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L’Analisi Linguistica e Letteraria è una rivista internazionale di linguistica e letteratura peer reviewed. Ha una prospettiva sia sincronica che diacronica e accoglie ricerche di natura teorica e applicata. Seguendo un orientamento spiccatamente interdisciplinare, si propone di approfondire la comprensione dei processi di analisi testuale in ambito letterario come anche in ambito linguistico. La rivista è organizzata in tre sezioni: la prima contiene saggi e articoli; la seconda presenta discussioni e analisi d’opera relative alle scienze linguistiche e letterarie; la terza sezione ospita recensioni e una rassegna di brevi schede bibliografiche riguardanti la linguistica generale e le linguistiche delle singole lingue (francese, inglese, russo, tedesco). La rivista pubblica regolarmente articoli in francese, inglese, italiano e tedesco, e occasionalmente anche in altre lingue: nel 2010, ad esempio, ha pubblicato un volume tematico interamente in russo.
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L’ANALISI LINGUISTICA E LETTERARIAFacoltà di Scienze Linguistiche e Letterature straniereUniversità Cattolica del Sacro CuoreAnno XXII – 1-2/2014ISSN 1122-1917
ISBN edizione cartacea 978-88-6780-075-9
ISBN edizione ePub 978-88-6780-852-6
Direzione
Luisa Camaiora
Giovanni Gobber
Marisa Verna
Comitato scientifico
Luisa Camaiora – Arturo Cattaneo – Enrica Galazzi
Maria Cristina Gatti – Maria Teresa Girardi
Giovanni Gobber – Dante Liano – Federica Missaglia
Lucia Mor – Margherita Ulrych – Marisa Verna
Serena Vitale – Maria Teresa Zanola
Segreteria di redazione
Laura Balbiani – Sarah Bigi – Laura Bignotti
Elisa Bolchi – Giulia Grata
I contributi di questa pubblicazione sono stati sottopostialla valutazione di due Peer Reviewers in forma rigorosamente anonima
© 2014 EDUCatt - Ente per il Diritto allo Studio universitario dell’Università CattolicaLargo Gemelli 1, 20123 Milano | tel. 02.7234.2235 | fax 02.80.53.215e-mail: [email protected] (produzione); [email protected] (distribuzione)web: www.educatt.it/libri
Redazione della Rivista: [email protected] | web: www.educatt.it/libri/all
Questo volume è stato stampato nel mese di ottobre 2014 presso la Litografia Solari - Peschiera Borromeo (Milano)
Ringraziamenti
Introduzione. Alla ricerca di una fuga
Fuga in Franciacorta. Alessandro Spina e Joseph Conrad
Francesco Rognoni
Identità in fuga
Le fugitif. Fuir la vérité dans la « Recherche du temps perdu
Marisa Verna
Proust, fuir l’oralité pour trouver un accent
Davide Vago
Œdipe, un héros en fuite
Rocco Marseglia
Des lignes de fuite vers le moi : Henri Michaux
Federica Locatelli
In fuga sulla sedia a dondolo: Murphy di Samuel Beckett
Federico Bellini
Fuga e violenza
Fleeing, Flying, Staying, Leaving: The Persistence of Escape in American Literature
Thomas Austenfeld
Runaway Women Slaves: From Slave Narratives to Contemporary Rewritings
Paola Nardi
Un’anabasi metropolitana. TheWarriors di Sol Yurick
Franco Lonati
Note sulla fuga (e sull’inseguimento) nel western americano
Stefano Rosso
In fuga dalla tirannia, dall’odio e dal perdono: Urania Cabral in LafiestadelChivo di Mario Vargas Llosa
Clara Foppa Pedretti
Fleeing War. Due strategie di diserzione letteraria: IparentidelSud di Carlo Montella e GoingAfterCacciato di Tim O’Brien
Giulio Segato
Fuga e modernità
The Savage Pilgrimage: D.H. Lawrence’s Dialogic Journeys upon Monte Verità, the Mountain of Truth
Robert Barsky
Fuga dalla modernità (fuga verso il mito). L’Escape nelle opere di Tolkien
Clara Assoni
Fuga verso il presente. Un’analisi delle fughe in TheStoneGods di Jeanette Winterson
Elisa Bolchi
La fuga dell’‘Io’ narrativo nel romanzo del dopoguerra spagnolo
Rosa Pignataro
Fughe ‘dal’ tempo, fughe ‘nel’ tempo: Borges, McTaggart, Nabokov
Francesco Baucia
Fuga ed esperienza
“Dobbiamo ritentare la fuga”. L’inizio e i finali delle AvventurediPinocchio
Paola Ponti
Montale contra Rimbaud: la Bildung di “chi rimane a terra”
Giulia Grata
Le sirene, la poesia, la morte. Appunti su Omero e Pascoli
Marco Corradini
Ritiro dalle scene, fuga per quartetto vocale, radio contrappuntistica: fugue ed escape in Glenn Gould
Benedetta Saglietti
La Fuite dans LesPassionsdel’âme (Descartes)
Sara Cigada
Fuga del tempo, fuga dal tempo: la poesia di Johann Ch. Günther (1695-1723)
Laura Bignotti
Fuga e storia
La fuga negata. Marie Luise Kaschnitz e il nazismo
Lucia Mor
Fuga da Israele – Il caso dello scrittore Eshkol Nevo
Daniela Pagani
“La historia no la leemos, la releemos siempre”: fuga dall’archivio in Rodrigo Rey Rosa e Horacio Castellanos Moya
Sara Carini
Storia di una diaspora morisca: le istruzioni per la fuga verso Oriente (ff. 37v-39r) nel manoscritto aljamiado 774 della Biblioteca Nazionale di Parigi
Benedetta Belloni
In fuga dalla storia, dagli stereotipi e dalle convenzioni sociali: il caso della ‘Pastora’ in Dondenadieteencuentre di Alicia Giménez-Bartlett
Francesca Crippa
Abstracts
Indice degli Autori
Questo volume e il convegno del quale raccoglie gli atti non sarebbero stati possibili senza la disponibilità e la collaborazione di numerose persone, cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti.
In primo luogo il Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterature Straniere dell’Università Cattolica di Milano, che ha finanziato l’evento. Ringraziamo poi i numerosi partecipanti, e in particolare i professori che hanno accettato di esporre le proprie ricerche a fianco di studiosi alle prime armi, rendendo così possibile un quanto mai proficuo confronto non solo fra ambiti, ma anche fra generazioni diverse. Siamo inoltre riconoscenti a Simona Galbusera e Federica Elli per il prezioso sostegno, tanto nella fase organizzativa quanto dei momenti caldi del convegno. Grazie alla redazione dell’“Analisi Linguistica e Letteraria” che ha raccolto gli atti e ne ha curato la pubblicazione.
Infine, un ringraziamento particolare va ai Professori Francesco Rognoni e Marisa Verna: ci hanno accordato fiducia e con passione e competenza ci hanno guidato in questa preziosa esperienza.
Federico BelliniGiulio Segato
Lafuganellavita, chilosa, chenonsiaproprioleilaquintessenza
PaoloConte
I ventotto saggi che compongono questo numero monografico dell’Analisilinguisticaeletteraria costituiscono solo una parte degli interventi presentati al convengo internazionale Infuga. Temi, percorsi, storie, coordinato da Francesco Rognoni nei giorni 1-2 marzo 2013 e svoltosi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano grazie al contributo del Dipartimento di Scienze linguistiche e letterature straniere.
L’idea di organizzare un convegno sulla fuga nacque a Parigi nella primavera del 2012. Eravamo in un café – dove altro si potrebbe passare il tempo a Parigi! – complici di una fuga verso la salvifica, almeno nelle nostre speranze, VilleLumière. Il café si trovava circa a metà della vivace rue Jean-Pierre Timbaud, nel dinamico e multietnico XI arrondissement. Nonostante le nostre menti fossero obnubilate dalla scrittura della tesi dottorale, ci sforzammo di parlare dei nostri progetti futuri e, con sorpresa, scoprimmo che entrambi portavano a un unico nucleo tematico: la fuga. Di getto sviluppammo l’argomento su un foglietto e di ritorno a Milano, qualche settimana dopo, mostrammo il frutto dei nostri sforzi speculativi a Francesco Rognoni e Marisa Verna, i quali si dimostrarono entusiasti e disponibili ad aiutarci nella stesura del nostro progetto.
Proponemmo dunque un callforpapers nel quale invitavamo alla riflessione sull’idea di fuga come momento attivo-costruttivo, in contrapposizione all’arrendevolezza dello scappare. Infatti, mentre scappare implica una rinuncia, una variazione traumatica che, per quanto necessaria, costringe all’abbandono di una parte di sé, nel fuggire non v’è alcuna rinuncia ma, anzi, si sviluppa una linea continua che porta alla salvezza. In questa prospettiva anche il concetto di ritorno si discosta chiaramente da quello di fuga. I miti del ritorno, difatti, essendo dominati dall’archetipo del viaggio iniziatico, ripropongono costantemente l’ossessivo leitmotiv dell’integrazione. Al contrario, il carattere soteriologico della fuga ha la forma di una nuova salvezza.
Nel progettare il convengo, il nostro sforzo era teso a organizzare i panel in modo che non si creassero sessioni monodisciplinari o monolinguistiche. Tuttavia, nella rielaborazione aposterioridei saggi si è deciso di articolare il percorso in cinque sezioni tematiche (ciascuna introdotta da un saggio lungo e formata da un gruppo di saggi brevi) e il risultato è stato sorprendente: ogni sezione ha una letteratura nettamente dominante. La sezione “fuga e violenza”, ad esempio, è totalmente di ambito americanistico, così come la sezione “fuga e storia” interessa quasi esclusivamente le letterature ispanofone. La sezione “identità in fuga”, invece, è dominata dall’ambito francofono. Non sorprende, infine, che la sezione “fuga e modernità” abbia una predominanza di ambito anglistico. L’unica sezione che ha, al suo interno, solo una predominanza relativa è quella denominata “Fuga ed esperienza”, nella quale troviamo saggi di carattere più variegato.
Il fascicolo si apre con la relazione di Francesco Rognoni, un omaggio al recentemente scomparso Vassilij Khouzam, alias Alessandro Spina, il maggiore – e forse unico – scrittore postcoloniale in lingua italiana, e al suo dialogo di tutta una vita (“la mia storia è una fuga infinita”) coi personaggi di Joseph Conrad.
La prima sezione, denominata “Identità in fuga”, inizia con il saggio lungo di Marisa Verna dedicato alla Recherche. In questo studio la fuga viene rappresentata come luogo non solo di esplorazione ma di vera e propria costituzione dell’identità. L’autrice mostra come l’ampia parabola della Recherche possa essere letta sotto il segno di una doppia fuga: la prima da se stesso, nell’allontanamento dal vero a favore del chiacchiericcio della società, a favore dell’amicizia e dell’amore; la seconda verso se stesso nel respingere questa vita inautentica per agguantare la verità nella solitudine creativa. Riprende il discorso sull’opera proustiana Davide Vago, concentrandosi sul rapporto fra oralità e scrittura e mostrando, attraverso la polisemia del termine ‘accento’, come da un lato si costituisca in una fuga dalla volubilità dell’oralità, dall’altro la recuperi sul livello più alto della trasmutazione artistica. Il nodo problematico di verità, fuga e identità ritorna nella dialettica riscontrata da Rocco Marseglia nell’EdipoRedi Sofocle, il cui protagonista si dimostra un eroe in fuga nel senso più pieno, dacché è fuggendo che scopre se stesso, ma scoprirsi ha come risultato paradossale quello di risospingerlo alla fuga. Fuga e scoperta di sé vengono coniugati anche nell’intervento di Federica Locatelli dedicato a Henri Michaux; tuttavia, in questo caso il soggetto in fuga si scopre sfuggente e attraversato da linee di fuga molteplici. Federico Bellini, infine, ci parla della paradossale ‘fuga sul posto’ del protagonista del romanzo di Samuel Beckett Murphy, che per mezzo della sua sedia a dondolo si stacca dal mondo per chiudersi nella passività della propria intimità.
La seconda sezione è denominata “Fuga e violenza”. L’ovvio accostamento fra fuga e violenza si declina in due sfumature: da un lato può configurarsi come fuga dalla violenza e dalla tirannia, caratterizzandosi dunque come fuga salvifica, che ha così spesso contraddistinto gli eroi della letteratura occidentale; dall’altro, come fuga verso la violenza, alla ricerca di una violenza redentrice che possa portare a una rigenerazione. Thomas Austenfeld, dopo avere considerato le diverse risonanze in cui si declina il concetto di fuga nella lingua inglese, ci accompagna in una carrellata di rappresentazioni di fughe e fuggiaschi nella storia americana, una storia spesso segnata da conflitti violenti. Paola Nardi si concentra nel suo intervento proprio su una delle pagine più scure di questa storia, quella della schiavitù degli afroamericani, illustrando come questa sia stata affrontata da alcune scrittrici dell’epoca e contemporanee. Di letteratura anglo-americana tratta anche il saggio di Franco Lonati, il quale confronta il romanzo di Sol Yurick TheWarriors, il cui tema centrale è la fuga di una gang di teppisti nella New York degli anni Sessanta, con il suo sottotesto classico, l’Anabasi di Senofonte. La fuga e l’inseguimento sono anche l’oggetto precipuo del saggio di Stefano Rosso, che esplora le caratteristiche peculiari dell’inseguimento nei romanzi western angloamericani. Il saggio successivo, di Clara Foppa Pedretti, analizza la fuga dalla violenza di Urania Cabral, la protagonista del romanzo di Mario Vargas Llosa LafiestadelChivo, dal dittatore domenicano Rafael Leónidas Trujillo. Infine il saggio di Giulio Segato esamina due diverse strategie di diserzione attraverso il confronto fra due romanzi bellici, Iparentidelsud di Carlo Montella e GoingAfterCacciato di Tim O’Brien.
La terza sezione del convegno è quella chiamata “Fuga e modernità”. La crescente complessità del mondo moderno ci ha posto di fronte a una molteplicità di forme e possibilità di fuga, spesso ambivalenti, polarizzate e dicotomiche, in una proliferazione che non di rado è giunta a proporre una fuga dalla modernità stessa. È questo il caso della modernissima fuga dalla modernità di D.H. Lawrence raccontata da Robert Barsky, che ci fornisce un’accattivante chiave di lettura di LadyChatterley’sLover radicando il romanzo nel substrato della controcultura primonovecentesca. Un’altra fuga dalla modernità è quella proposta da Clara Assoni, che legge TheLordoftheRings quale “racconto epico di sopravvivenza alle ‘brutture’ del mondo moderno”. Nell’analisi di Elisa Bolchi del romanzo di Jeanette Winterson TheStoneGods, la fuga assume invece diverse forme: fuga dalla società, dalle gabbie culturali e dai pregiudizi, ma anche fuga rigenerativa da un pianeta in via d’estinzione. Assai originale è la prospettiva di Rosa Pignataro che non indaga la fuga come nucleo tematico di una determinata opera letteraria, ma fornisce un’analisi sull’allontanamento dell’io narrativo in alcuni romanzi spagnoli pubblicati dal secondo dopoguerra agli anni Settanta. Conclude la sezione il saggio di Francesco Baucia che analizza il rapporto tra fuga e temporalità attraverso le interpretazioni di tre grandi autori del Novecento: Nabokov, Borges e McTaggart.
La fuga, è già stato detto, non significa per forza rinuncia e perdita, ma può essere anche occasione di crescita, di trasformazione creativa, e attraversamento di una soglia. Questo ci mostra Paola Ponti nel suo intervento dedicato a Pinocchioe alle tre principali fughe che scandiscono la storia del burattino più celebre del mondo: analizzandole in successione emerge come in ciascuna fuggire significhi allo stesso tempo esporsi ai rischi del mondo e ampliare la propria esperienza. Giulia Grata propone invece un dialogo fra il Bateauivredi Rimbaud e Mediterraneodi Montale e mostra come il fuggire del primo verso l’illimitato che accoglie e annichilisce funga da modello negativo per il secondo, che pur specchiandosi in esso sceglie il limite della ragione e dell’identità. Ed è alla ricerca di una risposta alla domanda esistenziale sulla propria identità che l’Ulisse dell’UltimoViaggiodi Pascoli, a differenza del precedente omerico, non vuole sfuggire alle sirene ma, al contrario, va cercandole; Marco Corradini mostra, tuttavia, che saranno queste a sfuggirgli portando con sé i resti di una pretesa di conoscenza certa e totale. È lontano dai riflettori e verso la solitudine che invece si avvia la fuga di Glenn Gould, tematizzata dal grande pianista in alcune sue opere attraverso le quali ci accompagna Benedetta Saglietti. Sara Cigada, a partire da una puntuale analisi delle occorrenze della fuga in Lespassionsdel’Amedi Descartes, rivela come per il filosofo essa fosse non solo sostrato e causa della paura ma, in quanto avversione per il male e la morte, radice di tutte le passioni. Per concludere, Laura Bignotti ricostruisce l’espressione del desiderio di fuga da un mondo che non riserva che incomprensione nei testi di Johann Christian Günther.
“Fuga e Storia”, la quarta sezione, si apre con l’analisi di Lucia Mor dedicata a Marie Luise Kaschnitz, la quale in un celebre saggio prova a rispondere alle accuse rivolte ai tedeschi di non aver saputo fermare l’ascesa di Hitler. La fuga che ci racconta la scrittrice tedesca è la “fuga negata” dal senso di colpa di un popolo costretto a confrontarsi con un passato difficile. Quasi opposta è invece la prospettiva raccontata da Daniela Pagani nel suo saggio, dove parla di una generazione di scrittori israeliani che vogliono lasciarsi alle spalle una schiacciante memoria collettiva per fuggire verso un Neuland come nel titolo del romanzo di Nevo Eshkol. Un altro drammatico capitolo della storia è quello affrontato da Sara Carini, che analizza il modo in cui la letteratura sia diventata uno spazio privilegiato per trasformare le carte mute degli archivi delle dittature centroamericane in memoria viva. Un’operazione analoga è condotta da Benedetta Belloni a partire da un manoscritto cinquecentesco che guidava gli ebrei in fuga dalla Spagna attraverso l’arco Nord del Mediterraneo. Conclude la sezione e il volume il saggio di Francesca Crippa, che passa dalla storia collettiva a una storia individuale; quella straordinaria, nella sua drammaticità, della Pastora e della sua fuga dalle discriminazioni sullo sfondo della Spagna franchista.
Suonano forse presuntuose le parole di Paolo Conte, tratte dalla splendida Fugaall’inglese, che fanno da epigrafe al nostro lavoro; eppure i due bei giorni di convegno tenutisi la scorsa primavera presso la sede milanese dell’Università Cattolica del Sacro Cuore hanno mostrato che la fuga può essere, se non proprio la quintessenza della vita, quantomeno uno spunto di riflessione su di essa sorprendentemente stimolante. Certamente il successo dell’iniziativa è stato agevolato dalla flessibilità del tema, che è stato declinato in modi molto variegati, pur sempre rispondendo a un richiamo condiviso, a un’urgenza concreta. Rimane a questa introduzione il non facile compito di raccontare l’intuizione originaria che ci aveva affascinato e spinto a proporre proprio questo tema e che in seguito, nel dialogo con i partecipanti, ha prodotto nuove ramificazioni e sviluppato inattese prospettive.
Cercare di determinare in modo troppo stringente e puntuale quale sia il concetto di fuga cui facciamo riferimento sarebbe un compito tanto dispendioso quanto, in questa sede, vano. Ci proponiamo allora di fare del nostro oggetto di indagine il metodo stesso del procedere, proponendo una fuga fra frammenti di intuizioni e abbozzi di concetti che rendano conto del nostro interesse e lasciando che il cammino, con Antonio Machado, si faccia camminando.
La fuga dice in primo luogo di un moto, di uno spostamento, e in quanto tale è un viaggio, ma un viaggio del tutto peculiare, che non si definisce né in relazione al punto di partenza, né a quello di arrivo. Certamente, infatti, la fuga può avere inizio in un qualche luogo, ma questo è indifferente alla fuga stessa, o le appartiene solo come una vaga malinconia. Allo stesso modo, sebbene nella fuga si possa avere un obiettivo, mirare a uno specifico altrove, la sua sospensione è sempre precaria, e la sua conclusione arbitraria. Il moto della fuga si oppone soprattutto all’idea del viaggio circolare, per il quale l’arrivo consiste nella riconquista del punto di partenza, nel ritorno a casa, dove si restaura l’ordine che la partenza aveva infranto: l’Odisseafonda il mito del ritorno alle origini della letteratura occidentale, lo spasmodico sforzo per chiudere il cerchio del viaggio.
Se da un lato Ulisse è l’indiscusso eroe del ritorno, Mosè si propone, all’interno di questa schematizzazione, quale incarnazione della fuga. Questa ha inizio con lo scoprirsi stranieri là dove si è sempre stati, nel ritrovarsi già fuggiaschi senza saperlo, in un’intuizione che coniuga nello stesso istante riconoscimento ed estraniamento. Allo stesso modo, la fuga è tesa verso il sogno di un nuovo ordine del mondo in cui la corsa si arresti, una terra promessa che tuttavia sarà solo intravvista nella lontananza. Senza inizio e senza fine, la fuga apre la ripetitività del cerchio del ritorno e si scaglia lungo la tangente, crea la propria geografia, reinventa in ogni istante la mappa che attraversa. Come Mosè nel deserto, la fuga trova in sé stessa la legge del mondo che agogna.
In quanto viaggio la fuga traccia un percorso, una linea nella cui forma risiede la sua essenza, come pare suggerire, fosse anche solo per suggestione, la sua etimologia. ‘Fuggire’, dal latino fugĕre(gr. Pheygein) sembra infatti imparentato alla prolifica radice indoeuropea *bheug(h), che fra i significati principali contiene l’idea della curvatura, del piegarsi su se stesso di qualcosa. Con questo significato riemerge nel tedesco biegen, ‘piegare’, da cui anche biegsam, ‘flessibile’, così come nello yiddish Beygl, la ciambella di pane ‘piegato’ su se stesso diventata celebre nel nuovo mondo. In sanscrito troviamo Bhujati, ‘piegare’, e bhuga, la linea curva che traccia la serpe sulla sabbia.
Fuggire è allora flettersi, procedere per spinte laterali, abbandonare la rigidità e deviare dalla linea retta, trasformarsi in serpente come il bastone di Aronne. La fuga traccia una linea curva perché trascura il percorso più breve, indifferente com’è al principio e alla fine, e predilige le anse, le parabole, i tiri a effetto. Fuggire è quindi opposto a scappare, la cui etimologia parla di uno sfuggire al calappio, o di un lasciarsi cadere alle spalle la cappa, il mantello, per meglio correre via. Qui è implicita una rinuncia, un cambio repentino e traumatico che, seppure necessario e salvifico, costringe all’abbandono di una parte di sé, e in qualche misura a un rinnegamento. Scappare segnala un balzo, una frattura, una discontinuità, laddove la fuga traccia una funzione continua e uno sviluppo organico, uno srotolarsi di felce. Non si tratta di liberarsi di un’insidia, di trovare scampo, ma di creare un rifugio, un posto in cui ripiegarsi in se stessi e rallentare prima di riprendere il viaggio.
Se da un lato la fuga contrasta lo scappare, come una flessuosa continuità si oppone a una rigida discontinuità, la linea curva alla linea spezzata, dall’altro essa si definisce in opposizione a quell’altro modo dell’andare altrove che è l’evasione. Anche l’evasione segnala una discontinuità, che si compie però in un balzo verso un’altra dimensione, verso l’immaginario, la fantasticheria, nei vagheggiamenti di un altrove simulato in cui stemperare i turbamenti e acquietare i dubbi, in un esercizio che può essere nutrimento per l’immaginazione ma che rischia di degenerare a pratica onanistica, abbandono di responsabilità, oblio della concretezza. La fuga invece, così come proviamo a pensarla, è nonostante la sua irrequietezza “una forma di appartenenza, di fiducia nella transitabilità del reale”. Come avverte Gilles Deleuze, “La grande erreur, la seule erreur, serait de croire qu’une ligne de fuite consiste à fuir la vie; la fuite dans l’imaginaire, ou dans l’art. Mais fuir au contraire, c’est produire du réel, créer de la vie, trouver une arme”1. Elémire Zolla ha raccontato come l’evasione nella fantasticheria possa avere infinite declinazioni – dalla pietistica newageai vari paradisi artificiali –, e come contro di essa ogni cultura provi da sempre a porre una diga in una ferrea disciplina del sentimento e del pensiero.
Proseguiamo nella definizione contrastiva della fuga passando dalla regressione infantile dell’evasione nella fantasticheria, che diventa incapacità di essere presenti nell’evento del reale, al suo complementare: il sentimento angosciante dell’impossibilità di una fuga, la mania del pensarsi preda di un sistema che tutto controlla e gestisce, l’ossessione dietrologica. Sarà forse con l’affermarsi di globalizzazione e informatizzazione, con la compressione apparente del tempo e dello spazio nell’interfaccia dello schermo che si diffonde l’illusione che la geografia sia esaurita e non sia rimasto più nulla da scoprire. E sarà forse da questa convinzione che discende il sentimento straziante dell’impossibilità della fuga e il timore che forse è in parte speranza di vivere in una realtà non reale, nient’altro che un velo di Maya, nient’altro che un Matrix.
All’opposto di evasione e ossessione persecutoria, la fuga non si rinchiude nelle carceri del sogno, né si crede ingabbiata in un sistema dalle maglie troppo strette, e se da un lato non perde mai il contatto con la terra che attraversa, dall’altro non smette di osservarvi le crepe, gli interstizi, le porosità che fanno sì che non sia un monolite inscalfibile ma un coacervo di forze, un amalgama di possibilità. Immerse in questa molteplicità le fughe si incontrano e si scontrano, si intrecciano e si accompagnano: per quale motivo, infatti, dovrebbe il fuggiasco essere tanto orgoglioso da credersi solo, da non volersi o sentirsi parte di una fuga collettiva, anche se fosse una diaspora?
Su questa linea la fuga si offre come metafora e modello di un’idea di soggettività quale processo continuo, divenire-altro che è sempre anche un divenire se stessi: lontano dal lutto per l’ipotetica morte del soggetto, ne rivendica semmai la persistenza nel suo costante reinventarsi. Come i temi nella fuga musicale, il soggetto non è mai solo là dove lo si vorrebbe indicare, ma si sviluppa nella tensione fra sé e le proprie ripetizioni, i rispecchiamenti, le riapparizioni capovolte o parziali. La sua essenza non sta nella fissità di un’identità monolitica, ma attraversa la differenza della propria trasformazione. ‘Ricercare’ designava in origine la fuga musicale, e la ricerca definisce l’attitudine del soggetto in fuga, il suo modo di scrutare l’orizzonte e di protendersi al nuovo che arriva.
Allo stesso tempo, non c’è procedere che non implichi persistenza, trasformazione che non parta da una ripetizione, così come è necessario che un piede resti alternativamente fermo affinché Dante risalga la costa del Purgatorio. Scagliato verso il nuovo, costretto a reinventarsi costantemente, il soggetto in fuga trascina con sé la propria storia e procede volgendosi indietro o, richiamando la conclusione dell’ottava elegia duinese di Rilke, in un continuo prendere congedo. Speranza e rimpianto, attesa e nostalgia vivono nella fuga affiancate, alimentandosi a vicenda, nello scivolare fra un passato che è eredità e cicatrice e un futuro che è promessa e azzardo. Sempre un passo oltre e un passo più indietro di se stesso, l’essere-in-fuga appartiene al mondo come lo scrittore appartiene al linguaggio, in una tensione fra appropriazione e sovversione che è uno scivolare lungo i limiti del già dato e facendoli vibrare spingerli oltre se stessi, spalancarli sul nuovo.
Seguendo in un ulteriore passo il fascino arbitrario ma non illegittimo della polisemia del termine, pensiamo alla linea di fuga che governa la prospettiva come a un’altra sfaccettatura del nostro concetto. La linea di fuga è ciò che trasforma la superficie su cui giace, la gonfia aggiungendole un’altra dimensione nella quale lo spettatore viene implicato. La prospettiva, quando non è mero trompel’oeil, non inganna l’occhio, ma lo accoglie e lo accompagna in uno spazio che al medesimo tempo è e non è, sospeso fra inganno e realtà. Lo sguardo che abita la tensione fra questa dimensione potenziale e la superficie del quadro si allena a tracciare nuovi orizzonti, a pensare nuove geografie e a scoprire, seguendo Erwin Panofsky, l’infinito che innerva la natura stessa sotto forma di uno spazio pensato come spazio geometrico. Ed è ancora grazie allo scarto fra reale e invenzione nella prospettiva che possono prendere corpo le immagini impossibili ma vere di Escher, che come sostiene il filosofo Douglas Hofstadter sono vere e proprie fughe visuali, che forzano l’occhio e il pensiero lungo una linea di fuga che si avvolge su se stessa fino a rimanere sospesa in un’ebbrezza stupefatta.
Possiamo ora rivolgerci a una delle immagini della fuga più celebri dell’immaginario occidentale, che ricorre nella storia della cultura e delle arti come una warburghiana Pathosformel, quella della fuga in Egitto, prendendo in esame una delle sue più celebri interpretazioni a opera di Vittore Carpaccio. Il dipinto è attraversato dalla tensione che unisce l’affrettarsi ansioso di Giuseppe, proteso in avanti, impaziente e turbato mentre si volta a incitare l’asino, e la quieta compostezza della madre col bambino, sospesi nei drappeggi del mantello appena smossi dal vento della fretta, quasi in un momento di seria ma serena intimità. Impazienza e quiete, resistenza e docilità, serenità e slancio: la fuga tenta il difficile equilibrio sul filo teso fra gli opposti e, come Italo Calvino ricordando Manuzio, rivendica a sé il motto festinalente.
La fuga ha infatti il passo allenato e leggero, ma non affrettato, lo stesso che ritroviamo, balzando dal Rinascimento alla contemporaneità, nel passo del flâneur. Vagando senza meta nel cuore della grande macchina urbana il flâneur scopre, o lascia che gli si rivelino, oasi impensate, potenzialità sopite, prospettive inattese: procede lasciandosi andare, osservando con desta ma rilassata curiosità lo svolgersi e l’intrecciarsi delle vie, ciascuna non solo mezzo per spostarsi da un luogo all’altro, ma spazio dell’esperienza e luogo da abitare anche se solo di passaggio. Guy Debord e i suoi compagni psicogeografi con il concetto di ‘deriva’ elevano la flânerie a metodo e modello di un rapporto con la città che provi a essere autentico e a non lasciarsi sopraffare dalla complessità. Lo scopo è uscire dai binari prefissati dell’abitudine, dai percorsi noti e scontati – da casa al lavoro, dal lavoro a casa – in cui i piedi procedono automaticamente e l’attenzione si intorpidisce al punto da non percepire nulla del mondo esterno. Affinché la città torni a rifulgere delle sue potenzialità, dicono gli psicogeografi, la si deve attraversare in percorsi inusuali, e affinché questo sia possibile non basta affidarsi al caso: è necessario un metodo. La deriva psicogeografica è retta da regole tanto rigide quanto improbabili, determinate aprioristicamente dall’estro e dall’inventiva, che permettono di uscire dai binari dell’abitudine secondo un procedere che ha una legge ma non uno scopo in quell’intreccio fra azzardo e metodo che, in campo letterario, l’Oulipoe il Gruppo 63 hanno indagato in ogni sua declinazione. Ci vuole metodo per muoversi liberi, così come al jazzista servono disciplina, esercizi di imitazione e tante scale per imparare a improvvisare. La celebre citazione di Ralph Allison per la quale “il jazzista deve perdere la propria identità proprio mentre la trova” offre dunque un altro esempio dell’idea di soggetto in fuga di cui ci occupiamo.
In conclusione di questa introduzione rimane un’ultima e doverosa nota. Questo numero monografico cerca di delineare soltanto alcuni dei possibili percorsi di ricerca sul tema della fuga. Per coloro che fossero interessati a contribuire a questo dibattito e ad altre questioni affini, segnaliamo un indirizzo a cui inviare messaggi e interventi critici: [email protected]. Il nostro proposito, infatti, è quello di continuare questa ricerca, procedendo verso successivi orizzonti teorici e nuovi casi letterari.
Federico BelliniGiulio Segato
1 G. Deleuze – C. Parnet, Dialogues, Flammarion, Paris 1977, p. 60.
Francesco Rognoni
Il titolo della mia relazione (forse si sarà intuito) strizza l’occhio a quello di un bel racconto di Mario Soldati, FugainFrancia, da cui lo stesso Soldati ha tratto un film ancora più bello (e molto diverso dal racconto). Qui l’analogia – che, ammetto, è assai frivola, uno scarto, una fuga dal mio argomento ancor prima di esserci entrato – si ferma. Alessandro Spina – il quale, oltre che in Franciacorta dove abita, è spesso fuggito anche in Francia (dove tre suoi romanzi sono in uscita in questi giorni presso L’Âge d’Homme) – Alessandro Spina, dicevo, qualche libro di Soldati l’avrà letto di certo (anche se, credo, senza grande trasporto); di cinema non s’interessa punto; e la sua prima televisione (un mezzo a cui Soldati ha dato così tanto) l’ha comprata solo sei mesi fa, a ottantacinque anni suonati, e solo perché la badante bosniaca gli ha dato l’aut-aut: “O in questa casa entra una TV, o ci esco io!”.
Ma il gioco di parole – fuga in Francia, fuga in Franciacorta – mi risuonava così insistentemente nelle orecchie intanto che preparavo la mia relazione, che, in un intervallo della scrittura, sono andato a spulciarmi il diario di Soldati, alla ricerca di chissà cosa (che è quello che talvolta si fa quando si fugge: si sta in realtà cercando, non si sa cosa), e son capitato su una pagina del ’58 dove Soldati, riflettendo sulla differenza fra cinema e romanzo, osservava come
non [sia] ancora accaduto [attenzione: siamo nel ’58, magari nel frattempo è sì accaduto!] che, nel cinema, si narri come si narra in letteratura da Proust, James e Conrad in poi: con l’autore che in un modo o nell’altro, magari trasferendosi in uno dei personaggi, si limiti a dire: ‘Io...” e anzi: “Io direi ... a me pare ... a quanto ricordo ... insomma, mi sembra che sia andata così...”. Sì, abbiamo dei film a “narratage”. Ma si tratta sempre di un espediente, un abbellimento, un abbreviamento. Mai di un’impossibilità dell’autore a raccontare diversamente. Mentre questa impossibilità è la chiave della letteratura moderna1.
Impossibilitàanarrarediversamentecome chiavedellaletteraturamoderna. Mi sembra una bellissima definizione. E i tre autori citati fanno ancora scuola fra i romanzieri; anche se James (che a Spina non è mai interessato granché) ha perso un bel po’ di terreno rispetto agli anni ’50. Mentre Conrad e Proust tengono ancora, son più “maestri” che mai. E visto che io parlerò soprattutto di Conrad, per la soddisfazione dei molti proustiani presenti voglio raccontare che, quando viveva in Africa – a Bengasi, dove dal ’54 al ’79 ha diretto (prima affiancando il padre, poi da solo) l’industria tessile di famiglia – Spina teneva sempre una copia di LeTempsRetrouvénel cruscotto dell’auto e ad ogni sosta ne rileggeva qualche pagina. Mi sembra un bel fascio di luce sul personaggio!
Anche se negli ultimi anni ha ottenuto diversi riconoscimenti, tra cui il Bagutta, forse il premio letterario più aristocratico, Alessandro Spina è molto meno conosciuto di quanto meriterebbe: e forse, tuttora, anche gli addetti ai lavori pensano a lui più come all’“amico lontano” (in Africa, appunto) con cui Cristina Campo scambiò memorabili lettere, che come all’originalissimo autore di IConfini, un ciclo di romanzi e racconti – pubblicati da vari editori fra il ’66 e il ’98 (Mondadori, Rusconi, Scheiwiller ecc.), riuniti in un volume di quasi 1200 pagine dalla Morcelliana di Brescia nel 2006 – che drammatizzano le vicende della presenza italiana in Cirenaica dalla conquista nell’11 fino alla scoperta del petrolio negli anni sessanta.
Lesen Sie weiter in der vollständigen Ausgabe!
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