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I promessi sposi è un celebre romanzo storico di Alessandro Manzoni, ritenuto il più famoso e il più letto tra quelli scritti in lingua italiana. Preceduto dal Fermo e Lucia, spesso considerato romanzo a sé, fu pubblicato in una prima versione nel 1827 (detta "ventisettana"); rivisto in seguito dallo stesso autore, soprattutto nel linguaggio, fu ripubblicato nella versione definitiva fra il 1840 e il 1842 (detta "quarantana"). Ambientato tra 1628 e il 1630 in Lombardia durante il dominio spagnolo, fu il primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana. Il romanzo si basa su una rigorosa ricerca storica e gli episodi del XVII secolo, come ad esempio le vicende della monaca di Monza (Marianna de Leyva y Marino) e la Grande Peste del 1629–1631, si fondano su documenti d'archivio e cronache dell'epoca. Il romanzo di Manzoni viene considerato non solo una pietra miliare della letteratura italiana - in quanto è il primo romanzo moderno di questa tradizione letteraria - ma anche un passaggio fondamentale nella nascita stessa della lingua italiana.
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INDICE
I Promessi Sposi
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
INDICE DEI CAPITOLI
INTRODUZIONE
CAPITOLO PRIMO.
CAPITOLO II.
CAPITOLO III.
CAPITOLO IV.
CAPITOLO V.
CAPITOLO VI.
CAPITOLO VII.
CAPITOLO VIII.
CAPITOLO IX.
CAPITOLO X.
CAPITOLO XI.
CAPITOLO XII.
CAPITOLO XIII.
CAPITOLO XIV.
CAPITOLO XV.
CAPITOLO XVI.
CAPITOLO XVII.
CAPITOLO XVIII.
CAPITOLO XIX.
CAPITOLO XX.
CAPITOLO XXI.
CAPITOLO XXII.
CAPITOLO XXIII.
CAPITOLO XXIV.
CAPITOLO XXV.
CAPITOLO XXVI.
CAPITOLO XXVII.
CAPITOLO XXVIII.
CAPITOLO XXIX.
CAPITOLO XXX.
CAPITOLO XXXI.
CAPITOLO XXXII.
CAPITOLO XXXIII.
CAPITOLO XXXIV.
CAPITOLO XXXV.
CAPITOLO XXXVI.
CAPITOLO XXXVII.
CAPITOLO XXXVIII.
STORIA MILANESE DEL SECOLO XVIISCOPERTA E RIFATTA DAAlessandro Manzoni
Illustrati con 40 tavole tratte da disegni originali di GAETANO PREVIATI
E PRECEDUTI DA UNO STUDIOSU GLI ANNI DI NOVIZIATO POETICO DEL MANZONI DIMICHELE SCHERILLO
I PROMESSI SPOSI
Alessandro Manzoni
Chiudendo il Discorso che prepose alla ristampa, per la Biblioteca Italiana del Le Monnier, dei Versi e delle Prose del Parini (1846), Giuseppe Giusti scriveva: «Così la Lombardia perdè il suo poeta; e non poteva cadere in mente, ai cittadini che lo piangevano, di consolarsene col caro aspetto d'un fanciullo di tredici anni che era allora in Milano, e che di lì a poco fu quell'uomo che tutti sanno. Dico di te, Alessandro mio; nè mi sarà imputato a vanità se ti rendo l'onore che t'è dovuto, con quella amorosa dimestichezza che volesti concedermi, della quale mi sento nell'animo un'alta compiacenza, temperata di rispetto e di gratitudine».
Nato a Milano, sul Naviglio di San Damiano—dalle parti dell'antico corso di Porta Orientale—, il 7 marzo 1785, da Pietro Manzoni, di nobile famiglia originaria di Barzio nella Valsassina in territorio di Lecco, e da Giulia, la giovane figliuola primogenita di Cesare Beccaria, il bambino Alessandro era stato mandato a respirare le prime aure vitali in un casolare a poca distanza dalla villa paterna del Caleotto, a Castello sopra Lecco. Il magnifico, vario, tenero paesaggio della mirabile costiera orientale di quell'ultima parte del «ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno»; lo spettacolo superbo di quei «monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo», di quelle «cime inuguali», di quelle «ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti»; l'armonia soave dell'Adda e dei torrenti scroscianti: riempirono l'occhio e l'orecchio di quel bambino, che lì appunto, in quell'angolo remoto e quasi segregato dal resto del mondo, avrebbe, nella balda virilità, immaginata la scena del Romanzo immortale. Anche lui, brianzuolo d'adozione, avrà allora imparato, in quei vergini anni, a distinguere di quei torrenti «lo scroscio, come il suono delle voci domestiche»; e le cime di quei monti si saranno allora impresse pur nella sua mente, «non meno che l'aspetto dei suoi più familiari».
Come non ripensare al Parini, e ai «colli beati e placidi» che cingono il vago Eupili, un po' più là, verso occidente, dietro i Corni di Canzo,
Alta di monti schiena, Cui sormontar non vale Borea con rigid'ale,
quando, nel Romanzo, ascoltiamo l'inno di nostalgia traboccante dall'anima dello scrittore; che sente battere all'unisono il suo col cuore della cara contadina d'Acquate, fiorente di «quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo»; che divide con Renzo la tenera commozione del riudire di tra il fogliame delle alte macchie di pruni, di quercioli, di marruche, la materna voce dell'Adda? «Oh beato terreno», «colli ameni», «clima innocente», aura
Rotta e purgata sempre Da venti fuggitivi E da limpidi rivi!
Oh «beata gente, vegeta e robusta»,
E i baldanzosi fianchi De le ardite villane; E il bel volto giocondo Fra il bruno e il rubicondo!
Oh l'inebriante profumo del timo, del croco, della menta selvaggia! Il solenne spettacolo del lago, giacente, nella notte senza vento, liscio e piano, così che parrebbe immobile «se non fosse il tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchia di mezzo al cielo»; e il sordo rumore del «fiotto morto e lento» che si frange sulle ghiaie del lido, e «il gorgoglío più lontano dell'acqua rotta tra le pile del ponte!».... E lo spettacolo, egualmente solenne, dei monti e del «paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grandi ombre», dove l'occhio esercitato sa distinguere i villaggi, le case, le capanne!... «Quanto è tristo il passo di chi», cresciuto fra tali incanti di natura, in tanta pace d'idillio, «se ne allontana!... Quanto più s'avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro».
Di sei anni, Alessandro fu affidato ai padri Somaschi del collegio di Morate: un ridente paese anche questo, in collina, a poca distanza dall'Adda; ma vi manca il lago, e i monti son lontani. Nell'aprile del 1796 mutò collegio, e fu rinchiuso in quel di Lugano; dove insegnava il padre Soave, un instancabile imbastitore di libri scolastici d'ogni genere e novellatore a tempo perso. Il Manzoni non lo ebbe effettivamente a maestro che un giorno solo, in luogo del professore di matematica, infermo; pure, da vecchio narrava: «Io volevo bene al padre Soave, e mi pareva di vedergli intorno al capo un'aureola di gloria[1]». Agli altri padri però non gli riusciva davvero di voler bene: eran tutti un po' maneschi, screanzati, ignoranti, venali. Che noia e che stizza vedersi costretto a quella educazione collegialesca e fratesca; a quegli studi tutto meccanici, arretrati, insipidi! Ed egli s'atteggiava a ribelle.
...............Nodrito In sozzo ovil di mercenario armento, Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto De l'insipida stoppia, il viso torsi Da la fetente mangiatoia; e franco M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Si sente aria di temporale; e si capisce che anche nel collegio di Merate e in quel di Lugano era penetrato di contrabbando qualche volumetto del Rousseau o qualche volume dell'Alfieri. A buon conto, quel giovanotto era nipote di Cesare Beccaria, e pel grande nonno aveva imparato dalla madre ad avere una venerazione oltre che filiale. Non lo aveva visto che una volta sola: la signora Giulia lo aveva condotto nella casa di via Brera, prima di metterlo in collegio. E il marchese, che non avrà certo indovinato in quel bambino il più insigne scrittore del secolo prossimo a cominciare, s'era accostato a un armadio, per prendere dei cioccolatini e donarglieli. Non ricordava se non questo solo aneddoto, il Manzoni, ma si sentiva fiero del cognome materno. Da giovanotto, nelle lettere agli amici o già compagni di collegio, si compiaceva di aggiungerlo al paterno.
Anzichè, dunque, mortificar il suo spirito in quegli esercizi facchineschi di memoria, il giovanetto si chiudeva, quando nessuno avrebbe potuto impedirglielo, in una stanza remota, e lì leggeva i suoi poeti o invocava per suo conto la Musa. Per buona fortuna, un di quei Padri, più umano cultore delle lettere umane, «invece di darmi le busse come i Prefetti»—narrava il Manzoni,—«vedendo questa mia facilità a compor versi, mi dava le chicche». Un giorno, soggiungeva, «sento bussare all'uscio dai miei compagni, che mi dicono: Apri, camerata; vieni fuori, che abbiamo stabilito di tagliarci le code. Io dapprima risposi: Lasciatemi star quieto. Ma poi ho ceduto, ho aperto, e mi sono lasciato tagliare il codino. È stato un gran delitto, perchè era segno d'idee liberali; e molti anni dopo, morto mio padre, tra le sue lettere ne ho trovata una del Padre rettore del mio Collegio, la quale diceva: «Questa volta la camerata dei mezzanelli me ne ha fatta una di grossa: si son tagliate le code! E quello che più mi dispiace si è di doverle dire, signor Manzoni, che suo figlio è stato uno dei caporioni[2]».—Un altro giorno, dell'agosto (1799), mentre usciva dal solitario ripostiglio, dove era stato a quattr'occhi con la Musa e le aveva recitata a voce alta La caduta pariniana, s'incontrò in un compagno che gli diede la notizia, giunta fresca fresca da Milano, che il Parini era morto. Ne ebbi, ricordava da vecchio il poeta, «una delle più forti e dolorose impressioni della mia vita[3]».
Il Parini, l'abate, il professor Parini: oh questi sì ch'era «scola e palestra di virtù»! Peccato non averlo potuto neanche una volta veder di persona, l'austero vate della cara Brianza, degno, per le sue virtù cittadine e l'alto ideale dell'arte, di stare accanto al fiero Allobrogo,
......che ne le reggie primo L'orma stampò de l'italo coturno; E l'aureo manto lacerato ai grandi, Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili!
E invece, uscito dalle mani di quei Somaschi luganesi, il piccolo ribelle era cascato, alla fine dello stesso anno, in quelle, che non pare sapessero star meglio a posto, dei Barnabiti, che allora tenevano, qui in Milano, il collegio dei Nobili, poi detto Longone, sul Naviglio di Porta Nuova (a pochi passi da quella piazza di San Marco e da quel ponte Marcellino, che aveva traversato, in mezzo alla desolazione della peste, il povero Renzo). Vedendosi «discepolo di tale» cui gli sarebbe parso vergogna esser maestro, egli si volse «ai prischi sommi»;
........o ne fui preso Di tanto amor, che mi parea vederli Veracemente, e ragionar con loro.
E, insieme coi prischi, i sommi moderni, che ad essi s'erano ispirati, e ne continuavano l'opera magnanima col «chiaro esemplo» e con le «veraci carte». Quale e quanto «sdegno», invece, per quei «mille» che usurpavano «il nome che più dura e più onora», portando «in Pindo l'immondizia del trivio, e l'arroganza, e i vizii lor!»
Il Parini era morto, e l'Alfieri «errava muto ov'Arno è più deserto», avendo «sul volto il pallor della morte e la speranza». Rimaneva il Monti; la cui Basvilliana era stata, per mano del boia e per la boriosa insania dei demagoghi, bruciata nella piazza del Duomo. Il giovanotto Manzoni, come farà qualche anno dopo il giovanetto Leopardi, prese a venerarlo.
Il Monti frequentava, con Pietro Verri ed altri egregi, la casa di don Pietro Manzoni; e dicono che un giorno il poeta già celebre andasse a visitare, nel collegio milanese, il novizio che moveva i primi passi. Ad ogni modo, la benevolenza dimostratagli in quei primi passi, rese poi sempre assai indulgente il caposcuola dei romantici italiani verso l'ultimo paladino del classicismo. Riconosceva, sì, con l'usato acume, come al poeta ferrarese mancasse l'arte di sottintendere incitando così la fantasia dei lettori: «aveva bisogno di dir tutto», osservava. Ne ricordava la senile vanità d'infliggere ai visitatori della sua casa la recitazione dei «versi che aveva composti nel giorno», aspettando che glieli lodassero. Ma, povero vecchio, gli voleva bene! Una volta gli manifestò l'intenzione di voler dedicare alla Giulia—la primogenita del Manzoni: «une Juliette», scriveva questi al Fauriel nell'estate del 1819, «dont vous verrez que tout le sérieux se trouve dans le portrait»—la Feroniade. «Oh povera Giulia!», esclamò il Manzoni; «lasciala nella sua oscurità!»—E a proposito della volubilità del pensiero politico dell'autore dei poemetti rivoluzionarii, di quelli napoleonici, e del Ritorno d'Astrea, il Manzoni narrava ai suoi intimi quest'aneddoto. Il Monti «aveva fatto un'istanza all'imperatore Francesco, perchè gli continuasse la pensione che gli aveva assegnata Napoleone; ma di lì a qualche mese se la vide tornar indietro, ed a tergo era scritto, di proprio carattere dell'imperatore: Si rimanda inesaudita la presente istanza, perchè, dalle informazioni prese, questo individuo disse sempre bene di tutti i governi che vi furono nel suo paese». Il povero Monti ingoiò amaro. «E quando, sul finire della sua vita, io andai a trovarlo a Monza, dove allora soggiornava infermiccio, egli mi parlò della sua speranza nella misericordia di Dio; e io gli dissi: Senti, Monti; quello che a te deve aprire le porte del Cielo, è lo smettere quell'odio che porti all'imperatore Francesco[4]».
Alessandro Manzoni a 17 anni.—Disegno del pittore Bordiga.
Ma a quindici anni, quando non si è ancora abbastanza esperti «del mondo e degli vizii umani e del valore» e si pretende invece d'insegnare agli altri, non si peritava, nelle note al poemetto in terzine Il trionfo della Libertà, di chiamarlo «il più gran poeta dei nostri tempi». È vero che più tardi s'affrettò a correggere: «un gran poeta dei nostri tempi»; ma non corresse, in quelle note medesime, l'altra espressione: «il grande emulatore» di Dante. E non lo avrebbe, anche volendo, potuto; giacchè nel testo del poemetto stesso aveva affermato che non solo l'emulo raggiungeva l'atleta, ma talora l'avanzava! Si capisce che fin d'allora la mente del Manzoni—che, in fatto di giudizi letterarii, ebbe sempre i suoi capricci—veniva cedendo alle seduzioni di quel bizzarro ravvicinamento del poeta cuor di leone col rimatore cuor di coniglio, che lo trascinò poi a quell'infelice e ingiustificabile epigramma che tutti ricordano, di parecchi anni dopo[5].
Quel poemetto—che ha bensì titolo e metro, e qua e là, immaginazioni petrarchesche, ma si chiarisce subito esemplato sulla Basvilliana e sulla Mascheroniana, ricordate pur nelle note—si chiude anzi con un inno baldo e generoso al cigno di Ferrara.
O Pïeride Dea,.................
Tu l'ali impenni al Ferrarese ingegno, Tu co' tuoi divi carmi il vizio fiedi, E volgi l'alme a glorïoso segno.
Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi Fai de' tuoi carmi, e trapassando pungi La vil ciurmaglia che ti striscia ai piedi.
Tu il gran cantor di Beätrice aggiungi, E l'avanzi talor; d'invidia piene Ti rimiran le felle alme da lungi,
Che non bagnar le labbia in Ippocrene, Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne, Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne De l'arte sacra! Augei palustri e bassi; Cigni non già, ma corvi da carogne.
Ma tu l'invida turba addietro lassi, E le robuste penne ergendo come Aquila altera, li compiangi e passi.
Invano atro velen sopra il tuo nome Sparge l'Invidia, al proprio danno industre, Da le inquiete sibilanti chiome.
Ed io puranco, ed io Vate trilustre, Io ti seguo da lungo, e il tuo gran lume A me fo scorta no l'arringo illustre.
E te veggendo su l'erto cacume Ascender di Parnaso, alma spedita, Già sento al volo mio crescer le piume.
Meno enfatici, di fattura più schiettamente neoclassica, sono gli altri versi che tre anni dopo, il 15 settembre 1803, il poeta diciottenne dirigeva al tanto ammirato «canoro spirto». Parla l'Adda, «diva di fonte umil», e invita l'illustre «nato a le grandi de l'Eridano sponde» a venire per qualche giorno agli «ameni cheti recessi» e alle «tacite ombre» della villa del Galeotto. Essa non può vantare «pompa d'infinito flutto o di abitati pin»;
Ma verdi colli e biancheggianti ville E lieti colti in mio cammin vagheggio, E tenaci boscaglie a cui commisi, Contro i villani d'Aquilone insulti, Servar la pace del mio picciol regno, E con Febo alternar l'ombre salubri.
È mite e amabile, l'Adda; e non si diletta di «rapir l'ostello e i lavorati campi» agl'industri villani,
nè udir le preci Inesaudite e gl'imprecanti voti De le madri che seguono da lungo Con l'umid'occhio o con le strida il caro Fan destinato a la lame de' figli, E la sacra dimora e il dolce letto. Sol talor godo con l'innocua mano Piegar l'erbe cedenti, e da le rive Sveller fioretti per ornarmi il seno E le trecce stillanti.
Umile sì; pure, «con l'irta alga natía» le splende in fronte il lauro.
................Salve, Vocal colle Eupilino: a te mai sempre Rida Bacco vermiglio o Cerer bionda; Salve, onor di mia riva! A te sovente Scendean Febo e le Muse eliconìadi, Scordato il rezzo de l'Ascrea fontana. Quivi sovente il buon cantor vid'io Venir trattando con la man secura Il plettro di Venosa e il suo flagello; O, traendo l'inerte fianco a stento, Invocar la salute e la ritrosa Erato bella; che di lui temea L'irato ciglio e il satiresco ghigno, Ma alfin seguìalo e su le tempie antiche Fea di sua mano rinverdire il mirto. Qui spesso udíilo rammentar piangendo, Come si fa di cosa amata e tolta, Il dolce tempo de la prima etade, O de' potenti maledir l'orgoglio, Come il genio natio movèalo al canto E l'indomata gioventù de l'alma. Or tace il plettro arguto; e ne' miei boschi È silenzio ed orror!
Chi non ricorda il leggiadro episodio della Mascheroniana (1801; canto IV), in cui l'ombra di Pietro Verri, alla vista dei «placidi colli felici»,
Che con dolce pendio cingon le liete Dell'Eupili lagune irrigataci,
esclama:
Salvete, Piagge diletto al Ciel, che al mio Parini Foste cortesi di vostr'ombre quete,
Quando ei, fabbro di numeri divini, L'acre bile fe' dolce, e la vestia Di tebani concenti e venosini?
Invano il futuro narratore dei Promessi sposi cercava, in quei cari luoghi, di risentire la cara voce del poeta eupilino: «le commosse reliquie sotto la terra argute sibilar»; il «plettro arguto» taceva, e negli amati boschi fiancheggianti l'Adda era «silenzio ed orror».Venga dunque lui, il Ferrarese, «a risvegliar, col canto, novo romor Cirreo»:
............A te concesse Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi E le immagini e l'estro e il furor sacro E l'estasi soavi e l'auree voci Già di sua man rinchiuse.
Anche a lui adolescente Euterpe aveva fatto qualche carezza:
Me dalla palla spesso e dalle noci Chiamava Euterpe al pollice percosso Undici volte.
E appunto, in uno di quei momenti in cui si sentì infiammato dal «furor sacro» o «furor santo» che quella Musa suol destare nel seno de' suoi devoti, il Manzoni scrisse il poemetto, di titolo e forma petrarchesca, Il trionfo della Libertà. Il 20 piovoso, o, per parlare un linguaggio meno repubblicano, il 9 febbraio 1801, era stata firmata la pace di Luneville. Insieme con tutto il mondo liberale, applaudì anche il quindicenne Manzoni, scrivendo quel poemetto. V'inneggia all'aurora d'un'êra novella: son finite le guerre, la Superstizione è stata finalmente sbandita dal mondo, la Libertà procede trionfatrice.
Coronata, di rose e di vïole, Scendea di Giano a rinserrar le porte La bella Pace pel cammin del Sole;
E le spade stringea d'aspre ritorte, E cancellava con l'orme divine I luridi vestigi de la Morte;
E la canizie de le pigre brine Scotean dal dorso, e de le verdi chiome Si rivestian le valli e le colline....
Son mosse e colori montiani. Il novizio cerca la sua forma, ma per ora non sa che calcar le orme altrui. Il modello prossimo è la Mascheroniana; ma ogni tanto spunta il ricordo pur della Basvilliana o degli altri poemetti del fecondo e facondo Ferrarese. La dea Libertà v'è raffigurata
Umilemente altera, ed il decenne Berretto il crine affrena;
com'è appunto nel Pericolo:
E di Bruto l'insegna è il suo cappello.
E oltre alla forma in generale, e ai tanti particolari d'invenzione e di stile, è montiana perfino l'idea prima, di celebrare in versi quella pace, e di celebrarla a guisa d'un Trionfo. Non so che altri ci abbia pensato; e, per esempio, il Petrocchi non ha rammentato, su quell'avvenimento, se non una lirica del Ceroni. Altro che Ceroni! Quella pace fu cantata dal Monti in persona, in un'ode a strofi saffiche (il metro della pariniana Alla Musa), che ha ispirazione moderna e gusto classico. Di sotto alla patina caduca del frasario mitologico e alle incrostazioni parassitarie della rettorica giacobina, quanta freschezza di sentimento in quest'ode, che fa non a caso ripensare ai Cori manzoniani e a taluna delle più belle poesie del Carducci!
Voi che dell'armi al suono impaurite Pace invocaste su le patrie arene, Tenere madri, ardenti spose, uscite:
La dea già viene.
De' suoi bianchi corsieri odo il nitrito, Sotto l'asse tremar sento la riva. Fuori uscite: ogni pianto è già finito:
Ecco la diva.
Lungi il loto, o fanciulle, ed il narciso, Ch'ella non ama delle Parche i fiori: Date rose e mortelle, e al fiordaliso
Misti gli allori....
Alate strofette; che fan meglio comprendere il paterno compiacimento del provetto poeta, quando, nel lodare i primi tentativi dell'amato novizio, gli scriveva: «I versi che m'hai mandati son belli: io li trovo respiranti quel molle atque facetum virgiliano, che a pochi dettano gaudentes rure camoenae.....; e se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po' più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali».
Quanto a sentimento e impeto patriottico, il figliuolo della Giulia Beccarla non aveva certo bisogno che altri venisse ad insegnarglieli: le idee nuove ed innovatrici, e le dottrine umanitarie e sociali che avevano scosso e scotevano l'antico assetto, eran roba di casa. Il fiero imberbe dubita persino che l'uomo abbia un'anima (c. I):
........s'egli è ver che in noi s'annidi Parte miglior che de le membra è donna;
e ha sobbalzi e scatti d'un paganesimo così vivace, da fare al libire l'autore degl'Inni e della Morale cattolica (c. II):
Che il celibe Levita ti governa Con le venali chiavi, ond'ei si vanta Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati: oh casta, oh santa Turba di Lupi mansueti in mostra, Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta!
E il popol reverente a lor si prostra In vile atto sommesso, e quasi Dii Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Questi i diletti de l'Eterno sono? Questi i ministri del divin volere? E questi è un Dio di pace e di perdono?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
O degenere figlia di Quirino, Che i tuoi prodi oblïando, al Galileo Cedesti i fasci del valor latino!
Codeste note antipapali e peggio avevano nutrita e infiammata la letteratura transalpina e cisalpina di prima e dopo la Rivoluzione, dal Voltaire all'Alfieri, dal Montesquieu al Monti. E con quella letteratura il Manzoni era più che affiatato. Il Foscolo, che lo conobbe di quegli anni appunto, lo proclamava «nato alle lettere e caldo d'amor patrio».Ma certi bollori tra giacobini e tribunizii, gorgoglianti qua e colà nel poemetto, tradiscono un fuoco che non è nativo. Sta bene che, negli anni più maturi, il Manzoni dichiari d'avere scritto quei versi «nell'anno quindicesimo» dell'età sua, «non senza compiacenza e presunzione di nome di poeta», e di rifiutarli perchè troppo primaticci; «ma», soggiungeva, «veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei». Ripudiava i versi, «come follia di giovanile ingegno»; legittimava i sentimenti, «come dote di puro e virile animo». Oh, non tutti i sentimenti! Questo, per esempio, che ha suggerito di raffigurare la Libertà con le mani tutte e due ingombre: la destra dal brando, la sinistra dalla scure che troncò il capo di re Luigi (c. I):
Stringe la manca la fatal bipenne, E l'altra il brando scotitor de' troni....
(imitazione un po' goffa della figurazione montiana, dei due Cherubini sospesi su le penne, ai fianchi del trono dell'Eterno: «Quegli d'olivo un ramoscel tenea, Questi un brando rovente»; nella Mascheroniana, c. II). O quest'altro, che ha consigliato di rappresentar così la Giustizia:
Quinci è Colei, che del comun diritto Vindice, a l'ima plebe i grandi agguaglia, Sol disuguai per merto o per delitto;
E se vede che un capo in alto saglia, E sdegni assoggettarsi a la sua libra, Alza la scure adeguatrice, e taglia.
Giustizia da Marat, codesta, non da un nipote di Cesare Beccaria!
Dichiarazione premessa al manoscritto del «Trionfo della Libertà».
Tuttavia, la maggior parte del poemetto è tale che s'intende come fin l'autore del Romanzo non potesse che compiacersene. E l'apostrofe alla regione nativa, nel canto IV, pur con tutti gli spunti e pariniani e alfieriani e montiani che vi si potrebbero additare, è già schiettamente manzoniana. Chi non lo sa? La bella utopia repubblicana, classicamente drappeggiata, che era valsa a commuovere, negli anni più propensi all'entusiasmo, poeti e pensatori, dal Montesquieu all'Alfieri, e per un momento anche l'austero cantore del Giorno, non aveva, tradotta dal regno dei sogni in quello della realtà, nulla mantenuto delle sue rosee promesse. A una tirannia decrepita e slombata, se n'era sostituita un'altra, incomposta, intraprendente, procacciante, audace, volgare, perchè d'una moltitudine impreparata, inesperta, incapace, e avida di saziarsi e d'inebriarsi di quei vizi medesimi dei quali era stata fin allora spettatrice e biasimatrice invidiosa. Il Parini n'era morto corrucciato; e Vittorio Alfieri faceva, in quegli ultimi inoperosi anni della sua vita già tanto agitata, «dolce l'ira sua nel suo segreto», preparando agl'Italiani, nel Misogallo, il suo testamento politico.
Il Manzoni insorge, legittimo erede dell'onesto brianzuolo e dell'allobrogo feroce (c. IV).
Ma tu, misera Insubria, d'un tiranno Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille. Ahi che d'uno passasti in altro affanno!
Gentili masnadieri in le tue ville Succedettero ai fieri, e a genti estrane Son le tue voglie e le tue forze ancille.
Langue il popol per fame, e grida: Pane! E in gozzoviglia stansi o in esultanza Le Frini e i Duci[6]; turba che di vane
Larve di fasto gonfia e di burbanza, Spregia il volgo onde nacque e a cui comanda, A piena bocca sclamando: Eguaglianza!
Il volgo, che i delitti e la nefanda Vita vedendo, le prime catene Sospira, e 'l suo tiranno al ciel domanda.
De l'inope e del ricco entro le vene Succhian l'adipe e 'l sangue; onde Parigi Tanto s'ingrassa, e le midolle ha piene.
E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi Strisciangli intorno in atto umile e chino.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tal pasce il volgo di sonanti fole; Vile! e di patrio amor par tutto accenso, E liberai non è che di parole....
Vedi quei che sua gloria nei concinni Capei ripone. Oh generosi spirti, Degni del giogo estranio e de' cachinni!
Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti Risveglia alfine, e da l'olente chioma Getta sdegnosa gli Acidalii mirti.
Ve' come t'hanno sottomessa e doma Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi La Tirannia che Libertà si noma.
Mira le membra illividite, e i tuoi Antichi lacci; l'armi appresta, Sorgi, ed emula in campo i Franchi eroi.
E a l'elmo antico la dimessa cresta Rimetti, e accendi i neghittosi cori, E stringi l'asta ai regnator funesta.
Come destrier, che fra l'erbette e i fiori Placido, in diuturno ozio recuba Sol meditando vergognosi amori,
Scote nitrendo la nitente giuba Se il torpido a ferirlo orecchio giugno Cupo clangor di bellicosa tuba,
E stimol fiero di gloria lo pugne, Drizza il capo, e l'orecchio al suono inchina, E l'indegno terren scalpe con l'ugne;
Contra i Tiranni sol la cittadina Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso Che fosti serva ed or sarai reina.
I Tiranni! L'odio tirannicida era di legato alfieriano. Oh perchè tarda a sorgere un novello Bruto, il quale liberi il mondo dalla turpe e feroce Austriaca, tigre regale, che trucidò, al cospetto del divino golfo di Napoli, l'ammiraglio Caracciolo, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Ettore Carafa!
Ahi di Tiranni ria semenza iniqua, De gli uomini nimica e di natura, Or hai pur spenta l'empia sete antiqua!
Gonfia di sangue la corrente e impura Portò l'umil Sebeto, e de la cruda Novella Tebe flagellò le mura.
Tigre inumana di pietade ignuda, Tu sopravvivi a' tuoi delitti? Un Bruto Dov'è? Chi il ferro a trucidarti snuda?
Muoia, perdio, «l'empia tiranna»!
E disperata mora, e a' suoi singulti Non sia che cor s'intenerisca o pieghi, E agli strazii perdoni ed agli insulti,
O dal ciel pace a l'empia spoglia preghi; Ma l'universo al suo morir tripudi, E poca polve a l'ossa infami neghi.
Ricalcati su modelli alfieriani sono altresì i due sonetti del 1801: quello dove il Manzoni ritrae sè stesso; e l'altro, A Francesco Lomonaco, che si chiude con le famose terzine:
Tal premii, Italia, i tuoi migliori, e poi Che prò se piangi e 'l cener freddo adori, E al nome voto onor divini fai?
Sì da' barbari oppressa, opprimi i tuoi, E ognor tuoi danni e tue colpe deplori, Pentita sempre e non cangiata mai.
Quest'ultimo sonetto fu il primo componimento che dal Manzoni fosse pubblicato.
Tuttavia, il poetino
Giovin d'anni e di senno, non audace, Duro di modi ma di cor gentile,
s'avvide, o credette d'avvedersi, che Euterpe non era sincera con lui, e la piantò in asso. In cose d'amore, diceva da vecchio, sont staa semper un imbrojàa! E si lasciò sedurre dal «sospiro» di Erato.
Par proprio di quel tempo l'Ode, squillante di armonie pariniane, che comincia Qual su le cinzie cime. Al poeta giovinetto fu forse ispirata dall'«angelica» fanciulla, della quale confessava d'essersi invaghito «con fortissima e purissima passione» nel 1801, e soggiungeva d'aver rivista a Genova sei anni dopo[7]. Non ancora, vi dichiara, gli occhi suoi erano «dolci»—«dotti», corresse in un'altra copia—«d'amorose lagrime»; e gli occhi di lei, «vincendo di splendor l'emule Vergini», gli si rivolsero «dolcemente gravi». E come «soave» era quella voce!—Non so se anche il «parlar» di costei, «eletto e nitido», cadesse
come di limpide Acque lungo il pendio lene rumor;
ma chi non risente la grata fragranza catulliana delle odi Il pericolo e Il messaggio, in queste alate strofette, leggiadramente intessute di settenari e d'endecasillabi, e rese più agili dagli sdruccioli non frenati da rime?
Da gl'innocenti sguardi Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano, Escono accesi dardi, Non certi men nè di più leve incendio Se dal fronte scendendo il crine avaro Dolce fa lor riparo:
Non altrimenti in cielo Febo sorgendo, di dorate nuvole A' suoi splender fa velo, Che vincitor superbi indi sfavillano, E la terra soggetta in suo viaggio Tinge di dubbio raggio.
Oh qual tutta di nove Fatali grazie ride allor che l'invido Crin col dito rimove, E doppio appresta di beltà spettacolo Sul picciol fronte trascorrendo lieve Con la destra di neve!
Il poeta è stato assalito dal «fanciulletto Idalio», mentre
per le fiorenti Ascree piagge scorrea, lungo le Aonie Secrete acque;
e non gli valsero a difesa «gli aspri precetti di Zenon».
Nè vuol ch'io canti, rossa Di sangue, Italia; onde ancor pochi godono; Nè di plebe commossa Le feroci vendette, ed i terribili Brevi furori, e i rovesciati scanni De' tremanti Tiranni.
Celebrerà dunque Venere, traente «da' gorghi del paterno Oceano Le rugiadose chiome»,
E il Zeffiro lascivo Che ne le zone de le incaute vergini Scherzar gode furtivo, Onde audaci i pastor maligni ridono, E a lor la guancia bella e vergognosa Tinge virginea rosa.
Ma il pudico poeta non ne fece poi più nulla. E si lasciò invescare dall'«amaro ghigno» di quella Musa, che aveva pur allora perduto il principale suo «sacerdote» nel Parini: da Talia.
Nell'ottobre del 1803, in compagnia d'un suo zio paterno e di due altre famiglie milanesi, i Draghi e i Tordarò, era andato a Venezia; dove rimase circa un anno. Che grata impressione ricevette da «quei palazzi così stupendamente variati», da quel dialetto, che è, diceva, «un così felice miscuglio di tronchi, piani e sdruccioli»! (Cara invidia per chi, negli Inni e nell'Ode, avrebbe poi adottati i metri pariniani!). Lo zio e gli altri due, fautori e impiegati dell'Austria, vi erano mal visti; «e siccome Tordarò era brutto bene, i Veneziani fecero quel verso: Due di bestie hanno il nome, un la figura». Ma, soggiungeva, «quanto a me, che fui conosciuto subito per avverso al dominio straniero, si diceva: In presenza di lui si può parlare, perchè non è dei loro». Vi conobbe molti senatori e molte gentildonne: il doge Manin, che «in quell'inverno si lasciò rubare per ben quattro volte il tabarro per via»: Francesco Pesaro, ancor dolente «d'essere stato fischiato allorquando aveva proposto in Senato di armarsi e di unirsi all'Austria contro i Francesi»; e quel Camillo Gritti, in onor del quale il Parini aveva scritto La magistratura. «Io lo trovai una sera», narrò poi il Manzoni, «in una conversazione; e, accostatomi a lui, gli dissi pieno d'entusiasmo: C'è un'ode del Parini fatta per Lei! Ed egli mi rispose che non se ne ricordava bene!» Ritornando, volle soffermarsi un giorno nella «gentil Vicenza»; ma anche qui gli occorse un caso strano. «Entrai», raccontava, «in una bottega da caffè, e uno dei signori che vi erano seduti, s'alzò e venne a me, a chiedermi se io ero nobile, perchè quello era il Caffè dei nobili. Io gli risposi che nel mio paese non c'erano più queste distinzioni; e che se fossi stato nobile prima, non lo sapevo, perchè mi pareva cosa di tanto poca importanza da non curarsene affatto»[8]. (In verità, i Manzoni erano nobili del contado, e possedettero un tempo il feudo onorifico di Moncucco nel Novarese; e quando don Pietro e il fratello canonico don Paolo vennero a stabilirsi a Milano, avevan chiesto d'essere ammessi al patriziato, ma la domanda non era stata accolta, perchè la loro famiglia non era vissuta per oltre cento anni nella città).
Nel soggiorno veneziano, nell'arguta oltre che bella città che fu patria dell'ammirato Goldoni (il Manzoni, da vecchio, esclamava: «E il Goldoni! che ingegno comico! Molière fa ridere, ma talvolta fa odiare i suoi personaggi: Goldoni fa sorridere, e li fa amare[9]») e di Gaspare Gozzi, si sentì dunque nelle grazie di Talia, e snocciolò l'uno dopo l'altro tre Sermoni, che mandava via via agli amici milanesi. Persuaso d'esser nato a far versi, preferiva oramai «notar la plebe con sermon pedestre» al celebrare con «numeri sonanti» le memorande, ma fin troppo memorate, «opre antiche d'eroi» (Serm. III). Non già per «consiglio di maligno petto»; ma
Lidia m'occorre, che di frutti estrani
Fatti e costumi Altri da quei ch'io veggio, a me ritrosa Nega esprimer Talia. Che se propongo Dir Penelope fida, e il letto intatto De l'aspettato Ulisse, ecco a la mente Feconda l'orto del marito; cui Non Ilio pertinace o il vento avverso, Ma il prego mattutino o l'affrettata Visita de l'amico o il diligente Mercurio tiene ad ingrassare il censo De l'erede non suo. L'imprese appena Tento di Cincinnato e il glorïoso Ferro alternato alla callosa destra, O i Legati di Pirro innanzi al duro Mangiator del magnanimo legume; Tosto Fulvio rammento, il qual pur jeri Villano, oggi pretor, poco si stima Minor di Giove, e spaventar mi crede Con la forzata maestà del guardo.
Difficile arte però quella del poeta, e non da sfaccendato o da distratto in altre cure. E lo sapeva bene il Parini, il «divo Parini»! (Serm. II).
Quando sull'orme dell'immenso Flacco Con italico piè correr volevi, E dei potenti maledir l'orgoglio, Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne, Al crin mentito ed a la calva nuca Facessi oltraggio[10]. Indi è che, dopo cento E cento lustri, il postero fanciullo, Con balda cantilena, al pedagogo Reciterà: Torna a fiorir la rosa.
E anche l'Alfieri lo sapeva, «primo signor de l'Italo coturno»! Ma ora, quanta e quale profluvie di «versi inetti», degna forma di «maldigesta dottrina»! Manca (mancava allora, s'intende!) il gusto della buona poesia; e invece tutti ne voglion giudicare: «o sii tu servo, O duro fabbro, o venda in su i quadrivi Castagne al volgo».
Che dirò dei teatri? . . . . . Mentre Emon si spolmona e il crudo padre Alto minaccia, e la viril sua fiamma Ad Antigone svela, o con l'armata Destra l'infame reggia e il ciclo accenna, Odi sclamar dai palchi:—Oh duri versi! Oh duro amante! Dal tuo fero labbro Un ben mio! non s'ascolta. Oh quanto meglio Megagle ad Aristea, Clelia ad Orazio!—
L'Alfieri è venuto in uggia per la sua austerità ed asprezza. Il dramma che ora piace è quello novissimo—di Francesco Albergati, di Camillo e Carlo Federici, di Giuseppe Foppa, di Giovanni de Gamerra, di Giuseppe Zanoia, di S. A. Sografi, di Giovan Gherardo de Rossi, di Giovanni Greppi, di F. A. Avelloni, di Andrea Willi—che mescola e confonde il riso colle lagrime: un mirabile mostro, il piè destro calzato di coturno, il sinistro di socco, e sul volto una maschera informe, atteggiata a un comico ghigno ma solcata da lagrime e da sangue.
Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima, Primo signor de l'italo coturno? Te, ad imparar come si faccia il verso, De gl'itali Aristarchi il popol manda. Mirabil mostro in su le ausonie scene Or giganteggia. Al destro pie' si calza L'alto coturno e l'umil socco al manco; Quindi va zoppicando; informe al volto Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno Grondan lagrime e sangue.
Che insano entusiasmo, allora, in quel principio di secolo, per simili sconcezze (ogni tempo ha le sue!)...
Allor che al denso Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti Di voci e palme un suon, che per le cave Volte rumoreggiando, i lati fianchi Scote al teatro e fa sostar per via Maravigliato il passaggier notturno.
Il poeta, nauseato d'un simile schiamazzo, si chiude coi suoi pensieri e coi suoi libri, e medita.
Io, perchè de la plebe il grido insano Non mi fieda l'orecchio, in questa cella Mi chiudo, e meco i miei pensieri, e libri Quanti coll'occhio annoverar tu possa.
Alessandro Manzoni a 20 anni.
Sennonchè, van bene Parini, Alfieri, Monti; van bene i sorrisi, un po' fuggitivi e civettuoli, di Euterpe e d'Erato, e il ghigno di Talia; ma a buon conto il novizio era quasi in sul limitare del quinto lustro, e non ancora poteva dire d'aver infilata la sua via. E quando l'ombra di Carlo Imbonati impreca contro i poetastri contemporanei:
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli Sopravvissuti, oscura e disonesta Canizie attende!
ei si fa animo, e le chiede:
Deh vogli La via segnarmi, onde toccar la cima Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta, Dicasi almen: Su l'orma propria ei giace.
E l'Imbonati—che il poeta giovanotto avea sentito largamente lodare
Di retto acuto senno, d'incolpato Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero, Non vantator di probità, ma probo;
l'Imbonati, ammiratore fervente di Vittorio Alfieri, e discepolo prima e amico poi di Giuseppe Parini, il quale per lui appunto, si badi, aveva scritto L'educazione—gli traccia un magnifico programma di vita e d'arte. Una vita nuova, che avesse per meta la virtù e fosse per ciò stesso una dura milizia «contra i perversi affratellati e molti»:
Tu, cui non piacque su la via più trita La folla urtar che dietro al piacer corre E a l'onor vano e al lucro; e de le sale Al gracchiar voto e del censito volgo Al petulante cinguettio, d'amici Ceto preponi intemerati e pochi, E la pacata compagnia di quelli Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma: Segui tua strada; e dal viril proposto Non ti partir, se sai.
E un'arte nuova, che sia la sincera e schietta espressione di quella nuova vita:
Sentir, riprese, e meditar: di poco Esser contento: da la meta mai Non torcer gli occhi, conservar la mano Pura e la mente: de le umane cose Tanto sperimentar quanto ti basti Per non curarle: non ti far mai servo: Non far tregua coi vili: il santo Vero Mai non tradir, nè proferir mai verbo Che plauda al vizio o la virtù derida.
Al Manzoni, dunque, si schiudeva finalmente la vera sua strada! Più tardi, nel 1823, volendo esporre, nella Lettera a Cesare d'Azeglio sul Romanticismo in Italia, il suo parere circa «il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico», proclamerà nettamente «che la poesia, o la letteratura in genere, debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo». E il poeta—il quale aveva già composti gl'Inni sacri e le due tragedie, e da due anni attendeva al Romanzo—determinerà che la poesia «debba per conseguenza scegliere gli argomenti pei quali la massa dei lettori ha o avrà, a misura che diverrà più colta, una disposizione di curiosità e di affezione, nata da rapporti reali, a preferenza degli argomenti pei quali una classe sola di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una riverenza non sentita nè ragionata, ma ricevuta ciecamente. E che in ogni argomento debba cercare di scuoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale, non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello, giacchè, e nell'uno e nell'altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero; è quindi temporario e accidentale. Il diletto mentale non è prodotto che dall'assentimento ad una idea; l'interesse, dalla speranza di trovare in quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e di riposo. Ora, quando un nuovo e vivo lume ci fa scuoprire in quella idea il falso, e quindi l'impossibilità che la mente vi riposi, vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l'interesse spariscono. Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere».
La nuova scuola, propugnata e seguìta, con iscritture teoriche insigni e con capolavori d'arte quali da un pezzo non s'eran più visti in Italia, dal Manzoni; quella scuola che anche presso di noi si disse Romantica, «emancipando la letteratura dalle tradizioni tecniche, disobbligandola, per così dire, da una morale voluttuosa, superba, feroce, circoscritta al tempo e improvvida anche in questa sfera, antisociale dove è patriottica, ed egoistica quando cessa d'essere ostile», tendeva certamente, e nessuno oserebbe affermare che non conseguisse il suo nobile fine, «a render meno difficile l'introdurre nella letteratura le idee e i sentimenti che dovrebbero informare ogni discorso. E dall'altra parte, proponendo, anche in termini generalissimi, il vero, l'utile, il buono, il ragionevole, concorre se non altro con le parole, che non è poco, allo scopo della religione: non la contradice almeno nei termini. Per quanto una tale azione d'un sistema letterario possa essere indiretta», non «la giudicherà indifferente» chi abbia «osservato quanto influiscano sui sentimenti religiosi i diversi modi di trattare le scienze morali, che tutte alla fine appartengono alla religione, quantunque distinzioni e classificazioni arbitrarie possano separanele in apparenza e in parole»; chi abbia «osservato come senza parere di toccare la religione, senza neppur nominarla, una scienza morale prenda una direzione opposta ad essa, pervenga a risultati che sono inconciliabili logicamente con gl'insegnamenti di essa; e come talvolta poi, avanzando o dirigendosi meglio nelle scoperte, essa stessa convinca d'errore quei risultati, e venga così a ravvicinarsi alla religione senza pur nominarla, direi quasi senza avvedersene». Della letteratura, riconsacrata col sistema romantico, doveva avvenire, ed avvenne, come d'altre scienze morali od economiche. I più recenti cultori di queste ultime, mercè «un più attento e più esteso esame dei fatti, e un ragionato cangiamento di principii», hanno scoperta «la falsità e il fanatismo» di canoni puramente filosofici e di «dottrine opposte al Vangelo»; e «sul celibato, sul lusso, su la prosperità fondata nella ruina altrui, sur altri punti pure importantissimi, hanno stabilite dottrine conformi ai precetti ed allo spirito del Vangelo». «S'io non m'inganno», concludeva il Manzoni, «quanto più quelle scienze divengono ponderate e filosofiche, tanto più esse diventano cristiane; e più ch'io considero, più mi pare che il sistema romantico tenda a produrre e abbia cominciato a produrre, nelle idee letterarie, un cangiamento dello stesso genere».
Il Manzoni s'era dunque messo baldanzosamente per la via segnatagli dall'Imbonati, e, avendo oramai quasi superata l'erta, già già toccava la cima. Sul bel cacume del dilettoso monte—paradiso terrestre della letteratura nuova d'Italia—verdeggiano di sempiterna primavera I promessi sposi.
Occorre tuttavia spendere qualche altra parola intorno al noviziato poetico del Manzoni, e soprattutto intorno a quel Carme dov'ei tracciò così nettamente il programma della vita e dell'arte sua.
Rifacciamoci un po' dall'alto. Il 12 settembre 1782 era rogata, in Milano, la scritta nuziale tra la Giulia Beccaria, giovanetta sui venti anni (era nata il 1762), e il nobile Pietro Manzoni, di quarantasei anni (era nato a Castello sopra Lecco, il 1736); e il 20 ottobre il matrimonio era benedetto, nell'oratorio di casa Beccaria, in via Brera. Alla non piccola differenza dell'età, s'aggiungeva qualche altra ragione che non lasciava augurar bene di quelle nozze. La Giulia era stata varii anni rinchiusa in collegio; intanto che suo padre, rimasto vedovo nell'aprile del 1774, aveva avuto gran fretta di riammogliarsi. Alla giovanetta, vivace di carattere, non poteva garbare la dipendenza dalla matrigna; e le parve dunque d'acciuffar la fortuna quando, mercè la «lodevole destrezza e mediazione» nientemeno che di Pietro Verri, potè divenire la signora Manzoni.
A giudicarne dai ritratti, non si direbbe bellissima; ma tutti che la conobbero, e lasciaron ricordo di lei in lettere non destinate certo alla pubblicità, attestano che essa conquistava l'altrui ammirazione e simpatia col pronto ingegno, la varia coltura, la conversazione amabilissima, l'eloquenza appassionata. Del resto, non so quale altra donna potrebbe presentare alla posterità un passaporto con connotati che equivalgano a quelli, che essa invano sperò il figliuolo lasciasse incidere sul suo sepolcro: «A Giulia, figlia di Cesare Beccaria, madre di Alessandro Manzoni». È vero; ma qualche nobile donna potrebbe non invidiare, anzi compiangere, chi, pur desiderando di perpetuare la memoria del suo orgoglio filiale e materno, non trovò una sola parola da dedicare a un orgoglio meno fortuito. Essa, a buon conto, non potè vantare d'aver provato pur «le gioie infinite e inesprimibili di un altro sentimento, meglio completo, che investe ed abbraccia tutte le qualità della mente e del cuore, perchè esso è insieme passione, orgoglio, ammirazione»[11].
Don Pietro Manzoni non valeva certo, per ingegno e dottrina, nè il suocero nè il figlio; ma un brav'uomo pare che fosse anche lui. Un letterato non era; ma aveva care le lettere e le arti belle, e apriva volentieri la sua casa ai cultori di esse. Suo fratello, che viveva con lui, era monsignore del Duomo, e un brav'uomo egli pure.
I Manzoni eran meglio che agiati; e la Giulia non portava in dote se non 5000 scudi e mille di corredo: uno zio materno le aveva fatto dono di altri mille scudi. Don Pietro aveva meglio mirato alle doti dello spirito e al nome glorioso. L'amore sarebbe dovuto nascer dopo, dalla convivenza. Sennonchè il fanciullo alato, ma cieco, non ritrovò mai la via di San Damiano e la casa al n.º 20, dove quella coppia rimase ad abitare; e dove, due anni e mezzo dopo le nozze, un bambino, punto cieco anzi «divin raggio di mente», apriva gli occhi alla luce. Non aveva attaccate agli omeri alucce apparenti, ma nel piccolo cranio aveva accartocciate ali ben altrimenti poderose. Don Pietro gl'impose il nome di suo padre, Alessandro; e spessissimo andava a Lecco, per sorvegliarne l'allevamento.
Tra quei che frequentavano la casa Manzoni, fu altresì quel figliuolo del conte Giuseppe Maria Imbonati e di donna Francesca Bicetti, che aveva avuto per precettore il Parini; e che, per aver superato—egli, il nipote del dottor Bicetti a cui il poeta aveva diretta l'ode sull'Innesto del vaiuolo—il terribile morbo, meritò la magnifica ode Torna a fiorir la rosa. Giovan Carlo era nato (il 1753; contava dunque circa nove anni più della Giulia) tra le carezze della fortuna e i sorrisi dell'arte. Erede di due case, gl'Imbonati e i Bicetti, per diversa ragione illustri, Pietro Verri ne aveva da Vienna salutato l'avvento con un'ode anacreontica, ricca di lieti presagi se non di pregi poetici. Dalla madre, poi, rimasta vedova quand'egli si trovava sui quindici anni, era stato mandato in un collegio di Roma. E tornatone, qui a Milano conquistò subito fama di virtuoso e di filosofo, la mente e il cuore aperti alle più sane e liberali idee moderne.
A buon conto, per una giovane signora, ch'era avvezza a sentirsi considerata, e a considerar sè medesima, quale un gentile ed olezzante fiore sbocciato in un'aiuola donde e l'Enciclopedia e i libri del Rousseau, del Voltaire, dell'Helvetius, del Montesquieu, del Genovesi, del Filangieri avevano spazzata la nebbia dei pregiudizii sociali e religiosi; per una donna, ch'era conscia ed orgogliosa del gran nome paterno, risonante glorioso per tutta Europa, e che risentiva fortemente in sè stessa i fremiti di quel burrascoso rinnovamento sociale che s'annunziava all'orizzonte con lampi e bagliori sanguigni: per una tal donna, quel giovane Imbonati, immune dei vizii nobileschi flagellati nel Giorno, la fronte redimita degli allori pariniani, ansioso anch'egli del trionfo delle nuove idee, o come non doveva parer l'uomo ideale, quasi il leggendario cavaliere sognato e vagheggiato nella impaziente fantasia? E per lui, pel cavaliere filosofo, la Giulia Beccaria o come non doveva rassomigliare, negli atti e nelle parole, alla donna sognata?
Tutta al volto, ai costumi, alla favella Pari alla donna che il rapito amante Vagheggiare ed amar confuso estima?
Il 23 febbraio 1792, poco più che nove anni dopo ch'era stato giurato, «si ruppe lo comun rincalzo»; e fu pronunziata la sentenza di separazione. Don Pietro pare mettesse tutto il suo miglior volere perchè non avvenissero scandali; e restituì alla Giulia tutta la sua dote, aggiungendovi qualche dono. Tuttavia uno scandalo fu lì lì per iscoppiare, a proposito della dote materna, che la Giulia pretese il padre le consegnasse subito ed intera. (Eran lire 45,000). Il marchese non volle acconsentire; e alla imprudente figliuola riuscì pur troppo facile trovare un Azzecca-garbugli, che s'assunse l'odiosa parte di rappresentar Cesare Beccaria quale un tiranno domestico e un demagogo. Se lo scandalo tribunalesco non dilagò, fu solo perchè un colpo d'apoplessia spezzò il cuore di quel povero padre, a 56 anni, il 28 novembre 1794.
La separazione dei due coniugi fu, non solo da essi, ma da tutti coloro che li avvicinavano, considerata quale un vero e proprio divorzio. Non era quest'antico istituto della Roma repubblicana meglio consentaneo a quelle tali leggi di natura, a cui i contemporanei del Rousseau si mostravan tanto devoti? Va bene, in omaggio alle prescrizioni barbogie della legge scritta, la Giulia aveva scelto per suo nuovo domicilio la casa d'uno zio materno; ma, compiuta questa formalità, chi avrebbe osato di biasimare il suo affetto per l'Imbonati? Forse che l'Alfieri e la contessa d'Albany avean cessato d'accentrare in loro la stima, anzi la venerazione, di tutti i nobili spiriti d'Italia, per la mancanza del visto delle autorità civili od ecclesiastiche alla loro libera unione? «Mia cara Giulia», scriveva alla cognata morganatica una delle sette sorelle Imbonati, «non v'è altro bene nel mondo che due anime che s'incontrino; e le vostre son tali. Prosiegui, mia cara, a render felice chi ti fa felice, e ricevi i miei cordiali ringraziamenti per l'assistenza e le affettuose premure che tieni per il mio caro Imbonati, del quale sento con tanta pena che alle volte soffre nella sua preziosa salute».
Anche don Pietro non dava poi in ismanie. Da quelle nozze si direbbe ch'egli avesse avuto quanto meglio desiderava; e in verità il frutto non poteva esserne nè più prezioso, nè più appetitoso. Con quella collaboratrice valente che glielo aveva procurato, egli si mostrò sempre largo e generoso. In casa, non è presumibile che egli o i parenti o gli amici ne sparlassero, e neanche che esprimessero sentimenti di rancore per l'Imbonati. Molti di quegli amici frequentavano anche la signora Giulia. E ad ogni modo, non sembra che al giovanetto Alessandro giungesse mai l'eco di rancori domestici; chè, vivendo nella casa paterna, egli serbò sempre immutata la sua devozione affettuosa verso la madre, e la stima altissima per l'antico alunno del Parini. Pur quand'era in collegio, e vi riceveva le visite alterne della madre e del padre, nulla par trapelasse dai loro discorsi dell'irreparabile dissidio. Al Monti, che nel settembre 1803 gli scriveva a Lecco: «Presentate al vostro signor padre i miei ringraziamenti e rispetti»; al Monti, di cui egli scriveva in una lettera da Venezia del 24 marzo 1804: «Se Monti vuoi mandarmi il Persio, lo faccia avere, col nome di Dio, a mio padre a Milano»; non si peritava di scriver da Parigi, il 31 agosto 1805: «Io ho sentito veramente il bisogno di scriverti, di comunicare a te la mia felicità, a te che me l'avevi predetta; di dirti che l'ho trovata fra le braccia d'una madre; di dirlo a te, che tanto mi hai parlato di lei, che tanto la conosci. Io non cerco, o Monti, di asciugar le sue lacrime; ne verso con lei; io divido il suo dolore profondo, ma sacro e tranquillo».
E questo dolore, s'intende, era per la morte dell'Imbonati! Del quale il Manzoni medesimo ripiglia a dire, in fin della lettera: «Io non vivo che per la mia Giulia, e per adorare ed imitare quell'uomo che solevi dirmi essere la virtù stessa». E la sua Giulia, ch'era poi la madre, aggiunge due righe al «caro Monti». «Oh voi che lo amate», scrive, «voi che veramente lo conoscete, giacchè poteste proporgli per modello l'adorato mio Carlo, voi misurate l'amore immenso che gli porto, da quell'immenso ancora dolore, sacro, insanabile, che sento e provo per Lui». E continua parlando infocatamente di lui, cioè dell'Imbonati; il quale, a buon conto, aveva in terra usurpato il loco di don Pietro Manzoni, che non vacava «nella presenza del figliuol di Dio», e nemmeno avrebbe dovuto parer vacante al figliuolo di don Pietro stesso e di lei! «Ah! voi non mi direte già di distrarmi nè di consolarmi», soggiungeva donna Giulia nel poscritto al Monti: «voi non potete immaginare che si ardisca tentare di mettere una lacuna nell'eternità, già incominciata per me perchè fissata sopra di Lui».
Nel Carme v'è un accenno oscuro a malignazioni e a calunnie[12]. Il Manzoni le disdegnò in Milano, e disdegna ora, a Parigi, d'intrattenerne l'ombra dell'Imbonati.
Nè l'orecchio tuo santo io vo' del nome Macchiar de' vili, che oziosi sempre, Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro L'operosa calunnia. A le lor grida Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo. Qual merti l'ira mia fra lor non veggio; Ond'io lieve men vado a mia salita, Non li curando.
Chi sa? ma furon forse appunto le «grida» dei maligni, che infastidirono, a lungo andare, anche la Giulia e l'amico suo, e l'indussero a lasciar Milano. Giancarlo, già, pare, infermiccio, dispose, l'ottobre del 1795, di tutta la sua sostanza: ad eccezione di qualche speciale legato, nominava sua erede la Giulia; «e questa mia libera e irrevocabile disposizione», dichiarava per man di notaio, «è per un attestato, che desidero sia reso pubblico e solenne, di que' senti menti puri e giusti, che debbo e sento per detta mia erede, per la costante e virtuosa amicizia a me professata, dalla quale riporto non solo una compiuta sodisfazione degli anni con lei passati, ma un'intima persuasione di dovere alla di lei virtù e vero disinteressato attaccamento quella tranquillità d'animo e felicità, che m'accompagnerà fino al sepolcro». E si misero in cammino. Viaggiarono un po' qua e un po' là per l'Europa; visitarono anch'essi—era un dovere di moda, per gli spiriti ansiosi del rinnovamento politico: si pensi al Montesquieu e all'Alfieri, al Voltaire e al Foscolo, alla Staël e al Baretti!—l'Inghilterra; e finalmente si stabilirono a Parigi. Qui il nome di Beccaria era la più valida delle commendatizie; e i due amici furono accolti e festeggiati nei ritrovi più intellettuali, in casa Condorcet, soprattutto, e alla villa della Maisonnette a Meulan. L'idillio non fu spezzato che dalla morte di Giancarlo, che avvenne il 15 marzo 1805.
In quei giorni appunto si concertava di chiamare a Parigi anche Alessandro, oramai sui venti anni. Dall'ombra dell'Imbonati il poeta si fa dire:
E sai se, quando Il mio cor ne le membra ancor battea, Di te fu pieno, e quanta parte avesti De gli estremi suoi moti....
Ed egli di rimando:
Allor ch'io l'amorose e vere Note leggea, che a me dettasti prime, E novissime furo; e la dolcezza De l'esser teco presentia, chi detto M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo Scritto gli affetti del mio cor t'apersi, Che non saria da gli occhi tuoi veduto, Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo Di te nutrissi desiderio, il pensa.
A compiere quel viaggio ora fu sollecitato dalla madre desolata. Egli corse, e da quella cara e inconsolabile donna udì narrare «sospirando, Come si fa di cosa amata e tolta», di quale «virtù fu tempio il casto petto» dell'amico rimpianto. Il poeta si ricordò in buon punto di Vittorio Alfieri; chè ora egli era tutto Alfieri. All'amico Pagani, ch'era invece tutto Monti, scriveva di questi tempi (18 aprile 1806): «Tu mi parli di Alfieri, la cui Vita è una prova del suo pazzo orgoglioso furore per l'indipendenza, secondo il tuo modo di pensare; e secondo il mio, un modello di pura, incontaminata, vera virtù di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo di cui debba arrossire». E poichè l'Alfieri aveva consacrato all'immacolata memoria dell'amico Francesco Gori, «ignoto ai contemporanei suoi, perchè degni non erano di conoscerlo forse», quel magnanimo Dialogo che intitolò appunto La virtù sconosciuta; su quelle orme, egli, il Manzoni, ricalcò un nobilissimo epicedio, per celebrare la virtù dell'Imbonati, anche essa non affidata ad altre opere o di mano o d'ingegno.
Aveva disperato—troppo presto, in verità—di vedere in terra «un raggio di virtù» (è la parola di moda, tra quegli scrittori neo-classici e neo-repubblicani; ma il Manzoni aveva pur nell'orecchio il petrarchesco: «Però che altrove un raggio Non veggio di virtù, che al mondo è spenta»); ed ecco la madre piangente gliene additava un faro; ma ohimè allora allora spento! Ebbene, sarà mai possibile
che di tal merto pera Ogni memoria? E di cotanto esemplo Nullo conforto il giusto tragga, e nulla Vergogna il tristo?
La mossa è tutta alfieriana. Quando, «al fosco e muto ardere della notturna lampada», all'Alfieri dormente appare, in «un raggiante infuocato chiarore» e diffondendo intorno un «soavissimo odore», l'ombra «del già dolce suo amico del cuore e dell'animo», egli, rifatto un po' dallo spavento, ripiglia:
«Assai cose mi rimaneano a dirti e ad udire da te, quando (ahi lasso me!) per poche settimane lasciarti credendomi, senza saperlo, io l'ultimo abbraccio ti dava. Desolato io ed orbo mi sono da quel giorno funesto; nè altra scorta al ben vivere ed alle poche e deboli opere del mio ingegno mi rimase, se non la calda memoria di tue possenti parole, e di quella tua tanta virtù, di cui nobile ed eccelsa prova al mondo lasciare ti avevan tolto i nostri barbari tempi, l'umil tua patria, un certo tuo stesso forse ben giusto disdegno, ed infine l'acerba inaspettata tua morte».
Il Manzoni procede più immaginoso e colorito: oltre al Dialogo alfieriano, egli ha presente l'episodio dantesco di Brunetto Latini (e ora si studia d'imitar Dante, con devota e tranquilla ammirazione, senza risentire quelle bizzarre insofferenze che lo tormentaron poi), e altresì l'apparizione dell'ombra di Ugone a Goffredo, in quella Gerusalemme liberata (XIV, 1 ss.) che dopo si spassò molto a canzonare (non cessando però dall'appassionarsi pel Grossi e pei suoi Lombardi e le sue novelle in versi!)[13]. E poi, l'arte e la poetica montiana non eran davvero passate senza lasciar traccia sull'arte e sulla sua educazione letteraria. Il Manzoni ha già, od ha ancora, il gusto dei paragoni minuziosi, larghi, quasi d'intere scenette: quali sono in Omero e in Dante, nel Milton e nel Parini; e quali saranno negl'Inni sacri (a ognuno cadrà in mente il masso dal vertice del Natale) e nelle tragedie (basterà ripensare alla rugiada che pugna col sole nel coro d'Ermengarda). Laddove l'Alfieri, nelle tragedie in ispecie, abborre da ogni maniera di paragoni; e questa dura astinenza non contribuisce poco alla durezza e alla magrezza, che tanto i contemporanei del Cesarotti e del Monti gli rimproveravano[14].