello scomparto adiacente a quello di Winston stava tra di loro. La ragazza con i capelli scuri stava seduta subito dietro.
Un attimo dopo, una voce orrenda, stridente, come il suono di una qualche macchina mostruosa che va avanti senza olio, proruppe dal grande teleschermo piazzato al fondo della stanza. Fu un rumore che faceva rabbrividire e faceva rizzare i capelli dietro al collo. L’Odio era cominciato.
Come di consueto, il volto di Emmanuel Goldstein, il Nemico del Popolo, era comparso sullo schermo. Vi furono dei fischi qua e là tra gli spettatori. La piccola donna dai capelli biondo-rossicci emise uno stridio di paura mista a disgusto. Goldstein era il rinnegato e il recidivo che una volta, tanto tempo fa (quanto tempo fa, nessuno se lo ricordava di preciso), era stato una delle figure preminenti del Partito, quasi al livello del Grande Fratello, e poi aveva intrapreso delle attività controrivoluzionarie, era stato condannato a morte, era misteriosamente fuggito ed era scomparso.I programmi dei Due Minuti d’Odio variavano da un giorno all’altro, ma non ce n’era nessuno in cui Goldstein non fosse la figura principale. Era il traditore originale, il primo profanatore della purezza del Partito. Tutti i successivi crimini contro il Partito, tutti i tradimenti, gli atti di sabotaggio, le eresie, le deviazioni, scaturivano direttamente dalla sua dottrina. Da qualche parte era ancora vivo e ordiva i suoi complotti: forse da qualche parte al di là del mare, sotto la protezione dei suoi finanziatori stranieri, forse persino – così si vociferava di quando in quando – in qualche nascondiglio all’interno della stessa Oceania.
Il diaframma di Winston era contratto. Non riusciva mai a guardare il volto di Goldstein senza provare un miscuglio di emozioni dolorose. Era un volto di ebreo, scarno, con una grande aureola di capelli bianchi ricci e un pizzetto – un volto intelligente, eppure in qualche modo intrinsecamente spregevole, con una specie di stupidità senile in quel lungo naso sottile, vicino alla cui estremità stava appollaiato un paio di occhiali. Somigliava al volto di una pecora, e anche la voce era simile a quella di una pecora. Goldstein stava facendo il suo solito attacco virulento contro le dottrine del Partito – un attacco così esagerato e perverso che neanche un bambino si sarebbe lasciato ingannare, ma appena plausibile quanto bastava per riempire una persona con un senso di preoccupazione per il fatto che altre persone, meno dotate di buonsenso, ci sarebbero potute cascare. Stava insultando il Grande Fratello, stava condannando la dittatura del Partito, stava chiedendo l’immediata conclusione della pace con l’Eurasia, stava sostenendo la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di riunione, la libertà di pensiero, stava gridando istericamente dicendo che la rivoluzione era stata tradita – e tutto questo con un rapido discorso polisillabico che era una specie di parodia dello stile abituale degli oratori del Partito, e conteneva persino delle parole della Neolingua: in verità conteneva più parole della Neolingua rispetto a quante un membro del Partito ne usasse normalmente nella vita reale. E per tutto il tempo, affinché non ci fosse alcun dubbio riguardo alla realtà trattata dallo specioso sproloquio di Goldstein, dietro la sua testa, sul teleschermo, marciavano le interminabili colonne dell’esercito dell’Eurasia – una fila dopo l’altra di uomini dall’aspetto massiccio con inespressivi volti asiatici, che emergevano sulla superficie del teleschermo e svanivano, per essere rimpiazzati da altri esattamente uguali. Il cupo passo pesante, cadenzato, degli stivali dei soldati, formava il sottofondo della voce belante di Goldstein.
Prima che l’Odio fosse andato avanti per trenta secondi, delle incontrollabili esclamazioni di rabbia stavano già esplodendo da metà della gente presente nella stanza. La tronfia faccia da pecora sullo schermo, e la terrificante potenza dell’esercito eurasiatico subito dietro, erano troppo da sopportare: inoltre, la vista o anche solo il pensiero di Goldstein generava automaticamente paura e rabbia. Era oggetto di odio in modo più costante rispetto all’Eurasia o all’Estasia, dato che quando l’Oceania era in guerra con una di queste potenze era generalmente in pace con l’altra. Ma il fatto strano era che anche se Goldstein era odiato e disprezzato da tutti, anche se tutti i giorni e mille volte al giorno, dai palchi, dal teleschermo, nei giornali, nei libri, le sue teorie venivano confutate, fatte a pezzi, ridicolizzate, esposte al pubblico per le sciocchezze penose che erano – nonostante tutto questo, la sua influenza non sembrava mai diminuire.
C’erano sempre nuovi babbei pronti a farsi sedurre da lui. Non passava mai un giorno senza che spie e sabotatori che agivano secondo le sue istruzioni non fossero smascherati dalla Polizia del Pensiero. Era il comandante di un grande esercito oscuro, una rete sotterranea di cospiratori dediti al rovesciamento dello Stato. Il presunto nome di tale esercito era la Fratellanza.
Si mormorava anche di un libro terribile, un compendio di tutte le eresie, di cui Goldstein era l’autore e che circolava clandestinamente qua e là. Era un libro senza titolo. La gente alludeva a esso, se proprio lo faceva, chiamandolo semplicemente IL LIBRO. Ma si sapeva di queste cose solo tramite dicerie vaghe. Né la Fratellanza né IL LIBRO erano cose che un normale membro del Partito avrebbe menzionato se ci fosse stato un modo per evitarlo.
Nel suo secondo minuto l’Odio si trasformò in un delirio. Le persone stavano balzando su e giù sui propri posti mentre gridavano a squarciagola per tentare di coprire quella voce belante ed esasperante che proveniva dal teleschermo. La piccola donna dai capelli biondo-rossicci era diventata di un rosa acceso, e la sua bocca si stava aprendo e chiudendo come quella di un pesce spiaggiato. Anche il grosso volto di O’Brien era arrossato. Stava seduto ben diritto sulla sua sedia, con il suo possente torace che si dilatava e tremava come se si stesse opponendo all’assalto di un’onda. La ragazza dai capelli scuri che stava dietro Winston aveva iniziato a gridare “Porco! Porco! Porco!” e di colpo prese un pesante dizionario della Neolingua e lo scagliò contro lo schermo. Questo andò a colpire il naso di Goldstein e rimbalzò per terra; la voce continuava inesorabilmente. In un momento di lucidità Winston si rese conto che stava urlando insieme agli altri e che stava scalciando violentemente con i suoi talloni contro i pioli della sedia. La cosa orrenda dei Due Minuti d’Odio non era il fatto di essere obbligati a recitare una parte, ma, al contrario, era il fatto che fosse impossibile evitare di esserne coinvolti. Tutte le volte nel giro di trenta secondi non c’era più nessun bisogno di fingere. Un’orrenda estasi di paura e vendicatività, un desiderio di uccidere, di torturare, di fracassare dei volti con una mazza, sembrava pervadere l’intero gruppo di persone come una corrente elettrica, trasformando una persona, anche contro il proprio volere, in un pazzo che urlava e faceva smorfie. Eppure la rabbia che un individuo provava era un’emozione astratta, senza obiettivo, che poteva essere indirizzata da un oggetto a un altro come la fiamma di una lampada per saldare. Così, in certi momenti l’odio di Winston non era affatto rivolto a Goldstein, ma, al contrario, contro il Grande Fratello, il Partito, e la Polizia del Pensiero; e in tali momenti il suo cuore si volgeva verso il solitario eretico deriso che stava sullo schermo, solo custode della verità e della sanità mentale in un mondo di bugie. Eppure un attimo dopo diventava un tutt’uno con le persone che gli stavano intorno, e tutto ciò che veniva detto di Goldstein gli sembrava vero. In quei momenti la sua segreta avversione per il Grande Fratello si tramutava in adorazione, e il Grande Fratello sembrava torreggiare, un protettore impavido e invincibile che si ergeva come una roccia contro le orde dell’Asia, e Goldstein, nonostante il suo isolamento, la sua impotenza, e il dubbio che circolava sul fatto che esistesse davvero, sembrava una specie di incantatore funesto, capace con il solo potere della sua voce di distruggere la struttura della civiltà.
Era anche possibile, in qualche momento, indirizzare il proprio odio di qua o di là con un atto volontario. Di colpo, con uno sforzo violento come quello che una persona fa quando tira via la testa dal cuscino durante un incubo, Winston riuscì a trasferire il suo odio dal volto che stava sullo schermo alla ragazza dai capelli scuri che gli stava dietro. Delle allucinazioni stupende, vivide, gli balenarono nella mente. L’avrebbe fustigata a morte con una mazza di gomma. L’avrebbe legata nuda a un palo e l’avrebbe colpita riempiendola di frecce come San Sebastiano. L’avrebbe stuprata e le avrebbe tagliato la gola al momento dell’orgasmo. Per di più, meglio di prima si rese conto del PERCHÉ la odiasse. La odiava perché era giovane e carina e frigida, perché lui voleva andare a letto con lei e non l’avrebbe mai fatto, perché intorno ai suoi dolci fianchi agili, che sembravano chiederti di cingerli con un braccio, c’era solo quell’odiosa fascia scarlatta, un aggressivo simbolo di castità.
L’Odio crebbe fino a raggiungere il suo acme. La voce di Goldstein era diventata effettivamente il belato di una pecora, e per un attimo il suo volto si trasformò in quello di una pecora.
Poi la faccia da pecora si trasformò nella figura di un soldato eurasiatico che sembrava avanzare, enorme e spaventoso, con il suo mitra che strepitava, e sembrava sbucare dalla superficie dello schermo, tanto che alcune persone della prima fila si tirarono indietro sulle sedie. Ma in quello stesso momento, facendo tirare un profondo sospiro di sollievo a tutti quanti, quella figura ostile si fuse trasformandosi nel volto del Grande Fratello, con i capelli neri, i baffi neri, pieno di vigore e di calma misteriosa, e così ampio da riempire quasi lo schermo. Nessuno udì quello che il Grande Fratello stava dicendo.
Erano soltanto alcune parole di incoraggiamento, quel tipo di parole che vengono proferite nel frastuono della battaglia, non distinguibili singolarmente ma che restituiscono la fiducia in sé per il semplice fatto di esser dette. Poi il volto del Grande Fratello svanì, e al suo posto emersero i tre motti del Partito, con lettere maiuscole in grassetto:
LA GUERRA È PACELA LIBERTÀ È SCHIAVITÙL’IGNORANZA È FORZA
Ma il volto del Grande Fratello sembrò permanere per diversi secondi sullo schermo, come se l’impatto che aveva avuto sui bulbi oculari di tutti i presenti fosse troppo vivido per dissiparsi immediatamente. La piccola donna dai capelli biondo-rossicci si era scagliata sul didietro della sedia che le stava davanti. Con un tremendo sussurro che suonò come un “mio salvatore!” allungò le braccia verso lo schermo. Poi si nascose la faccia tra le mani. Era evidente che stesse dicendo una preghiera.
In quel momento l’intero gruppo di persone proruppe in un canto lento, profondo, ritmico, cantando “G-F! . . . G-F!” – ripetutamente, molto lentamente, con una lunga pausa tra la “G” e la “F” — un suono intenso simile a un mormorio pesante, in qualche modo curiosamente selvaggio, nel cui sottofondo sembrava di sentire i colpi di piedi nudi e il battere dei tam-tam. Per forse trenta secondi lo portarono avanti. Era un ritornello che si sentiva spesso in momenti di emozione incontenibile.
In parte era una sorta di inno alla saggezza e alla maestà del Grande Fratello, ma ancor di più era un atto di autoipnosi, un deliberato annegamento della propria consapevolezza per mezzo di un rumore ritmico. Le viscere di Winston sembravano raffreddarsi. Nei Due Minuti d’Odio non poteva fare a meno di partecipare al delirio generale, ma quel canto subumano “G-F! . . . G-F!” lo riempiva sempre d’orrore. Naturalmente cantava insieme agli altri: era impossibile fare altrimenti. Dissimulare le proprie emozioni, controllare il proprio viso, fare quello che tutti gli altri stavano facendo, era una reazione istintiva. Ma ci fu uno spazio di tempo di un paio di secondi durante i quali era probabile che l’espressione dei suoi occhi potesse averlo tradito. E fu esattamente in quel momento che accadde la cosa significativa – se davvero accadde.
Incrociò momentaneamente lo sguardo di O’Brien. O’Brien si era alzato in piedi. Si era tolto gli occhiali ed era nell’atto di risistemarseli sul naso con il suo gesto caratteristico. Ma ci fu una frazione di secondo in cui i loro occhi si incontrarono, e per il tempo che durò Winston seppe – sì, lo SEPPE! – che O’Brien stava pensando la stessa cosa che stava pensando lui. Era passato un messaggio inconfondibile. Era come se le loro due menti si fossero aperte e i pensieri stessero fluendo dall’una all’altra attraverso i loro occhi. “Sono con te”, sembrava dirgli O’Brien. “So esattamente cosa stai provando. So tutto del tuo disprezzo, del tuo astio, del tuo disgusto. Ma non ti preoccupare, io sono dalla tua parte!” E poi quel lampo d’intelligenza fu passato, e il volto di O’Brien fu inscrutabile come quello di tutti gli altri.
Quello fu tutto, e già non era certo che fosse successo. Episodi simili non avevano mai alcun seguito. Tutto quello che facevano era mantenere viva in lui la credenza, o la speranza, che altri oltre a lui fossero nemici del Partito. Forse le dicerie riguardanti grandi complotti segreti erano vere dopo tutto – forse la Fratellanza esisteva davvero! Era impossibile, nonostante i continui arresti e le confessioni e le esecuzioni, esseri sicuri che la Fratellanza non fosse semplicemente un mito. In alcuni giorni ci credeva, in altri no. Non c’era alcuna prova, solo occhiate fugaci che potevano significare tutto o niente: frammenti di conversazioni sentite per caso, vaghi scarabocchi sulle mura dei gabinetti – una volta, persino, quando due estranei si incontrarono, un piccolo movimento della mano che era apparso come se potesse essere un segnale di riconoscimento. Erano tutte congetture: probabilmente aveva immaginato tutto. Era tornato al suo scomparto senza più volgere lo sguardo verso O’Brien. L’idea di proseguire il loro contatto passeggero non gli passava affatto per la testa. Sarebbe stato inconcepibilmente pericoloso anche se avesse saputo come mettersi a farlo. Per un secondo, due secondi, si erano scambiati un’occhiata equivoca, e la storia finiva lì. Ma anche così quello restava un fatto memorabile, nella solitudine serrata in cui si doveva vivere.
Winston si destò e si sedette più diritto. Gli uscì un rutto. Il gin gli stava salendo su dallo stomaco.
I suoi occhi si rifocalizzarono sulla pagina. Scoprì che mentre era rimasto seduto a meditare impotentemente, aveva anche scritto, come per mezzo di un’azione automatica. E non era più la stessa calligrafia stentata e sgraziata di prima. La sua penna era scivolata voluttuosamente su quella carta liscia, imprimendo, a grandi lettere maiuscole ordinate, le parole:
ABBASSO IL GRANDE FRATELLOABBASSO IL GRANDE FRATELLOABBASSO IL GRANDE FRATELLOABBASSO IL GRANDE FRATELLOABBASSO IL GRANDE FRATELLO
Ripetutamente, riempiendo mezza pagina.
Non poté fare a meno di provare un attacco di panico. Era assurdo, dato che l’aver scritto quelle parole precise non era più pericoloso dell’atto originale con cui aveva iniziato il diario, ma per un momento fu tentato di strappare le pagine rovinate e di rinunciare del tutto a quell’impresa.
Ma non lo fece, perché sapeva che era inutile. Che lui scrivesse ABBASSO IL GRANDE FRATELLO, o che si astenesse dallo scriverlo, non faceva differenza. Che andasse avanti con il diario, o che non andasse avanti, non faceva differenza. La Polizia del Pensiero lo avrebbe preso ugualmente. Lui aveva commesso – e lo avrebbe commesso comunque, anche se non avesse mai messo mano alla penna – il crimine essenziale che conteneva tutti gli altri. Lo chiamavano “crimine del pensiero”.
Il crimine del pensiero non era qualcosa che poteva essere nascosto per sempre. Potevi riuscire a cavartela per un po’, anche per anni, ma presto o tardi non potevano non prenderti.
Succedeva sempre di notte – gli arresti avvenivano invariabilmente di notte. Lo strattone improvviso che ti faceva svegliare, la mano brusca che ti scuoteva la spalla, le luci che ti abbagliavano, il cerchio di volti duri intorno al letto. Nella stragrande maggioranza dei casi non c’era nessun dibattimento, nessuna notizia dell’arresto. La gente semplicemente spariva, sempre durante la notte. Il tuo nome veniva rimosso dai registri, ogni traccia di tutto ciò che avevi fatto veniva spazzata via, la tua esistenza passata veniva negata e poi dimenticata. Venivi abolito, annientato: VAPORIZZATO era il termine abituale.
Per un attimo fu colto da una specie di isteria. Iniziò a scrivere scarabocchiando frettolosamente e in modo disordinato:
mi spareranno non m’importa mi spareranno dietro al collo non m’importa abbasso il grande fratello ti sparano sempre dietro al collo non m’importa abbasso il grande fratello . . .
Si tirò di nuovo indietro sulla sedia, provando un po’ di vergogna, e posò la penna. Un attimo dopo ebbe un sussulto violento. Stavano bussando alla porta.
Di già! Restò seduto immobile come un topo, nella vana speranza che chiunque fosse se ne andasse via dopo un solo tentativo. Ma no, bussarono ancora. La cosa peggiore di tutte sarebbe stata ritardare. Il suo cuore stava battendo come un tamburo, ma il suo volto, abituato da tempo, era probabilmente privo di espressione. Si alzò e si mosse con passo pesante verso la porta.
Come avvicinò la mano al pomello della porta, Winston vide che aveva lasciato il diario aperto sul tavolo. ABBASSO IL GRANDE FRATELLO gli stava scritto sopra da cima a fondo, con lettere quasi grandi a sufficienza da essere leggibili dall’altra parte della stanza. Era una cosa inconcepibilmente stupida da fare. Ma si rese conto che anche nel panico non aveva voluto imbrattare quella carta color crema chiudendo il libro mentre l’inchiostro era bagnato.
Inspirò a fondo e aprì la porta. Immediatamente sentì scorrere dentro di sé una calda ondata di sollievo. Una donna pallida, dall’aspetto accartocciato, con capelli a ciocche e un volto pieno di grinze, stava fuori dalla porta.
“Oh, compagno”, esordì con voce triste e piagnucolante, “Mi è sembrato di averti sentito arrivare. Pensi che potresti venire a dare un’occhiata al lavandino della nostra cucina? È rimasto bloccato e . . .”
Era la signora Parsons, la moglie di un vicino che viveva sullo stesso piano (“signora” era una parola alquanto disapprovata dal Partito – eri tenuto a chiamare tutti “compagni” – ma con certe donne uno la usava istintivamente). Era una donna sui trent’anni, ma che sembrava molto più vecchia. Si aveva l’impressione che ci fosse della polvere nelle grinze del suo volto.
Winston la seguì nel corridoio. Questi lavori dilettantistici di riparazione erano una seccatura quasi quotidiana. I Palazzi Vittoria erano costituiti da appartamenti vecchi, costruiti nel 1930 o giù di lì, che stavano cadendo a pezzi. L’intonaco si sfaldava continuamente dai soffitti e dalle pareti, i tubi scoppiavano ogni volta che c’era un freddo intenso, il tetto perdeva ogni volta che c’era la neve, l’impianto di riscaldamento di solito funzionava a metà della potenza quando non era proprio chiuso del tutto per motivi di risparmio. Le riparazioni, a eccezione di quelle che potevi fare da solo, dovevano essere approvate da commissioni remote che potevano ritardare di due anni anche solo la riparazione del vetro di una finestra.
“Naturalmente è solo perché Tom non è a casa”, disse distrattamente la signora Parsons.
L’appartamento dei Parsons era più grande di quello di Winston, e squallido in modo diverso. Ogni cosa aveva un aspetto malconcio, calpestato, come se in quel luogo fosse appena passato un grosso animale violento. Giocattoli che facevano da ostacoli – bastoni da hockey, guantoni, un pallone scoppiato, un paio di calzoncini sudati rovesciati – giacevano su tutto il pavimento, e sul tavolo c’era un immondezzaio di piatti sporchi e quaderni con le orecchie spiegazzate. Sulle pareti c’erano dei manifesti scarlatti della Lega della Gioventù e delle Spie, e un manifesto di grandi dimensioni del Grande Fratello. C’era il solito odore di cavoli lessi, comune a tutto l’edificio, ma impregnato di un pungente puzzo di sudore, che – lo si capiva alla prima annusata, anche se era difficile dire come – apparteneva a qualcuno che non era presente in quel momento. In un’altra stanza qualcuno con un pettine e un pezzo di carta igienica stava provando a seguire il motivo della musica militare che stava ancora uscendo dal teleschermo.
“Sono i bambini”, disse la signora Parsons, gettando uno sguardo quasi apprensivo verso la porta. “Oggi non sono stati fuori. E naturalmente . . .”
Aveva l’abitudine di interrompere le frasi a metà. Il lavandino della cucina era pieno quasi fino all’orlo di acqua sozza e verdognola che puzzava di cavoli peggio che mai. Winston si inginocchiò ed esaminò il raccordo angolare del tubo. Odiava usare le mani, e odiava piegarsi, cosa che poteva sempre fargli venire da tossire. La signora Parsons stava a guardare senza poter fare niente.
“Naturalmente se Tom fosse a casa lo metterebbe a posto in un attimo”, disse. “Gli piacciono un sacco queste cose. Tom è sempre bravissimo con le mani.”
Parsons era un collega di Winston presso il Ministero della Verità. Era un uomo grassoccio ma attivo, di una stupidità paralizzante, una massa di entusiasmi imbecilli – uno di quegli sgobboni devoti, che non fanno nessuna domanda, dai quali, ancor di più che dalla Polizia del Pensiero, dipendeva la stabilità del Partito. A trentacinque anni era appena stato sfrattato, contro la sua volontà, dalla Lega della Gioventù, e prima di essere promosso nella Lega della Gioventù era riuscito a rimanere nelle Spie per un anno oltre l’età prefissata. Al Ministero era impiegato in qualche posizione subordinata per la quale non era necessaria l’intelligenza, ma allo stesso tempo era una figura preminente della Commissione Sportiva e di tutte le altre commissioni coinvolte nell’organizzazione di escursioni collettive, dimostrazioni spontanee, campagne di risparmio e attività di volontariato in generale. Ti informava con un discreto orgoglio, tra una tirata di pipa e l’altra, del fatto che avesse fatto una comparsa al Centro Comunitario ogni sera degli ultimi quattro anni. Un insopportabile odore di sudore, una sorta di inconscia attestazione della strenuità della sua vita, lo seguiva ovunque andasse, e gli rimaneva dietro anche dopo che lui se n’era andato.
“Hai una chiave inglese?” chiese Winston, trafficando con il dado sul raccordo ad angolo.
“Una chiave inglese”, disse la signora Parsons, diventando improvvisamente smidollata. “Non lo so proprio. Magari i bambini . . .”
Ci fu un rumore di passi pesanti di stivali e un altro suono fatto col pettine come i bambini andarono alla carica nel salotto. La signora Parsons portò la chiave inglese. Winston fece uscire l’acqua e con disgusto rimosse il grumo di capelli umani che aveva intasato il tubo. Si lavò le dita meglio che poteva nell’acqua fredda del rubinetto e tornò nell’altra stanza.
“Mani in alto!” gridò una voce feroce.
Un bel bambino di nove anni, dall’aspetto tenace, era saltato fuori da dietro il tavolo e lo stava minacciando con una pistola automatica giocattolo, mentre la sua sorellina, di circa due anni più giovane, faceva lo stesso gesto con un pezzetto di legno. Entrambi indossavano i calzoncini blu, le magliette grigie e i foulard rossi che costituivano l’uniforme delle Spie. Winston alzò le mani sopra la testa, ma provando l’inquietante sensazione, tanto era brutale il comportamento di quel fanciullo, che non si trattasse del tutto di un gioco.
“Sei un traditore!” gridò il fanciullo. “Sei un criminale del pensiero! Sei una spia dell’Eurasia! Ti sparerò, ti vaporizzerò, ti manderò nelle miniere di sale!”
A un tratto se li trovò che gli saltellavano intorno, urlando “Traditore!” e “Criminale del pensiero!”, con la fanciulla che imitava il fratello tutto il tempo. In qualche modo era un po’ spaventoso, come lo sgambettare di tigrotti che presto cresceranno diventando divoratori di uomini. C’era una specie di ferocia calcolatrice nello sguardo del fanciullo, un desiderio piuttosto evidente di colpire Winston o di prenderlo a calci e la consapevolezza di essere quasi grande abbastanza per farlo. Era una cosa buona che quella che stava reggendo non fosse una pistola vera, pensò Winston.
Gli occhi della signora Parsons passavano nervosamente da Winston ai bambini e viceversa. Nella buona luce del salotto lui notò con interesse che c’era effettivamente della polvere nelle grinze del volto di lei.
“Diventano tanto chiassosi”, disse. “Sono delusi perché non sono potuti andare a vedere l’impiccagione, ecco perché. Io sono troppo impegnata per portarli. E Tom non tornerà dal lavoro per tempo.”
“Perché non possiamo andare a vedere l’impiccagione?” ruggì il fanciullo con la sua voce enorme.
“Vogliamo vedere l’impiccagione! Vogliamo vedere l’impiccagione!” ripeté la fanciulla, sempre saltellando di qua e di là.
Winston si ricordò che alcuni prigionieri eurasiatici, colpevoli di crimini di guerra, dovevano essere impiccati nel Parco quella stessa sera. Era una cosa che accadeva all’incirca una volta al mese, ed era uno spettacolo popolare. I bambini chiedevano sempre a gran voce di essere portati a vederlo. Si accomiatò dalla signora Parsons e si diresse verso la porta. Ma non aveva ancora fatto sei passi nel corridoio quando qualcosa lo colpì dietro il collo causandogli un dolore atroce. Era come se un filo rovente gli fosse stato conficcato dentro. Si girò appena in tempo per vedere la signora Parsons tirare suo figlio dentro casa mentre il fanciullo si metteva in tasca una fionda.
“Goldstein!” urlò il fanciullo mentre la porta gli si chiudeva davanti. Ma ciò che più colpì Winston fu lo sguardo di spavento incontenibile sul volto grigiastro della donna.
Tornato nel suo appartamento camminò velocemente oltre il teleschermo e si sedette di nuovo al tavolo mentre si sfregava ancora il collo. La musica proveniente dal teleschermo si era fermata. Al suo posto una voce militaresca, rapida e asciutta, stava leggendo, con una specie di entusiasmo brutale, una descrizione degli armamenti della nuova Fortezza Galleggiante che era appena stata ancorata tra l’Islanda e le Isole Faroe.
Con quei bambini, pensò, quella misera donna doveva condurre una vita di terrore. Ancora un anno, due anni, e l’avrebbero sorvegliata giorno e notte in cerca di sintomi di eterodossia. Ora quasi tutti i bambini erano orribili. La cosa peggiore in assoluto era che per mezzo di organizzazioni come le Spie venivano sistematicamente trasformati in piccoli selvaggi ingovernabili, eppure questo non generava in loro alcuna propensione a ribellarsi contro la disciplina del Partito. Al contrario, adoravano il Partito e ogni cosa a esso collegata. I canti, i cortei, gli striscioni, le escursioni, le esercitazioni con i fucili giocattolo, urlare i motti propagandistici, venerare il Grande Fratello – per loro era tutto una specie di gioco glorioso. Tutta la loro ferocia veniva rivolta verso l’esterno, contro i nemici dello Stato, contro gli stranieri, i traditori, i sabotatori, i criminali del pensiero. Per le persone sopra i trent’anni era quasi normale essere spaventate dai propri figli. E per un buon motivo, poiché non passava neanche una settimana senza che “I tempi” non pubblicassero un paragrafo che descriveva come un qualche piccolo spione che aveva origliato – il termine usato di solito era “eroe bambino” – avesse sentito qualche commento compromettente e avesse denunciato i propri genitori alla Polizia del Pensiero.
Il dolore acuto causato dal colpo di fionda era passato. Raccolse la penna svogliatamente, chiedendosi se potesse trovare qualcosa in più da scrivere nel diario. Di colpo cominciò di nuovo a pensare a O’Brien.
Anni addietro – quanto era passato? Dovevano essere sette anni – aveva sognato che stava camminando in una stanza completamente buia. E qualcuno che gli stava seduto da un lato gli aveva detto, mentre passava: “Ci incontreremo nel luogo dove non c’è oscurità”. Fu detto molto piano, quasi distrattamente – un’affermazione, non un ordine. Aveva continuato a camminare senza soffermarsi. La cosa curiosa era che a quel tempo, nel sogno, quelle parole non gli avevano fatto molta impressione. Fu solo più tardi e poco alla volta che sembrarono assumere un significato. Ora non poteva ricordare se fosse prima o dopo aver avuto quel sogno che aveva visto O’Brien per la prima volta, e non poteva ricordare quando fosse che per la prima volta aveva identificato quella voce con quella di O’Brien. Ma, ad ogni modo, quell’identificazione esisteva. Era O’Brien che gli aveva parlato nel buio.
Winston non aveva mai potuto sentirsi sicuro – anche dopo quel rapido sguardo di quella mattina era ancora impossibile essere sicuro – del fatto che O’Brien fosse un amico o un nemico. E non sembrava neanche avere una grande importanza. C’era un legame di comprensione tra di loro, più importante dell’affetto o della partigianeria. “Ci incontreremo nel luogo dove non c’è oscurità” aveva detto. Winston non sapeva che cosa significasse, ma solo che in un modo o nell’altro si sarebbe avverato.
La voce proveniente dal teleschermo si fermò. Uno squillo di tromba, chiaro e magnifico, fluttuò nell’aria stagnante. La voce proseguì aspra:
“Attenzione! Attenzione, per favore! Una notizia lampo è arrivata in questo momento dal fronte del Malabar. Le nostre forze nel Sud dell’India hanno ottenuto una vittoria gloriosa. Sono autorizzato a dire che l’azione che ora stiamo riportando può ben portare la guerra a poca distanza dalla fine. Ecco la notizia lampo . . .”
Brutte notizie in arrivo, pensò Winston. E infatti, dopo una cruenta descrizione dell’annientamento dell’esercito eurasiatico, con numeri stupefacenti di morti e prigionieri, arrivò l’annuncio che, a partire dalla settimana successiva, la razione di cioccolato sarebbe stata ridotta da trenta a venti grammi.
Winston ruttò di nuovo. L’effetto del gin si stava esaurendo, lasciando una sensazione di abbacchiamento. Il teleschermo – forse per celebrare la vittoria, o forse per annegare il ricordo del cioccolato perduto – eruppe in un “Oceania, è per te”. Eri tenuto a metterti sull’attenti. Ma nella posizione in cui si trovava in quel momento era invisibile.
“Oceania, è per te” lasciò spazio a una musica più leggera. Winston andò alla finestra, continuando a dare le spalle al teleschermo. Il giorno era ancora freddo e limpido. Da qualche parte in lontananza una bomba volante esplose emettendo un rombo cupo, rimbombante. Al presente ne cadevano su Londra circa venti o trenta a settimana.
Giù in strada il vento sbatacchiava il manifesto strappato avanti e indietro, e la parola SOCING compariva e scompariva a intermittenza. Socing. I sacri principi del Socing. Neolingua, doppiopensiero, la mutabilità del passato. Si sentì come se stesse vagando nelle foreste del fondo del mare, perso in un mondo mostruoso dove lui stesso era il mostro. Era solo. Il passato era morto, il futuro era inimmaginabile. Quale certezza aveva che una singola creatura umana vivente fosse dalla sua parte? E che modo aveva di sapere che il dominio del Partito non sarebbe durato PER SEMPRE? Come una risposta, gli tornarono alla mente i tre motti che stavano sulla facciata bianca del Ministero della Verità:
LA GUERRA È PACELA LIBERTÀ È SCHIAVITÙL’IGNORANZA È FORZA
Prese un pezzo da venticinque centesimi da una tasca. Anche lì, con minuscoli caratteri netti, stavano scritti gli stessi motti, e sull’altra faccia della moneta c’era la testa del Grande Fratello. Persino da quella moneta gli occhi ti seguivano. Sulle monete, sui francobolli, sulle copertine dei libri, sugli striscioni, sui manifesti e sugli involucri dei pacchetti di sigarette – ovunque. Sempre con gli occhi che ti guardavano e la voce che ti avviluppava. Addormentato o sveglio, al lavoro o a tavola, al chiuso o all’aperto, nella vasca da bagno o nel letto – nessuno scampo. Nulla era tuo eccetto i pochi centimetri cubi all’interno del tuo cranio.
Il sole si era spostato dall’altro lato, e le innumerevoli finestre del Ministero della Verità, senza più luce a risplendergli sopra, apparivano torve come le feritoie di una fortezza. Il suo cuore tremò di fronte a quell’enorme sagoma piramidale. Era troppo salda, non poteva essere presa d’assalto. Mille missili a razzo non l’avrebbero buttata giù. Si chiese di nuovo per chi stesse scrivendo il diario. Per il futuro, per il passato – per un’epoca che poteva essere immaginaria. E davanti a lui non vi era la morte ma l’annichilimento. Il diario sarebbe stato ridotto in cenere e lui in vapore. Solo la Polizia del Pensiero avrebbe letto ciò che lui aveva scritto, prima di annientarne l’esistenza e il ricordo. Come potevi fare ricorso al futuro quando non una sola traccia di te, neanche una parola anonima scarabocchiata su un foglio di carta, poteva fisicamente sopravvivere?
Il teleschermo batté le quattordici. Tra dieci minuti doveva uscire. Doveva essere di nuovo al lavoro per le quattordici e trenta.
Stranamente, il battere dell’ora sembrò aver rinvigorito il suo animo. Lui era uno spettro solitario che proferiva una verità che nessuno avrebbe mai sentito. Ma finché la proferiva, in qualche modo vago la continuità non veniva interrotta. Non era facendoti sentire, ma restando sano, che portavi avanti il patrimonio umano. Tornò al tavolo, intinse la penna e scrisse:
Al futuro o al passato, a un tempo in cui il pensiero è libero, in cui gli uomini sono diversi gli uni dagli altri e non vivono soli – a un tempo in cui la verità esiste e ciò che è stato fatto non può essere disfatto: dall’epoca dell’uniformità, dall’epoca della solitudine, dall’epoca del Grande Fratello, dall’epoca del doppiopensiero – saluti!
Era già morto, pensò. Gli sembrò che fosse soltanto ora, quando aveva iniziato a essere in grado di formulare i propri pensieri, che aveva compiuto il passo decisivo. Le conseguenze di ogni azione sono incluse nell’azione stessa. Scrisse:
Il crimine del pensiero non comporta la morte: il crimine del pensiero È la morte.
Ora che si era identificato come un morto diventava importante restare vivo il più a lungo possibile. Due dita della sua mano destra erano macchiate d’inchiostro. Era esattamente il tipo di dettaglio che poteva tradirti. Qualche fanatico ficcanaso all’interno del Ministero (una donna, probabilmente: qualcuno come la piccola donna dai capelli biondo-rossicci o la ragazza dai capelli scuri del Reparto Finzioni) avrebbe potuto cominciare a chiedersi perché lui si fosse messo a scrivere durante la pausa pranzo, perché avesse usato una penna antiquata, COSA avesse scritto – e poi avrebbe buttato là un’allusione nella sede appropriata. Andò in bagno e lavò via attentamente l’inchiostro con un sapone granuloso marrone scuro che ti raschiava la pelle come carta vetrata ed era quindi ben adatto per lo scopo.
Mise via il diario nel cassetto. Era abbastanza inutile pensare di nasconderlo, ma poteva almeno accertarsi del fatto che la sua esistenza fosse stata scoperta o meno. Un capello posto tra i bordi delle pagine era troppo evidente. Con la punta di un dito raccolse un granello di polvere bianchiccia distinguibile e lo depose su un angolo della copertina, dove era destinato a esser scosso via nel caso in cui il libro venisse mosso.
Winston stava sognando sua madre.
Pensò che doveva avere dieci o undici anni quando sua madre era scomparsa. Era una donna alta, statuaria, alquanto taciturna, dai movimenti lenti e con degli splendidi capelli biondi. Suo padre se lo ricordava più vagamente, scuro ed esile, vestito sempre con abiti scuri e ordinati (Winston ricordava in particolare le suole sottilissime delle scarpe di suo padre), e portava gli occhiali. Entrambi evidentemente dovevano esser stati inghiottiti in una delle prime grandi purghe degli anni cinquanta.