9,99 €
Flavio Claudio Giuliano fu un personaggio straordinario la cui figura è stata oggetto per secoli, da parte del Cristianesimo, di una inaudita damnatio memoriae. Considerato a torto dai Cristiani un feroce persecutore e bollato con l’epiteto di “apostata”, egli tentò in realtà, agendo sempre secondo giustizia, di risollevare le sorti di un Impero ormai in declino con coraggiose riforme politiche, economiche, amministrative e militari e di ripristinare l’antico spirito di tolleranza e di civile convivenza religiosa che fino al tempo di Costantino aveva caratterizzato l’Impero Romano, divenendone uno dei maggiori punti di forza.
I Cristiani, una volta preso stabilmente il potere a Roma, è fatto noto che da perseguitati si erano trasformati rapidamente in persecutori, dedicandosi ad una spietata e sistematica azione repressivo-persecutoria nei confronti non solo delle loro molteplici eresie interne, ma anche di tutti i culti e di tutte le plurimillenarie religioni dei
gentili, trasformando in pochi decenni quello che era un Impero fondato sulla piena tolleranza in una teocrazia nelle mani di un manipolo di Vescovi fanatici e corrotti. Giuliano, iniziato ai Misteri Eleusini e a quelli di Mitra e convinto seguace della Filosofia neoplatonica, tentò di porre fine a tutto questo, riaprendo gli antichi Templi e ripristinando la piena libertà religiosa, all’insegna della più pura essenza della Romanitas e della Filosofia ellenica.
Se la vita di questo Imperatore illuminato non fosse stata spezzata, a soli trentadue anni, da una lancia su un campo di battaglia nelle paludi della Mesopotamia, egli avrebbe molto probabilmente cambiato per sempre il corso della Storia.
Una delle più belle e complete biografie dell’Imperatore-Filosofo, scritta nel 1901 da Gaetano Negri, Senatore del Regno d’Italia e Sindaco di Milano dal 1884 al 1889. Con un ampio saggio introduttivo di Nicola Bizzi.
Das E-Book können Sie in Legimi-Apps oder einer beliebigen App lesen, die das folgende Format unterstützen:
Τεληστήριον
GAETANO NEGRI
L’IMPERATORE
GIULIANO
Edizioni Aurora Boreale
Titolo: L’Imperatore Giuliano
Autore: Gaetano Negri
Collana: Telestèrion
Con saggio introduttivo di Nicola Bizzi
Editing e illustrazioni a cura di: Nicola Bizzi
ISBN versione e-book: 978-88-98635-48-1
In copertina: solido emesso dall’Imperatore Giuliano
Edizioni Aurora Boreale
©2020 Edizioni Aurora Boreale
Via del Fiordaliso 14 - 59100 Prato
Questa pubblicazione è soggetta a copyright. Tutti i diritti sono riservati, essendo estesi a tutto e a parte del materiale, riguardando specificatamente i diritti di ristampa, riutilizzo delle illustrazioni, citazione, diffusione radiotelevisiva, riproduzione su microfilm o su altro supporto, memorizzazione su banche dati. La duplicazione di questa pubblicazione, intera o di una sua parte, è pertanto permessa solo in conformità alla legge italiana sui diritti d’autore nella sua attuale versione, ed il permesso per il suo utilizzo deve essere sempre ottenuto dall’Editore. Qualsiasi violazione del copyright è soggetta a persecuzione giudiziaria in base alla vigente normativa italiana sui diritti d’autore.
L’uso in questa pubblicazione di nomi e termini descrittivi generali, nomi registrati, marchi commerciali, etc., non implica, anche in assenza di una specifica dichiarazione, che essi siano esenti da leggi e regolamenti che ne tutelino la protezione e che pertanto siano liberamente disponibili per un loro utilizzo generale.
FLAVIO CLAUDIO GIULIANO,
L’ARALDO DEGLI DEI
di Nicola Bizzi
Un celebre proverbio latino, Vae victis! (“Guai ai vinti!”), tradizionalmente derivante da una frase attribuita al condottiero gallico Bren-no durante il Sacco di Roma del 387 a.C., è emblematico di quanto la Storia sia sempre stata scritta dai vincitori.
Ciò è sempre e inesorabilmente avvenuto nell’antichità, sin dagli albori della civiltà umana, e continua ad avvenire ancora oggi, a testimonianza di quanto poco l’esperienza storica serva d’insegnamento ai popoli. Agli sconfitti, a prescindere da chi siano i vincitori e dalle qualità morali che essi possano o meno incarnare o rivestire, viene sempre riservata una sorte meschina: vengono additati come il “male assoluto”, come “nemici del popolo”, e, qualora la loro figura o le loro imprese risultassero troppo “ingombranti” per essere facilmente dimenticate o sostituite, divengono oggetto di damnatio memoriae.
La damnatio memoriae è notoriamente una locuzione che, nella lingua Latina, significa letteralmente “condanna della memoria”. Nel Diritto Romano indicava, infatti, una pena consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia che potesse tramandarla ai posteri, come se essa non fosse mai esistita. Si trattava di una pena particolarmente aspra riservata in genere agli hostes, ossia ai nemici di Roma, del Senato o dell’Impero; nemici reali o presunti, o divenuti tali in seguito ai loro crimini o, molto più comunemente, dopo essere caduti in disgrazia presso i detentori del potere.
Nell’Urbe, in età repubblicana, tale sanzione – generalmente applicata dal Senato – faceva parte delle pene che potevano essere inflitte a una maiestas e prevedeva la abolitio nominis: il praenomen del condannato non si sarebbe tramandato in seno alla famiglia e sarebbe stato cancellato da tutte le iscrizioni. Inoltre si distruggevano tutte le eventuali raffigurazioni (pittore, scultoree e via dicendo) che lo riguardavano. In certi casi, previo voto positivo del Senato, la damnatio memoriae poteva essere seguita dalla rescissio actorum (letteralmente, “annullamento degli atti”), ossia dalla completa distruzione di tutte le opere realizzate dal condannato nell’esercizio della propria carica, opere divenute “scomode” proprio in conseguenza della condanna o sconfitta del soggetto, e perciò destinate alla distruzione affinché la loro lettura o diffusione non fosse per il popolo causa di cattivi insegnamenti. E se tale atto avveniva in vita, come in taluni casi è attestato dalle fonti storiche, allora – dal punto di vista giuridico – esso poteva rappresentare una vera e propria morte civile.
In età imperiale l’uso di tale pratica sanzionatoria non conobbe freni e toccò picchi di diffusione inauditi, divenendo quasi una prassi abituale, tanto che ne furono colpiti addirittura numerosi Imperatori, oltre alle loro consorti e a membri autorevoli delle loro famiglie. Tanto che, se un Imperatore veniva spodestato, manu militari o per congiure di palazzo, oltre a temere – a ragione – per la propria vita, doveva inoltre aspettarsi di veder distruggere, per mano di chi gli sarebbe succeduto, non solo la propria autorità ed il proprio alone divino, ma tutto ciò che riguardava la sua figura, con l’inesorabile abbattimento di statue e monumenti onorari e con la cancellazione del proprio nome dalle iscrizioni di tutti i monumenti pubblici.
Per dare un’idea dell’insensata e spropositata diffusione della damnatio memoriae in età imperiale, basterà dire che ne furono colpiti ben venticinque Imperatori (Caligola, Nerone, Aulo Vitellio, Otone, Domiziano, Caio Avidio Cassio, Commodo, Didio Giuliano, Pescennio Nigro, Clodio Albino, Geta, Macrino, Eliogabalo, Massimino il Trace, Treboniano Gallo, Emiliano, Marco Aurelio Caro, Marcio Aurelio Numeriano, Marco Aurelio Carino, Massimiano, Massimino Daia, Massenzio, Licinio, Crispo e Costantino II°), varie Auguste, mogli o madri di Imperatori (fra cui Iulia Agrippina, Bruzia Crispina, Fulvia Plautilla, Iulia Soemia, Iulia Aquila Severa, Iulia Avita Mamea, Caia Cornelia Supera e Fausta Massima Flavia) e un certo numero di Prefetti e Consoli, fra cui Caio Cornelio Gallo e Lucio Elio Seiano.
Ma i Romani, anche se, da provetti legislatori quali sempre si dimostrarono, questa pratica la istituzionalizzarono, nei fatti non ne furono gli ideatori. Questo strumento della cancellazione e della damnatio di oppositori, di Sovrani e di personaggi divenuti in qualche modo “scomodi” era infatti già praticata nell’Egitto faraonico e presso numerose civiltà del Vicino Oriente antico. Se ne hanno ampie testimonianze addirittura nell’antica Cina e in India.
I Cristiani, una volta preso stabilmente il potere a Roma, è fatto noto che da perseguitati si trasformarono rapidamente in persecutori, dedicandosi ad una spietata e sistematica azione repressivo-persecutoria nei confronti non solo delle loro molteplici eresie interne, ma anche di tutti i culti e di tutte le plurimillenarie religioni dei gentili, trasformando in pochi decenni quello che era un Impero fondato sulla piena tolleranza e libertà religiosa in una teocrazia nelle mani di un manipolo di Vescovi fanatici e assetati di sangue, contribuendo così a far scivolare l’intera civiltà occidentale nel baratro del Medio Evo. Innumerevoli furono le illustri vittime di questa tremenda fase persecutoria avviata dai successori di Costantino, e fra tutte spiccano la figura di Ipazia di Alessandria, la grande Filosofa, Iniziata e scienziata barbaramente assassinata nella capitale egiziana nel 415 da monaci istigati dal Vescovo Cirillo, e – come vedremo – quella del grande Imperatore Flavio Claudio Giuliano. E, anche se la damnatio memoriae continuò meno, in poca cristiana, da un punto di vista istituzionale (vi fu un drastico calo di formali condanne a tale pratica sanzionatoria, soprattutto nei confronti di Imperatori ed alte cariche dello Stato), essa divenne una prassi comune, quasi obbligata, nei confronti dei nemici e degli avversari – interni ed esterni – della Chiesa. Nemici ed avversari dei quali si tentò con ogni mezzo di cancellare o di obliarne la memoria, arrivando ad utilizzare la calunnia e la deliberata distorsione storica di fatti e vicende ad essi legate.
Ma la vittima più illustre, con il consolidarsi del potere della superstitio prava et immodica (come la definì Plinio), exitiabilis superstitio o superstitio malefica, come la definirono rispettivamente Tacito e Svetonio, fu senza dubbio la stessa Tradizione Occidentale.
Come sottolineò il grande Iniziato fiorentino Arturo Reghini¹, l’intolleranza religiosa, per cui diviene delitto perseguibile legalmente l’eterodossia del pensiero, non era sicuramente un carattere greco-romano. Il santo zelo della propaganda neppure; la subordinazione dei doveri del cittadino a quelli del credente, degli interessi della patria terrena a quelli della patria celeste neppure; la pretesa di rinchiudere la verità negli articoli di un credo, il fare dipendere la salvezza dell’anima dalla professione di una determinata credenza e dalla osservanza di una determinata morale neppure; lo spirito anarchico e democratico della fratellanza universale ed obbligatoria, della similitudine del prossimo e dell’eguaglianza neppure. Ci fa infatti notare sempre Reghini che «Non è il Cristianesimo che sia o sia divenuto occidentale, ma è l’Occidente che in certo modo è divenuto cristiano»². E questa forzata cristianizzazione dell’Occidente, imposta con la spada e con lo scudo e al prezzo di centinaia di migliaia di martiri, ne ha pesantemente stravolto (anche se non cancellato del tutto) l’anima e la più intima essenza.
Ma la Tradizione non è un’astrazione o un mero concetto simbolico; essa è fatta anche di persone, di uomini e donne che, con il loro operato, con i loro scritti o con le loro azioni hanno contribuito a plasmarla, ad arricchirla e a difenderla. Personaggi come, ad esempio, gli Imperatori Flavio Eugenio e Flavio Claudio Giuliano e grandi donne, martiri ed Iniziate, come l’Augusta Galeria Valeria e la Filosofa Ipazia di Alessandria, che la Chiesa (e con essa il pensiero unico e totalizzante che ha usurpato l’Occidente) hanno condannato a secoli di damnatio memoriae, affinché il loro operato, le loro azioni, i loro scritti e le loro idee non “corrompessero” le nuove generazioni e non turbassero lo status quo del nuovo ordine cristiano.
In taluni casi si è arrivati addirittura, in un curioso parallelismo con la sovrapposizione e sostituzione “sincretica” di Santi cristiani alle Divinità gentili originariamente venerate in determinati Templi, Santuari o altri luoghi di culto, alla creazione ad hoc di figure immaginarie di Santi, costruite ed amplificate dall’agiografia, destinate ad essere sovrapposte a figure scomode del precedente regime dottrinale e, nei fatti, a sostituirle nell’immaginario popolare. Il ricorso ad una simile pratica si rendeva necessario, agli occhi della Chiesa, soprattutto quando le figure da obliare risultavano particolarmente “ingombranti” o nel caso in cui fossero state talmente note presso l’opinione pubblica da renderne praticamente impossibile una cancellazione o una semplice damnatio memoriae tout court. E questo fu proprio il caso di Ipazia di Alessandria, per la cancellazione della cui memoria la Chiesa dovette inventarsi una figura che ne rivestisse, seppur abilmente invertite e ribaltate nei contenuti, le principali caratteristiche. Stiamo parlando, nello specifico, della figura di Santa Caterina di Alessandria³.
Prima di spiegare come tutto ciò sia potuto avvenire e di concentrarci sulla straordinaria figura dell’Imperatore Giuliano – ignominosamente bollato dai Cristiani come “Apostata” –, occorre focalizzare l’at-tenzione sul particolare contesto storico, politico, religioso e sociale di quella che è nota come tarda antichità. Faremo quindi alcuni passi indietro, ripercorrendo i fatti e gli avvenimenti che determinarono l’ascesa al potere di Costantino al vertice dell’Impero, la conseguente presa del potere politico da parte dei Cristiani e la terribile stagione di persecuzioni e di violenza che essi non tardarono a scatenare per imporre a tutti i costi la loro dottrina quale unico culto della romanità. Ogni persona è figlia e specchio della propria epoca e se non si conosce o non si comprende il contesto in cui una persona è vissuta, non si riuscirà mai a comprendere a fondo quello che essa ha costruito e realizzato, o anche, più semplicemente, quali erano il suo modo di pensare e la sua visione del mondo.
La stragrande maggioranza dei testi storici che prendono in esame l’ultima fase dell’Impero Romano, tende a sottolineare la decadenza della civiltà tardo-antica, attribuendone le cause ad una non meglio precisata “crisi di identità” del mondo antico, ad una presunta crisi di valori spirituali e religiosi della società “pagana” che sarebbe – a detta di certi storici – la principale responsabile della crisi politica, economica e militare che portò progressivamente al cedimento e infine al tracollo della struttura statale imperiale e dei suoi ordinamenti. Ma si tratta di una visione distorta e assolutamente fuorviante. Se crisi vi fu, essa fu soprattutto o principalmente di natura economica e sociale. La vera crisi “spirituale” di quel periodo che va da Costantino fino alla caduta dell’Impero di Occidente nel 476 fu innescata non certo da una società “pagana” che gli storici arrogantemente si ostinano a definire “decadente”, ma dalla diffusione e infine dalla forzata imposizione del Cristianesimo, e quindi del venir meno di quel principio di rispetto, di tolleranza e di civile convivenza religiosa che aveva fino ad allora caratterizzato l’Impero Romano, divenendone uno dei punti di forza, una delle colonne portanti.
Roma, fin dai propri albori, pur avendo sviluppato un proprio peculiare sistema religioso, in buona misura derivato dalla civiltà etrusca, fondato sull’equilibrio fra la Pietas (sentimento religioso) e la Religio («Religio – come scrisse Cicerone – è tutto ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolte ad esseri superiori la cui natura definiamo divina»⁴) per il raggiungimento e il mantenimento della Pax Deorum, aveva infatti sempre mostrato il massimo rispetto nei confronti degli Dei e delle tradizioni religiose dei popoli che man mano aveva assoggettato e inglobato nella sua progressiva espansione territoriale. Uno dei punti di forza della Repubblica, e poi dell’Impero, era stato non solo il non interferire con le istituzioni religiose dei popoli vinti, ma addirittura il tutelarne e difenderne la libertà di culto. Un’unica e sola eccezione era stata fatta con la proibizione dei Baccanali nel 186 a.C., dovuta però – secondo la versione “ufficiale” – a motivi di ordine pubblico, ma in realtà al fatto che i Collegi Sacerdotali dell’Urbe avevano ben compreso la pericolosità della figura di Dioniso, tanto che si coalizzarono per contrastarla, sia con provvedimenti legali che mediante complesse funzioni rituali.
Con l’integrazione e l’assorbimento della cultura ellenica da parte dei Romani, questo “punto di forza” fondato sul rispetto e la tolleranza toccò uno dei propri apici, determinando un notevole accrescimento morale, filosofico e spirituale della società. Grandi Imperatori come Lucio Domizio Enobarbo, conosciuto comunemente come Nerone, e, successivamente, gli Antonini, in primis Marco Aurelio e Publio Elio Adriano, furono fautori e artefici di uno splendido e vincente connubio fra la spiritualità e religiosità tradizionale latina e quella ellenica, cimentandosi in prima persona nello studio della Filosofia e nella conoscenza – anche iniziatica – della Weltanschauung ellenica ed orientale.
A Roma e in tutte le città dell’Impero, dalla Gallia alle coste africane, dalla Pannonia alla Bitinia, dall’Illirico al Ponto Eusino, convivevano in armonia, a fianco dei Templi dedicati alla Triade Capitolina, Templi di Iside, Mitrei, Serapei, Santuari di Artemide e di Astarte, di Cibele e di Asclepio, di Demetra e Kore Persefone. Persino nell’ambito del più importante collegio sacerdotale di Roma, quello dei Fratres Arvales, del quale l’Imperatore Ottaviano Augusto fu Pontefice Massimo, si celebravano i Riti ed i Misteri della Dea Dia, un’esoterica personificazione latina della Dea Demetra.
Chi conosce un’opera fondamentale della storia tardo-antica quale la Historia Nea di Zosimo, può comprendere quale fosse realmente il clima filosofico e religioso di quei tempi e quanto la responsabilità dell’inizio della decadenza sociale e politica di Roma sia da attribuire quindi non ad una presunta “crisi” religiosa del “paganesimo”, ma proprio al venir meno del prezioso equilibrio del rispetto e della tolleranza innescatosi con la presa del potere da parte di Costantino (306-337 d.C.) e con le sue devastanti politiche economiche, sociali e religiose.
Parliamoci chiaro: una pesante crisi sociale ed economica era già in atto da tempo entro i confini dell’Impero. Anni turbolenti di guerre intestine e fratricide fra Imperatori spesso in carica per pochi anni e ancor più spesso destituiti con le armi da rivali militari e da usurpatori, invasioni barbariche e progressiva perdita del controllo imperiale su intere province periferiche, riforme monetarie sbagliate o incompiute: tutto questo e molti altri fattori ancora avevano portato alla necessità di una profonda riforma delle istituzioni imperiali e dell’esercito. Ma Costantino, una volta assicuratosi il pieno controllo del potere, invece di porre rimedio a questa situazione con riforme tese al rafforzamento dello Stato e delle istituzioni, sfaldò la compattezza delle legioni, mise l’esercito in condizione di non poter più difendere i confini, introdusse riforme economiche e monetarie devastanti e spalancò le porte all’intolleranza religiosa e alla dittatura di un’unica religione di matrice orientale, peraltro abilmente costruita a tavolino con l’introduzione in essa, in chiave sincretica, di elementi ed aspetti di altri culti dell’epoca, da quello isiaco a quello mithraico, fino a quello dionisiaco. Una religione, quindi, artefatta e costruita, delineata da quella colossale farsa che fu il Concilio di Nicea, e destinata ad essere imposta con la forza su tutte le altre.
Molti storici contemporanei che si sono occupati nei loro studi di questa turbolenta età tardo-antica tendono ad additare la straordinaria diffusione che trovarono i culti misterici nei primi secoli dell’Impero come sostanzialmente responsabile di aver «dissodato il terreno al Cristianesimo», come ha dichiarato testualmente Fabio Calabrese in un suo interessante articolo intitolato Come il mondo antico è diventato cristiano⁵. In particolare, pur apprezzando da molti anni gli studi di questo autore, non concordo con lui quando indica come presunta causa della crisi della Religione Capitolina, la «rarefazione dell’elemento romano-italico»⁶ che ne sarebbe stata, a suo dire, il naturale supporto; una “rarefazione” obiettivamente difficile da evitare in un contesto statale come quello Romano, votato alla conquista, all’assimilazione di sempre nuovi territori (e con essi di nuovi popoli, con i relativi retaggi linguistici, culturali e religiosi) e caratterizzato da una visione sempre più ecumenica, universale. Un conto, infatti, è parlare della Roma degli albori e dell’età della monarchia, un’età che vedeva una Città-Stato agli inizi della propria espansione e intenta a guerreggiare con i suoi più immediati vicini. Un altro conto è parlare della Roma repubblicana e imperiale, divenuta ormai a tutti gli effetti un impero sovranazionale e con vocazione universale, il cui concetto venne in maniera esemplare in questo modo evidenziato ed affermato da Marco Tullio Cicerone: «Roma non è soltanto una entità geografica. Roma non è circoscritta da fiumi, monti o mari. Roma non è un fatto di razza, sangue o religione: Roma è un ideale. Roma è la più sublime personificazione della libertà e della legge mai realizzata dal genere umano da quando, diecimila anni fa, i nostri antenati sono scesi da quei monti e hanno imparato a vivere in comunità obbedendo alla legge»⁷.
Come ha sottolineato Luca Valentini in un suo articolo⁸, la Romanità va intesa primariamente come una dimensione dello spirito, come un preciso stato ontologico, come un trascendimento, una sublimazione del dato etnico-naturalistico. Non vanno infatti sottaciute, in tale senso, le personalità imperiali di un Flavio Giuliano – che non era romano di nascita né vide mai la città di Roma –, oppure di Marco Giulio Filippo, più noto come Filippo l’Arabo, per le sue origini non proprio indoeuropee, nonché la figura eroica di Stilicone, Magister Militum e Patrizio, nonostante la propria origine germanica, più Romano dei Romani di nascita, per la difesa che oppose ad Alarico, in nome di quell’Idea di Roma, come adesione a ciò che Evola ebbe a definire “autentica Razza dello Spirito”: «Universalità come conoscenza e universalità come azione: ecco le due basi di ogni epoca imperiale. La conoscenza è universale, quando giunge a darci il senso di cose, dinanzi alla cui grandezza e alla cui eternità tutto ciò che è pathos e tendenza degli uomini scompare: quando ci introduce nel primordiale, nel cosmico, ciò che nel campo dello spirito ha gli stessi caratteri di purità e di potenza degli oceani, dei deserti, dei ghiacciai»⁹.
Fabio Calabrese, nel sovracitato articolo, sostiene che la diffusione e il radicamento, nel contesto della società romana imperiale, dei culti misterici di provenienza ellenica e orientale, della Filosofia Platonica e del Pitagorismo, e di altre forme di mistica filosofico-religiosa che avrebbero dato origine allo Gnosticismo e a simili correnti spirituali sarebbero state alla base dell’emersione di un «qualcosa che era esattamente il contrario dello spirito romano, uno spirito servile, infantile, che si inginocchia davanti a una figura-feticcio per impetrare la redenzione: Iside, Orfeo o Cristo, non fa molta differenza»¹º. E sostiene che, a livello etico, il Romano rappresentava «prima di tutto l’uomo in piedi davanti agli uomini e davanti agli Dei, con lo sguardo sereno e il ciglio asciutto davanti alla vita e davanti alla morte: “Et facere et pati fortiter romanum est”, “Che accada quello che può, io farò quel che devo”»¹¹. Un uomo, in sintesi, «che non ha bisogno di essere consolato né redento»¹².
Una visione, questa, altamente idealizzante e idealizzata e di taglio sicuramente romantico, ma che non tiene conto della realtà, e soprattutto delle vere origini e della vera natura della religione, della religiosità e della spiritualità dei Romani e di quei popoli romanizzati che rappresentarono, soprattutto a partire dall’inclusione del mondo ellenico nella sfera politica di Roma, il cardine stesso della potenza imperiale di quest’ultima.
Possiamo invece sostanzialmente concordare con l’analisi politica ed economica che questo studioso ci ha presentato; un’analisi piuttosto obiettiva delle ragioni della crisi economica e sociale che colpì l’Impero, prevalentemente a partire dal III° secolo, dopo la conclusione della splendida e irripetibile stagione degli Antonini, evidenziando giustamente il rapporto fra uno stato di guerra continuo e permanente e i limiti e le contraddizioni di un’economia fondamentalmente agricola. Gli effetti di questo stato di guerra sostanzialmente permanente (se si eccettuano le poche parentesi di pace e di relativa stabilità del II° secolo) furono alquanto diversi sulla piccola proprietà terriera a conduzione familiare e sulla grande proprietà fondiaria. Come evidenzia Calabrese, la piccola proprietà contadina, gestita da realtà che potremmo assimilare agli odierni “coltivatori diretti”, veniva a trovarsi in difficoltà sempre crescenti per via dell’assenza dei capifamiglia e dei loro figli maschi adulti. Le grandi proprietà terriere, invece, aggiravano questo ostacolo servendosi in misura sempre maggiore del lavoro servile, e tendevano inoltre ad ampliarsi, con il frequente acquisto, a prezzi stracciati, di piccoli fondi appartenenti a famiglie di coltivatori indebitati. Si ebbe così una progressiva e inesorabile estensione delle grandi proprietà, i cui proprietari si trasformarono in latifondisti, un fenomeno che ebbe pesanti ricadute sul piano economico, sociale e demografico. L’estensione del latifondo e la progressiva scomparsa della piccola proprietà contadina comportarono il passaggio da un’agricoltura intensiva ad un’agricoltura estensiva e alla pastorizia, con una conseguente brusca diminuzione della redditività delle terre e con un sempre più ampio ricorso al lavoro servile. Comportò inoltre la nascita e la crescita di un fenomeno sociale fino a quel momento inedito per la società romana: masse di contadini espulsi dalle campagne, venuto meno il loro tradizionale lavoro agricolo, si riversarono sempre più nelle città, entrando a far parte di quel proletariato urbano che, anche per via dell’oggettiva difficoltà di trovare un lavoro stabile, viveva prevalentemente di espedienti; plebi urbane che rappresentavano una pentola in costante ebollizione e sul punto di esplodere e che gli Imperatori cercavano di tenere sotto controllo dando loro “panem et circenses”¹³.
Come rileva sempre Calabrese, questo passaggio fra la campagna e la città comportò in numerose province dell’Impero un conseguente calo demografico, essendo venuto meno per le famiglie il tradizionale incentivo a mettere al mondo figli che potessero divenire braccia utili per il lavoro dei campi. E, nel frattempo, le cospicue masse di contadini che si urbanizzavano venivano sempre più sostituite nel lavoro agricolo da una manodopera servile, costituita prevalentemente da prigionieri di guerra e da stranieri, provenienti da ogni angolo del Mediterraneo.
Il calo di produttività della terra andò ad incidere pesantemente anche sulle politiche belliche dello stato romano: nuove guerre di conquista si rendevano più che mai necessarie per garantire l’approvvigionamento delle risorse necessarie al mantenimento della popolazione, in special modo quella dei centri urbani. Già nella prima età imperiale, infatti, l’agricoltura italica era così poco remunerativa che il grano necessario al sostentamento del popolo proveniva quasi interamente dalle province africane. E questa dipendenza alimentare dell’Italia dai territori d’oltremare crebbe costantemente nei secoli successivi, tanto che una delle principali ragioni del definitivo collasso della Pars Occidentis dell’Impero, nel 476, fu proprio la perdita delle fertili province del Nord Africa, conquistate e occupate dai Vandali di Genserico.
Un sistema economico fondato sul latifondo e sul lavoro servile e imperniato sulla necessità di sempre nuove campagne belliche – fino all’età antonina sostanzialmente di conquista, in seguito prevalentemente finalizzate alla difesa dei confini – era impensabile che non portasse a un drammatico acutizzarsi delle differenze sociali e delle tensioni, tenendo conto del fatto che il continuo stato di guerra (che assunse drammaticamente, dal III° secolo in avanti, anche i caratteri di guerra civile, in una realtà in cui spesso la successione al soglio imperiale veniva decisa con scontri armati fratricidi fra le legioni) e il mantenimento di un gigantesco apparato burocratico, comportavano anche un conseguente aumento della pressione fiscale.
Questo era quindi, in sintesi, il clima sociale e politico in cui crebbe e si diffuse il Cristianesimo, con tutte le sue varie correnti ed espressioni, il cui attecchimento, soprattutto fra le classi sociali più povere, fu sicuramente favorito dalla pesante crisi sociale in cui versava la società imperiale.
Ho già avuto modo di affrontare in maniera piuttosto approfondita nell’ambito del secondo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze le cause e le dinamiche che portarono alla nascita e all’affermazione del Cristianesimo, e soprattutto i retroscena più occulti e inconfessabili di tali cause e dinamiche. Ci atterremo quindi in questa sede al contesto storico e politico, per capire come una delle tante dottrine mistiche e soteriche di matrice orientale sia stata utilizzata e strumentalizzata da determinate “confraternite” come un vero e proprio “cavallo di Troia” per conquistare il potere e per impadronirsi delle redini dell’Impero.
Potrebbe apparire come un paradosso il fatto che il primo editto imperiale con il quale il Cristianesimo – dopo anni di persecuzioni motivate soprattutto dall’atteggiamento ambiguo delle comunità cristiane che sfidavano apertamente l’autorità dell’Imperatore e le stesse istituzioni dello Stato – otteneva implicitamente lo status di religio licita, ovvero culto riconosciuto e ammesso dall’Impero, sia stato ispirato dagli Eleusini. Soprattutto se si tiene conto che tale editto, precedente di due anni il più noto editto di Milano promulgato da Costantino, aprì di fatto la strada alla presa del potere da parte di quella che, fino a quel momento era considerata una esecrabile superstitio prava et immodica (come la definì Plinio). Ma vedremo che di paradosso non si tratta, perché gli Eleusini si erano sempre battuti per la tolleranza e la libertà religiosa e, nonostante criticassero i Cristiani per i loro atteggiamenti intransigenti e per i fondamenti della loro dottrina, non vedevano di buon occhio la loro persecuzione. E, addirittura, in più di un’occasione, si allearono con i Cristiani su temi condivisi e ne presero le difese.
L’editto a cui mi riferisco è quello di Serdica, emesso il 30 Aprile del 311, appunto a Serdica (l’odierna Sofia), dal Primus Augustus Galerio a nome del collegio tetrarchico che in quegli anni reggeva l’Impero. Ma perché i Cristiani venivano perseguitati?
Proprio il comportamento stesso dei Cristiani aveva portato alle misure che gli Imperatori avevano fino a quel momento adottato contro di loro, misure che erano finalizzate a ricondurli ai Veterum Instituta, nel rispetto e nel ripristino della Pax Deorum et Hominum, ovvero la giustizia delle relazioni sia tra la sfera intramondana e gli uomini, sia degli uomini tra loro. Un concetto cardine, questo, delle stesse istituzioni romane, nelle quali il pio, colui che possedeva la pietas, era colui che aveva una relazione corretta con la Divinità e con i suoi simili; la cosa peggiore era che un cittadino mancasse a questa relazione, e la figura dell’Imperatore non poteva venir meno dall’occuparsi del mantenimento di questa Pax, poiché il potere civile aveva dentro di sé il concetto di relazione con la Divinità.
Diocleziano da un lato non fece che recuperare il concetto di Mos Maiorum (letteralmente “costume degli antenati”), in base al quale era ciò in cui avevano creduto gli antenati che aveva fatto grande Roma. Esso aveva sempre rappresentato il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana, per la quale le tradizioni erano il fondamento dell’etica, tradizioni che comprendevano innanzitutto il senso civico, la pietas, il valore militare, l’austerità dei comportamenti e il rispetto delle leggi.
Il termine mores era già usato nel periodo protostorico dalle tribù stanziate nel territorio laziale, in riferimento a usi di tipo magico-religioso, e ce ne da una definizione Sesto Pompeo Festo:«Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum»(«Il costume è l’usanza dei padri, ossia la memoria degli antichi relativa soprattutto a riti e cerimonie dell’antichità»)¹⁴.
Da un altro lato Diocleziano introdusse il concetto orientale degli Dei che entrano nel mondo degli uomini. Rifacendosi alla religione romana più arcaica, si adoperò inoltre per rinforzare la componente sacrale dell’Impero: la venuta del Sovrano divenne la venuta della Divinità, perché è attraverso l’Imperatore che la Divinità si rende presente (in origine si sacrificava al genio dell’Imperatore, perché l’Imperatore veniva accolto fra gli Dei solo dopo morto). Questo concetto era ciò che i Cristiani non volevano o non potevano accettare. E fu questo loro rifiuto, accompagnato dal loro atteggiamento ambiguo, a determinare le persecuzioni.
Secondo le affermazioni di Galerio, la perseveranza dei Cristiani nel non rispettare, al pari di tutti gli atri cittadini dell’Impero, le leggi, i costumi e la pubblica disciplina, faceva sì che essi non dessero prova di onorare né gli Dei né il loro stesso Dio, perché la persecuzione glielo vietava. Questo portò, quindi, l’Imperatore a riconosce e a legittimare la compresenza del politeismo tradizionale e del monoteismo cristiano. Ma vediamo adesso il testo dell’Editto di Galerio:
«Tra tutte le disposizioni che Noi non abbiamo cessato di prendere nell’interesse e per il vantaggio della Res Publica avevamo voluto prima di ora tutto riordinare secondo le antiche leggi e la disciplina dei Romani e curare anche che i Cristiani, che avevano abbandonato la religione dei loro padri, tornassero a nutrire buone intenzioni. Infatti, per certi loro motivi, erano stati presi da così grande ostinazione e follia da non seguire più quelle antiche istituzioni, stabilite in origine dai loro stessi padri. Al contrario essi si davano, secondo il loro arbitrio e come loro piaceva, leggi da osservare e in diversi luoghi attiravano a sé grande varietà di popolo.
E avendo Noi pertanto pubblicato un editto per farli tornare alle istituzioni degli antenati, molti vi sono stati costretti dal pericolo, molti altri si sono ritrattati. Ma la maggior parte di loro perseverava nel suo proposito e Noi ci rendevamo contro che essi non prestavano agli Dei il culto e gli atti di pietà dovuti e neppure veneravano il loro Dio per esserne impediti; alla luce della nostra infinita clemenza e nella nostra prassi costante di concedere il perdono a tutti gli uomini, abbiamo stabilito di estendere anche ai Cristiani e al più presto la nostra indulgenza, così che essi possano di nuovo esistere e riedificare i loro luoghi di riunione, a questa condizione, però, che nulla compiano contro l’ordine pubblico.
In un’altra lettera indicheremo ai magistrati come converrà che si comportino. In cambio della nostra indulgenza, i Cristiani dovranno pregare il loro Dio per la salute nostra, della Res Publica e loro propria, perché la cosa pubblica possa ristabilirsi ovunque prospera ed essi possano vivere senza timore presso i loro focolari».
Caio Galerio Valerio Massimiano, nato attorno al 250 a Felix Romuliana (l’odierna Gamzigrad, nell’Est della Serbia) da una modesta famiglia illirica, era di religione romana tradizionale, ma sua moglie, l’Augusta Valeria, figlia di Diocleziano il Grande, era di fede Eleusina di Rito Madre, e nell’ambito delle Scuole Misteriche si è sempre sostenuto che ella sia stata la vera ispiratrice dell’editto del marito. Valeria, infatti, pur contraria al Cristianesimo e allo spirito intollerante e sovversivo dei suoi aderenti, non trovava giusto che venisse arrecato danno a dei cittadini dell’Impero sulla base del loro credo e che si vietasse loro di praticarlo pubblicamente.
L’imperatore Galerio morì di cancrena il 5 Maggio 311, pochi giorni dopo la pubblicazione di questo editto che poneva di fatto fine alle persecuzioni di Diocleziano nei confronti della setta galilea e che decretava la restituzione dei beni precedentemente confiscati ai suoi aderenti. Ma, si badi bene, le concessioni di Galerio ai Cristiani furono tuttavia legate ad una ben precisa conditio sine qua non: essi, in cambio della libertà che veniva loro concessa, avrebbero dovuto rispettare la disciplina, intendendo con essa la Publica Disciplina Romanorum,auspicando che questi cives, che avevano abbandonato il modo di vivere dei loro antenati, potendo praticare alla luce del sole il proprio culto, tornassero ad avere una buona disposizione d’animo (ad bonas mentes). Una mera utopia, come la storia ci ha insegnato!
Due anni dopo, nel 313 d.C., con il controverso Editto di Milano, Costantino (che mai fu realmente Cristiano e che si sarebbe convertito alla nuova superstitio, come vuole la tradizione, solo in punto di morte), completando l’azione di Galerio aveva posto definitivamente fine alle persecuzioni dei Cristiani, legittimandone pienamente il culto. Da lì il passo fu breve per dichiarare (nel 324) il Cristianesimo l’unica religione ufficiale dell’Impero. Dal Concilio di Nicea, convocato e presieduto dall’Imperatore l’anno seguente, nacque un perfetto connubio tra potere politico e potere religioso: Costantino si era in sintesi costruito in sede conciliare un’inedita forma teocratica di potere. Potere politico e potere religioso avevano formato un connubio inscindibile e indissolubile che presto avrebbe rivelato i suoi primi effetti.
Già nel 324, nella città di Didima in Asia Minore, venne saccheggiato l’Oracolo del Dio Apollo e ne furono torturati a morte i Sacerdoti. Simili fatti avvennero sul Monte Athos, dove monaci cristiani sfrattarono i Sacerdoti distruggendone i Templi. Appena due anni dopo, nel 326, seguendo le istruzioni della madre Elena, Costantino fece distruggere il Tempio di Asclepio a Aigeai, in Cilicia, e numerosi Templi della Dea Afrodite a Gerusalemme, Aphaca, Mambre, Phoenice e Baalbek, martirizzandone i Sacerdoti. E la maggior parte dei tesori e delle statue dei Templi “pagani” di Byzantion venne saccheggiata per decorare la Nuova Roma, Costantinopoli, divenuta ufficialmente nel 330 la nuova capitale dell’Impero.
Dal 330 al 335 non si contarono più i Templi “pagani” saccheggiati in tutta l’Asia Minore e in Palestina e Costantino arrivò a ordinare l’esecuzione mediante crocifissione dei “praticanti di magia” e degli “indovini (lettori di sorte)”. Questa persecuzione coinvolse anche il Filosofo neoplatonico Sopatro, iniziato ai Misteri Eleusini, che proprio nel 335 venne martirizzato.
Le persecuzioni, sia ai danni dei non Cristiani che dei Cristiani “eretici”, si intensificarono notevolmente con gli Imperatori successivi. Anche Flavio Giulio Costanzo (comunemente conosciuto come Costanzo II°), secondogenito di Costantino, perseguitò senza sosta tutti gli “indovini” e gli “hellenici”, imprigionandone e giustiziandone in gran numero. Sempre sotto il suo regno (337-361 d.C.) le persecuzioni si estesero su larga scala a Costantinopoli e venne bandito il celebre oratore Libanio, accusato di praticare magia.
Nel 353, con editto, Costanzo ordinò la pena di morte per tutti i tipi di adorazione attraverso i sacrifici e gli “idoli”. L’anno seguente, un nuovo editto ordina la chiusura di tutti i Templi “pagani”. Molte delle loro aree vengono profanate e trasformate in bordelli oppure in case da gioco, e vengono giustiziati i Sacerdoti. Tale editto venne seguito, nello stesso anno (354) da un altro simile che ordinava la distruzione sistematica dei Templi “pagani” e l’uccisione dei relativi Sacerdoti. Iniziano, parallelamente, i primi roghi delle biblioteche in varie città dell’Impero, e presso i Templi devastati iniziano a sorgere cantieri per realizzare la calce con i marmi distrutti dei frontoni e delle colonne. Un ulteriore editto dello scatenato Costanzo, nel 357, mise fuori legge tutti i metodi di divinazione, inclusa l’Astrologia.
A tutto questo pose fine, come ho spiegato nel primo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta¹⁵, la breve parentesi del regno dell’illuminato Imperatore Giuliano, ma con la sua morte, nel 363, le persecuzioni ricominciarono ancora più violente. Torneremo più avanti a concentrarci sulla figura di Giuliano. Basti qui sottolineare come il suo successore al soglio imperiale, Flavio Gioviano, infatti, appena eletto nel 364 ordinò, tanto per gradire, di dare alle fiamme la biblioteca di Antiochia ed emanò un nuovo editto (l’11 Settembre dello stesso anno) che ripristinava la pena di morte per quei gentili che praticavano “il culto antico degli Dei” e le arti divinatorie («Sileatomnibus perpetuo divinandi curiositas»). Altri tre editti, nel corso del medesimo anno, ordinavano la confisca di tutte le proprietà dei templi “pagani”, introducendo la pena di morte anche per chi partecipava a riti privati, anche all’interno delle pareti domestiche.
Sotto l’Imperatore Valente (364-378) vennero introdotte persecuzioni e discriminazioni anche all’interno dell’esercito. Un editto imperiale del 365 vietava, infatti, ai gentili ufficiali dell’esercito di comandare soldati Cristiani, un provvedimento che portò al definitivo collasso delle legioni, soprattutto nelle province “di frontiera”, e che ebbe fra le sue conseguenze quella di aprire definitivamente le porte alle invasioni barbariche.
Flavio Giulio Valente era nato nel 328 d.C. nella Colonia Aurelia Cibalae (l’attuale Vinkovci, in Croazia) e non aveva intrapreso la carriera militare che nel 360 d.C., arrivando rapidamente al grado di Protector Domesticus. Fervente Cristiano (ma di fede ariana), rischiò di compro-mettere la sua carriera politica sotto Giuliano, quando si rifiutò pubblicamente di compiere sacrifici agli Dei. Eppure, complice il rovescio dell’Araldo della Tradizione, solo tre anni più tardi riceveva il diadema imperiale. Si dimostrò sempre un uomo duro, tanto intransigente e spietato con i propri nemici quanto miope politicamente e militarmente. La sua politica economica fu caratterizzata da una smo-data pressione fiscale e in politica religiosa, parallelamente alle sue fanatiche persecuzioni contri i “gentili”, sarebbe arrivato forse a imporre definitivamente la conversione all’Arianesimo alla sua pars imperii se il suo dominio non fosse stato insidiato dalla grave rivolta di Procopio, un parente di Giuliano che, nel 365 d.C., usurpò la porpora. Nel più completo disinteresse di Valentiniano, che non intervenne benché chiamato in soccorso (probabilmente di proposito, perché, secondo molte interpretazioni, avrebbe visto di buon occhio la fine politica dell’Augusto d’Oriente), Valente perse rapidamente terreno, finché, radunate le sue forze, sconfisse l’usurpatore Procopio a Thyatira e a Nacoleia, per poi giustiziarlo e inviare la sua testa a Treviri, da Valentiniano.
Nel 370 Valente ordinò una persecuzione su larga scala che coinvolse tutti i territori orientali dell’Impero. Ad Antiochia vennero giustiziati i sacerdoti Hilarius e Patricius e l’ex governatore Fidustius, e tonnellate di libri “proibiti” vennero bruciate nelle piazze di tutte le città della parte orientale dell’Impero. Tutti i dignitari e i funzionari che erano stati vicini all’Imperatore Giuliano (tra cui Orebaso, Sallustio, Pegasio e molti altri) vennero perseguitati, il Filosofo Simonide venne arso vivo, e un altro Filosofo, Massimo, venne decapitato dopo essere stato torturato. Due anni dopo, nel 372, Valente arrivò ad ordinare al proprio fidato governatore dell’Asia Minore lo sterminio di tutti gli “Hellenici” e la distruzione sistematica del loro sapere, e l’anno successivo, nel 373, fu introdotto un nuovo provvedimento contro le pratiche divinatorie, e il termine “pagani” (abitanti dei pagus, i villaggi), venne ufficialmente introdotto nella legislazione in sostituzione del termine “gentili”.
In questa fase storica sono innumerevoli le testimonianze relative alle persecuzioni dei “pagani” e l’elevato numero di editti imperiali – se ne contano a decine – relativi alla proibizione degli antichi culti e alla distruzione dei Templi (editti che si protrarranno e succederanno per secoli, sempre più spietati e feroci, fino al regno di Giustiniano ed oltre) sono un palese indice di come l’antica religiosità fosse difficile da sradicare e tutt’altro che in crisi. Potremmo dilungarci per intere pagine ad elencarli tutti, ma non è questa, per motivi di spazio, la sede adatta. Mi limiterò a menzionare i più eclatanti ed i fatti di maggior rilievo, per dare un’idea ai lettori di quale fosse nella realtà il pesante clima sociale e culturale in cui vivessero gli Eleusini e i fedeli degli altri culti tradizionali.
Negli anni successivi Valente condusse una guerra contro le tribù dei Goti a Nord del Danubio alla quale dovette mettere frettolosamente fine a causa del precipitare della situazione sul fronte persiano. L’Im-peratore Shapur II° aveva infatti innescato un duro braccio di ferro per il controllo delle regioni di confine e la situazione si stava facendo via via sempre più tesa per via delle rivolte che, sempre più frequenti, interessavano varie province dell’Impero e per la morte di Valentiniano nel 375. Ma Valente non abbandonò l’idea di una spedizione risolutiva contro Shapur II° e fece spostare il grosso delle sue legioni sul fronte persiano, lasciando però aperti inquietanti vuoti nel sistema difensivo della pars orientis. Così, quando gli Unni passarono il Volga, spingendo gli Ostrogoti sempre più verso i territori dell’Impero, la pressione barbarica ai confini si fece preoccupante e pericolosa. La prima risposta di Valente fu l’emanazione di una leva militare straordinaria. Furono cancellati privilegi ed esenzioni e si arrivò a chiamare alle armi persino i monaci. Ma si dimostrò un’operazione tanto difficile quanto dispendiosa che creò nelle province orientali del-l’Impero, già vessate da un’inaudita pressione fiscale, insanabili e irreversibili malumori. Tanto che Valente, resosi conto del degenerare della situazione, decise di sospendere le sue disposizioni e tentò, nel 376, una strada diversa: diede la possibilità ad alcune tribù di Visigoti di entrare nell’Impero come foederati da opporre alle altre tribù barbariche. Ma si dimostrò una decisione ancor più deleteria e capace solo di accrescere le tensioni. La diffidenza della popolazione nei confronti dei barbari era molto marcata e il passo dalla diffidenza al disprezzo, alla prevaricazione, all’abuso fu molto breve. La situazione esplose l’anno successivo, nel 377, quando i Goti si rivoltarono e sbaragliarono le truppe romane a Marcianopoli. I vertici militari di Valente non poterono nulla, se non ottenere qualche successo minore.
Nel 378 Valente stesso, alla guido di un grande esercito, dovette muovere da Antiochia contro i Goti, mentre Graziano, nuovo Imperatore d’Occidente, accorreva in suo aiuto. Ma Valente non volle aspettare l’arrivo del nipote. Il 9 Agosto del 378 decise di affrontare da solo l’esercito dei Goti presso Adrianopoli e l’esito dello scontro fu disastroso. La cavalleria pesante dei barbari fece letteralmente a pezzi la fanteria romana, massacrando la quasi totalità delle truppe e ferendo lo stesso Imperatore, che fu portato nella sua tenda per ricevere le cure necessarie. Nessuna difesa però valse ad arrestare l’assalto dei Goti, che riuscirono a penetrare nell’accampamento romano distruggendo ogni cosa.
Il persecutore Valente, da tempo abbandonato dalla grazia degli Dei di Roma (ed evidentemente anche da quella del Dio Cristiano) perì così tra il fuoco ed il fumo della sua tenda, che bruciò inesorabilmente come una grande pira sacrificale, mentre l’Impero subiva la sua più grave sconfitta dai tempi della battaglia di Canne.
Con la morte di Valente la situazione precipitò e i Goti, galvanizzati dalla vittoria conseguita, si spinsero fino a Costantinopoli, per poi tornare indietro, portando distruzioni e saccheggi in tutti i Balcani. Le popolazioni, già stremate da carestie e da anni di vessazioni, persecuzioni religiose, instabilità e insicurezza, non tardarono ad insorgere e, sulla scia della crescente fobia per i barbari invasori, attuarono sistematici massacri nelle comunità gotiche già da tempo insediatesi nelle province dell’Asia e dell’area balcanica. Neppure il nuovo Imperatore, l’ispanico Flavio Teodosio, si dimostrò capace di contenere le invasioni e fu costretto ad avviare con i Goti delle umilianti trattative, consentendo di fatto a questi ultimi di stabilirsi lungo il corso del Danubio, fino alla Tracia. Si apriva così forse il periodo più cupo della storia di Roma, il prodromo della caduta definitiva dell’Impero, per la quale i Vescovi cristiani e gli Imperatori succedutisi da Valente in poi (nei fatti, questi ultimi, dei burattini nelle mani dei primi) ebbero un’enorme responsabilità.
È attestato che l’apice delle persecuzioni e dell’intolleranza nei confronti dei “gentili”, come ipocritamente venivano bollati tutti coloro che rifiutavano di assoggettarsi al battesimo cristiano, venne raggiunto sotto l’infausto regno di Teodosio “Il Grande” (379-395).
Flavio Teodosio nacque a Cauca, in Spagna, attorno al 347. Era figlio dell’omonimo Magister Militum dell’Imperatore Valentiniano I°, giustiziato nel 376 a Cartagine per alto tradimento mentre gestiva in maniera molto “personalistica” la provincia africana. Dal padre apprese i rudimenti dell’arte militare, tanto che nel 378 ricevette da Graziano la nomina a Magister Equitum. In seguito alla rovinosa morte di Valente, Graziano, nuovo Imperatore, lo associò alla guida dello Stato affidandogli la parte orientale dell’Impero.
Sotto Teodosio le sedi episcopali di Roma e Alessandria divennero depositarie delle regole religiose basate sul Credo niceno e la lotta contro l’Arianesimo si affiancò stabilmente alla lotta, sempre più spietata e brutale, contro tutti i culti non Cristiani.
Il 27 Febbraio del 380 Teodosio ribadì l’esclusività e unicità del Cristianesimo quale religione dell’Impero, emanando un nuovo editto, passato tristemente alla storia come l’Editto di Tessalonica, o Cunctos Populos, avvallato congiuntamente, oltre che da Teodosio, da Graziano e da Valentiniano II° (che all’epoca aveva solo nove anni). Questo provvedimento fu di natura epocale, perchè spianò letteralmente la strada alla forzata cristianizzazione dell’Impero Romano e non solo incrementò esponenzialmente le persecuzioni nei confronti delle altre religioni, con devastanti conseguenze sul piano umano e sociale, ma di fatto dette a tali persecuzioni piena legittimità. Esso dichiarava il Cristianesimo (secondo i canoni del credo niceno) la religione ufficiale dell’Impero, proibendo in primo luogo l’Arianesimo e le altre e-resie e, secondariamente, anche tutti i culti non cristiani.
L’editto riconosceva alle due sedi episcopali di Roma e di Alessandria d’Egitto il primato in materia di Teologia, ma di fatto spianava la strada al riconoscimento a tali autorità del vero potere politico e, insieme ad esso, del potere di vita o di morte su tutti i cittadini dell’Impero. Ne riporto qui di seguito il testo, nella versione originale in lingua Latina, tratta dal Codice Teodosiano, seguita dalla traduzione in lingua Italiana:
IMPPP. GR(ATI)ANVS, VAL(ENTINI)ANVS ET THE(O)D(OSIVS) AAA. EDICTVM AD POPVLVM VRB(IS) CONSTANTINOP(OLITANAE)
Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum Alexandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est, ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et filii et spiritus sancti unam deitatem sub pari maiestate et sub pia trinitate credamus. Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere ‘nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere’, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitro sumpserimus, ultione plectendos.
DAT. III KAL. MAR. THESSAL(ONICAE) GR(ATI)ANO A. V ET THEOD(OSIO) A. I CONSS.
***
GLI IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO E TEODOSIO
AUGUSTI. EDITTO AL POPOLO DELLA CITTÀ DI
COSTANTINOPOLI
Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che San Pietro Apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, Vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato Cristiano Cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di Chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.
DATO IN TESSALONICA NEL TERZO GIORNO DELLE CALENDEDI MARZO, NEL CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO
AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO.
Con questo inaudito editto, i non Cristiani, che ancora, nonostante quasi sessant’anni di libera diffusione della nefanda superstitio e di crescenti persecuzioni, si contavano a milioni, vennero bollati come “detestabili, eretici, stupidi e ciechi”. In un altro editto successivo Teodosio definì “insani” tutti coloro che non credevano nel Dio dei Cristiani e dichiarò fuorilegge tutti i dissensi dai dogmi imposti dalla Chiesa.
È stato fatto notare da molti storici, chiaramente di formazione culturale cristiana, che il famigerato Editto di Tessalonica, pur proclamando il Cristianesimo religione ufficiale ed esclusiva dell’Impero, non stabilisse alcuna direttiva specifica riguardo alla piena attuazione dei suoi intenti e che bisognasse attendere i cosiddetti Decreti Teodosiani, emessi dall’Imperatore tra il 391 e il 392, affinché esso ricevesse una vera e propria attuazione pratica fondata su precise normative. Ma si tratta di sterili e inutili sofismi, poiché certi storici tendono a dimenticare quanto la politica persecutoria cristiana fosse ormai già entrata nella sua fase più pericolosa ed aggressiva.
Sempre nel fatidico anno 380, Aurelius Ambrosius, Vescovo di Milano (canonizzato poi dalla Chiesa come S. Ambrogio), iniziò a ordinare la distruzione di tutti i templi “pagani” del territorio sottoposto al suo controllo, arrivando addirittura a spingere per la rimozione dell’Altare della Vittoria che si trovava da secoli nel Senato dell’Urbe, e in Grecia i Vescovi incitarono le masse di fanatici ad assalire e a devastare il più nobile e rispettato dei Santuari dell’antichità, quello di Eleusi. Il novantacinquenne Nestorio, Pritan degli Hierofanti di Eleusi, che era stato – non dimentichiamocelo – l’iniziatore di Giuliano, sfuggito per miracolo al linciaggio, decise così la formale chiusura dei Riti, annunciando la predominanza del buio mentale sull’intera umanità.
Il 2 Maggio dell’anno successivo, Teodosio arrivò addirittura a privare di tutti i loro diritti quei Cristiani che, nonostante avessero ricevuto (spesso forzatamente) il battesimo, decidevano di tornare all’antica religione. Le cronache del tempo attestano che i casi in questione erano numerosissimi, poiché spesso i cittadini si sottoponevano al battesimo cristiano per paura o per non perdere i loro diritti ed il loro stato sociale, continuando però a praticare le loro legittime religioni fra le mura domestiche o in Templi nascosti o sotterranei.
Mentre continuavano senza sosta i roghi delle biblioteche (e dei loro curatori), Teodosio vietò formalmente anche le semplici visite ai Templi ellenici. A Costantinopoli il Tempio della Dea Afrodite venne trasformato, sotto la benedizione dei Vescovi, in un bordello, e quello di Artemide in una stalla, e il cantoAlleluia (gloria a Jahwe), venne imposto nella liturgia.
Nel 384, sempre Teodosio ordinò al Prefetto Materno Cinegio di cooperare con i Vescovi per distruggere tutti i Templi dei “pagani” nel Nord della Grecia e in Asia Minore. Questi, incoraggiato dal fanatismo di sua moglie e dal Vescovo Marcello (proclamato Santo dalla Chiesa), con le sue bande batté palmo a palmo le campagne, saccheggiando e distruggendo centinaia di Templi ellenici ancora in attività, Santuari e altari. Tra gli altri essi distrussero il Tempio di Edessa, il Cabeireion di Imbros, il Tempio di Zeus ad Apamea, quello di Apollo a Didima e tutti i Templi di Palmira. Azioni che furono seguite, nel 386, da un nuovo editto di Teodosio che, a scanso di equivoci, vietava il restauro e la ricostruzione dei Templi distrutti. Si arrivò addirittura a porre fuori legge tutti i sistemi di datazione non cristiani e a proibire, con un nuovo editto (nel 391), il solo posare lo sguardo sulle statue vandalizzate!
Ricordato paradossalmente dai Cristiani come “mecenate delle arti”, Teodosio fu in realtà un Imperatore intollerante, spregiudicato e sanguinario, nonché un nemico giurato della cultura, della Filosofia e di ogni espressione della tradizione e dell’identità ellenica. Tanto che arrivò addirittura, nel 393, a cancellare la millenaria pratica dei giochi olimpici.
Un episodio su tutti dovrebbe far riflettere sulla sua ferocia: nel 390, dopo che il Magister Militum Buterico era stato linciato dalla folla a Tessalonica per aver arrestato un famoso auriga e per aver annullato i giochi annuali, per rappresaglia Teodosio organizzò una gara di bighe nel circo, facendo poi chiudere tutte le uscite e trucidare gli oltre settemila spettatori presenti all’interno. Un gesto che non lasciò indifferente neppure il suo complice nelle persecuzioni, il tutt’altro che “innocente” Vescovo di Milano Ambrosio, che lo costrinse a chiedere pubblico perdono.
A poco valse il tentativo, da parte dell’Imperatore Flavio Eugenio, proclamato Augusto d’Occidente nel 392 in seguito alla morte di Valentiniano II°, di rovesciare il criminale Teodosio e di ripristinare così gli antichi culti nel segno di una continuazione dell’operato di Giuliano.Nonostante il sostegno del valoroso Magister Militum Flavio Arbogaste, di importanti tribù dei Franchi e dell’intera aristocrazia romana rimasta legata agli antichi culti, l’esercito di Flavio Eugenio, comandato da Arbogaste, venne sconfitto da quello di Teodosio nel Settembre del 394 nella decisiva Battaglia del Frigido, tenutasi nei pressi dell’odierna Gorizia. Arbogaste si uccise per evitare la cattura, mentre Flavio Eugenio, su ordine di Teodosio, fu messo a morte per decapitazione come “traditore”.
Le classi sacerdotali degli antichi culti non potettero, da quel momento in poi, più contare su alcuna difesa politica o militare e scelsero, giocoforza, l’unica via percorribile per mettere in salvo i propri rispettivi irrinunciabili patrimoni sapientali, misterici e dottrinali: quella della clandestinità. L’avvento di quell’era di oscurità mentale sulla razza umana annunciato quattordici anni prima dal Pritan degli Hierofanti di Eleusi Nestorio era ormai compiuto e conclamato.
Gli anni 380 e 381, come abbiamo visto, vennero considerati per i Cristiani un punto di svolta, poiché Teodosio, con l’Editto di Tessalonica del 27 Febbraio del 380, aveva dapprima proclamato il Cristianesimo religione esclusiva dell’Impero, arrivando poi, con un nuovo decreto di cui già abbiamo parlato, quello del 2 Maggio dell’anno successivo (constatando l’inefficacia dei battesimi forzati), a privare di ogni diritto civile quei cittadini dell’Impero che tornavano a praticare le religioni tradizionali. E non si parlava di poche migliaia di cittadini, ma di milioni. Anche se la popolazione stimata dell’Impero si era drasticamente ridotta dagli ottanta milioni del II° secolo ai circa cinquanta del tempo di Teodosio, alla luce delle risicate percentuali della reale cristianizzazione della società, ci rendiamo conto di come il decreto del 2 Maggio 381 rappresentasse, oltre che una vera e propria forma di ricatto, una reale minaccia di privazione dei diritti civili non per una sparuta minoranza, ma addirittura per la maggioranza della popolazione! Una vera e propria aberrazione giuridica, oltre che una piena affermazione di totalitarismo oscurantista fondato sulla minaccia, sulla repressione e sulla paura.
Il pieno e totale controllo della politica, dell’economia e, di conseguenza, di ogni apparato giuridico e amministrativo dello Stato era ormai nelle mani di Vescovi fanatici e intolleranti, interessati solo a consolidare il proprio potere, incuranti non solo dei più elementari diritti dei cittadini, ma anche del dilagare di pestilenze, del continuo scoppiare di rivolte locali dovute alla pesante crisi economica e sociale e delle incessanti incursioni delle popolazioni barbariche che avevano facilmente ragione di frontiere che l’esercito, privato di risorse e degenerato nei suoi ordinamenti, non era più in grado di difendere. Quello che i Vescovi cristiani temevano di più, infatti, era la perdita del loro potere e ogni loro azione era finalizzata al suo esclusivo mantenimento e consolidamento, in totale sprezzo per la libertà, la sicurezza e il benessere dei cittadini e della società nel suo complesso.
La politica repressiva e la cristianizzazione della società continuarono così a tappe forzate, dopo la morte di Teodosio, anche sotto i suoi figli e successori Arcadio e Onorio, con l’obiettivo, dettato dai Vescovi, di arrivare alla piena e totale abolizione dei culti “pagani”.
Fortunatamente, fino a quel momento, nonostante il succedersi dei continui decreti liberticidi che abbiamo elencato, la distruzione di migliaia di Templi e il non certo trascurabile massacro di decine di migliaia di Martiri e di Sacerdoti, erano sussistite forti resistenze all’applicazione di leggi che anche gli stessi funzionari locali reputavano inique e inapplicabili. Leggi che, infatti, a livello locale, venivano spesso ignorate o aggirate, tanto che molte di esse dovettero essere promulgate più volte, talvolta anche in maniera goffa e ridicolmente ripetitiva, con la minaccia di pene e sanzioni di volta in volta sempre più severe.
Come ha evidenziato la storica finlandese Maijastina Kahlos nel suo saggio su Vettio Agorio Pretestato, questa continua ripetizione delle leggi suggerisce che esse non trovassero mai piena applicazione, soprattutto in determinati contesti locali in cui il Cristianesimo trovava difficoltà ad attecchire e vi era spesso un’ampia distanza fra i proclami solenni e la pratica quotidiana. Inoltre, in linea generale, le autorità locali, alle prese con rivolte sociali, crisi economiche continue e invasioni barbariche, avevano certamente problemi più urgenti da risolvere che non la coercizione dei non Cristiani. Molti amministratori locali (la maggior parte dei quali si erano battezzati per convenienza o per fare carriera più che per reale convinzione religiosa), infatti, tendevano a considerare nella pratica quotidiana le leggi “anti-pagane” più come proclami morali ed esortazioni alla retta condotta che come reali strumenti di coercizione, e quindi le applicavano in maniera piuttosto blanda, quando non le ignoravano del tutto. Si deve infatti tenere presente che la stragrande maggioranza dei convertiti al Cristianesimo, a prescindere dal fatto che la loro conversione fosse “sincera” o piuttosto dettata da paura, dal desiderio di conformarsi con gli altri abitanti della medesima comunità, oppure da mera opportunità politica, come osserva sempre la Kahlos, era impensabile che cambiassero radicalmente il loro modo di esprimere le idee religiose e i sentimenti, poiché il modo con cui essi comprendevano e vivevano la nuova fede era strutturato da un modello di pensiero derivante in toto dalla loro antica religione. La loro forma mentis restava infatti ancora modellata dai dettami della Paideia romano-ellenica, e ci sarebbe necessariamente voluto lo spazio di più generazioni affinché il nuovo culto attecchisse realmente nell’intimo delle coscienze e nell’immaginario collettivo.
Agostino d’Ippona, un apostata di genia berbero-punica (si convertì al Cristianesimo, religione già professata dalla madre, soltanto in età adulta) divenuto in seguito Vescovo e ricordato post mortem fra i Padri e Dottori della Chiesa (venne poi canonizzato come S. Agostino), nelle sue Confessioni dichiarava che la nobiltà romana era ancora saldamente “pagana” quasi nella sua totalità attorno alla metà del IV° secolo. E così continuò ad essere ancora per diversi anni, se consideriamo che, nonostante le dichiarazioni propagandiste di un altro caporione cristiano come Ambrogio nell’ambito della famosa disputa sull’Altare della Vittoria, è ormai attestato che i Cristiani riuscirono a divenire la maggioranza in Senato soltanto fra il 380 e il 399. Come rileva sempre Maijastina Kahlos, un punto di svolta nella cristianizzazione dell’aristocrazia senatoriale si ebbe fra il 394 e il 395, sulla scia della sconfitta militare di Flavio Eugenio da parte di Teodosio. Ancora al tempo di quest’ultimo, i Vescovi apparivano talvolta più interessati alle anime degli eretici che a quelle dei politeisti, e lo dimostra il fatto che nel Codice Teodosiano vi fossero molte più leggi dirette contro gli eretici che contro i “pagani”. Inoltre, se i sacrifici “pagani” e la celebrazioni dei Riti delle religioni non cristiane, in particolare quelle a carattere misterico, erano di fatto proibiti, le cerimonie pubbliche dei tradizionali culti romani e le relative processioni e festività, poiché rivestivano un carattere “civico” ed erano organizzate e celebrate in nome del Senato e del popolo, venivano ancora tacitamente tollerate, godendo ancora dei pieni favori di alti funzionari imperiali, di buona parte del censo senatorio e dell’aristocrazia locale, solitamente tradizionalista e refrattaria ai cambiamenti. Si ha infatti notizia che a Roma la festa dei Lupercalia sia stata celebrata addirittura fino al 494, ben diciotto anni dopo la caduta della Pars Occidentis dell’Impero.
Ma questi aspetti, in fondo marginali, della sopravvivenza locale di culti tradizionali di carattere “civico” non devono assolutamente trarre in inganno, perché, se i Vescovi e le autorità imperiali cristianizzate tolleravano ancora certe pratiche, alle quali ben si sommavano i Ludi e i Circenses, era per mero calcolo politico, per questioni di ordine pubblico e, soprattutto, perché non vi ravvisavano un reale pericolo. Erano infatti le religioni misteriche che essi temevano maggiormente, in primis quella Eleusina, che con il suo Rito Madre e con le sue derivazioni Orfica, Samotracense e Pitagorica era la più capillarmente diffusa, e non certo ultime quella Mithraica e quella Isiaca, che godevano ancora di numerosissimi seguaci, con Templi e proprie istituzioni ecclesiali in ogni angolo dell’Impero. Trattandosi, come ho documentato neri miei saggi, a tutti gli effetti di religioni rivelate, e per di più antichissime e assai radicate in tutti gli strati della popolazione e della società, e fondate su un rigoroso percorso iniziatico e sapientale, erano infatti le sole che avrebbero potuto tenere testa al Cristianesimo e confutarne i fragili dogmi.
Anche se la vera cristianizzazione forzata della società romana imperiale, come abbiamo visto, toccò il suo apice sotto il regno di Teodosio, trovando piena “legittimazione” giuridica con il famigerato e criminale Editto di Tessalonica, questa drammatica involuzione catabasica e oscurantista della civiltà europea aveva decisamente radici più profonde. Se Costantino e i suoi successori avevano metaforicamente aperto la porta della gabbia del mostro e Teodosio l’aveva decisamente spalancata, permettendo ad esso di uscire e di scatenare la sua furia dogmatica e persecutoria (compiendo così quello che Fabio Calabrese ha giustamente definito l’atto più infame della Storia), questo mostro già si annidava da tempo nelle pieghe della storia. Mi sto riferendo a un mostro tentacolare e strisciante dai molti nomi e dalle molte facce, emblema di ogni principio contro-iniziatico, che sin dalla sconfitta degli antichi Dei Titani ad opera degli Dei Olimpici usurpatori, puntualmente ha rialzato la testa con i propri emissari di turno (Zeus, Dioniso, Amenofis IV°, meglio noto come Akhenaton, Mosé, Gesù Cristo, fino ad arrivare al profeta dell’Islam Muhammad), operando incessantemente nella direzione di una sottomissione dell’umanità e di un ottenebramento delle coscienze, con un obiettivo non solo finalizzato al mero dominio o potere politico, ma anche e soprattutto al voler impedire che l’umanità si riappropriasse di quel fuoco restituitole un tempo da Prometeo, che mangiasse il frutto proibito dell’Albero della Conoscenza, prendendo così piena consapevolezza di sé e di quella parte titanica che è naturalmente insita in ogni uomo e in ogni donna e che attende solo di essere risvegliata.
Il grande Arturo Reghini, come abbiamo visto, aveva ben compreso e denunciato l’assoluta estraneità del Cristianesimo, con le sue radici ebraico-orientali, dall’alveo della più pura Tradizione Occidentale, ma se non si comprende a fondo la natura di questo ormai plurimillenario disegno contro-iniziatico e questo complesso quadro d’insieme, non si potrà di riflesso comprendere la natura della “matrix” in cui hanno ingabbiato l’umanità, né tantomeno potremo arrivare a capire come una dottrina nata dal messianesimo ebraico e dallo spirito di rivolta antiromano, successivamente rielaborata e ricostruita ad hoc “a tavolino” con l’abile fusione sincretica di elementi isiaci, dionisiaci, mithraisti e di altri pescati da ulteriori tradizioni, in maniera da divenire agli occhi delle fasce più deboli e ignoranti della popolazione un potenziale elemento catalizzatore di tutti i ribelli e i diseredati, abbia finito per essere imposta con la forza e con la violenza come culto unico ed esclusivo dell’Impero.
La terribile e spietata persecuzione di cui furono oggetto tutti i fedeli dei culti non cristiani, e fra essi i detentori della Conoscenza Unica e Verace (come gli Eleusini hanno sempre chiamato sé stessi), era stata annunciata già dalla Dea Demetra nel 1216 a.C., al tempo della sua incarnazione e della sua venuta in Eleusi. Così recita testualmente, secondo una traduzione in lingua Italiana del XIX° secolo, un papiro misterico Eleusino che riporta le parole della Dea: «Parola di Dumnetra: giungerà oltre dodici secoli di me dall’Asia un pesciolino, talmente minuscolo da ingoiare i popoli della bruna terra dalle vaste contrade, e sarà parola figlio di Zeus e regnerà per [censura] anni, durante i quali i figli dei Tan saranno perseguitati per causa mia, a iniziare da 1530 anni dalla mia parola».
Data la natura particolarmente enigmatica di questa profezia, e dal momento che ho avuto l’autorizzazione a pubblicarla da parte del 73° Pritan sugli Hierofanti degli Eleusini Madre, si rendono necessarie ai profani alcune spiegazioni.
Si tratta, in assoluto, dell’unico testo misterico eleusino noto che faccia esplicitamente riferimento alla figura del Cristo e alla religione che nel suo nome è stata diffusa e infine imposta nei territori dell’Impero Romano. La Dea si riferisce al Cristo in maniera simbolico-allegorica chiamandolo “pesciolino”, e utilizzando così una delle prime simbologie distintive dei seguaci del nuovo culto. Il termine ichthýs, infatti, è la traslitterazione in caratteri latini della parola greca Ἰχθύς, “pesce”, e rappresenta uno dei simboli di riconoscimento usati dai Cristiani delle origini, soprattutto durante gli anni delle loro persecuzioni. Propriamente, infatti, si definisce ichthýs il simbolo di un pesce stilizzato, formato da due curve che partono da uno stesso punto, a sinistra (rappresentante la “testa”), e che si incrociano quindi sulla destra (rappresentando la “coda”).
L’ichthýs veniva presumibilmente utilizzato dai Cristiani come segno di riconoscimento: quando uno di essi incontrava per strada uno sconosciuto di cui aveva bisogno di conoscere la lealtà, tracciava sulla sabbia uno degli archi che compongono la figura. Se l’altro completava il segno, i due individui si riconoscevano come seguaci del Cristo e sapevano di potersi fidare l’uno dell’altro.
Le prime comunità cristiane adottarono questo simbolo probabilmente per rievocare il brano evangelico in cui Gesù si rivolge a Simone dicendogli «μή φοβού ἀπὸ τοῦ νῦν ἀνθρώπους ἔσῃ ζωγρῶν» («Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini»)¹⁶. E, come rivela Agostino d’Ippona in La città di Dio, il termine greco Ἰχθύς è a sua volta l’acronimo delle parole ‘Ιησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ (Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.
La Dea Demetra menziona quindi, allegoricamente, il Cristo come un “pesciolino” apparentemente inoffensivo, ma che si rivelerà invece capace di «ingoiare i popoli della bruna terra dalle vaste contrade», vale a dire di convertire e sottomettere ai suoi dettami interi popoli della terra. Come in effetti sarebbe accaduto a partire dall’occupazione, da parte dei Cristiani, con Costantino e Licinio, dei vertici politici dell’Impero.
Altro particolare importante, nel messaggio della Dea, è che il Cristo sarà figlio di Zeus e divulgatore della sua parola, del suo verbo. Vale a dire l’ennesima espressione, seppur sotto mentite spoglie, di quella cultura e religiosità avversa all’Eleusinità e agli antichi Dei Titani ai quali quest’ultima si rivolge. La Dea fa poi un riferimento alla durata temporale del nuovo culto del “pesciolino”, indicando esattamente per quanti secoli esso regnerà, secoli durante i quali «i figli dei Tan» (dei