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Beschreibung

Deutsche und italienische Autoren und Autorinnen haben Tandems gebildet und ihre Kurzgeschichten gegenseitig in die eigene Landessprache übertragen. So unterschiedlich die Schreibstile sind, so verschieden ist auch die Art, wie die Geschichten übertragen wurden: übersetzt, frei übersetzt oder kreativ nacherzählt. Die Autoren und Autorinnen der Tandems: Clemens Böckmann - The killing Giacomo Cavaliere - Lermontov 43 ovvero Fatalisten sul fronte orientale Lena Schätte - Meerjungfrau Giulia Orati - I sospiri nascosti Clara Leinemann - no story is mine Elena Pineschi - Stasi Greta Köhne - Untrennbar vermengt Lucia Masetti - Belle époque Peter Rosenthal - Tat Tvam Asi Luca Tosi - Aspettando che il mio cuore cambi Bernhard Heckler - Ein fliehendes Pferd Paolo Casella - Febbre d'estate

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zweisprachige Anthologie mit Kurzgeschichten in Deutsch und Italienisch

antologia bilingue con racconti in tedesco ed italiano

Herausgeber Heimann Stiftung für Völkerverständigung

Weitere Informationen

zum «Literatur TANDEM letterario»

auf der Webseite

www.heimann-stiftung.de

VORWORT LITERATURTANDEM

Deutsche und italienische Autoren und Autorinnen haben eine Kurzgeschichte in ihrer Landessprache geschrieben. In einem deutschitalienischen Tandem haben sie dann die Kurzgeschichte des fremdsprachigen Partners in die eigene Landessprache übertragen. Die AutorInnen übertrugen die Texte auf ganz verschiedene Arten: von der semantischen Übersetzung, zur freien Übersetzung mit der Neufassung von Textteilen oder dem kreativen Nacherzählen der Texte mit eigenen Worten.

Mit dem Literaturtandem soll der intellektuelle und interkulturelle Austausch zwischen deutschen und italienischen AutorInnen gefördert werden.

Der Sammelband ist das Ergebnis eines gemeinsamen Projektes der Heimann-Stiftung, des Italienisches Kulturinstitut Stuttgart und der Buchhandlung Eulenspiegel in Wiesloch.

PREFAZIONE TANDEM LETTERARIO

Autrici e autori tedeschi ed italiani hanno scritto un racconto breve nella propria lingua nazionale. Nell’ambito di un tandem tedesco/italiano, hanno poi trasposto il racconto del partner di lingua straniera nella propria lingua nazionale. Gli autori hanno trasposto i testi in modi molto diversi: dalla traduzione semantica alla traduzione libera con la nuova versione di parti del testo, oppure tramite la rinarrazione creativa dei testi con parole proprie.

L’obiettivo del tandem è quello di promuovere scambi intellettuali e interculturali tra autori italiani e tedeschi.

L'antologia è il risultato di un progetto congiunto della Fondazione Heimann, dell'Istituto Italiano di Cultura Stoccarda e della libreria Eulenspiegel di Wiesloch.

Inhaltsverzeichnis

TANDEM:

Clemens Böckmann - Giacomo Cavaliere

LERMONTOV 43 - OVVERO FATALISTI SUL FRONTE ORIENTALE: Giacomo Cavaliere

LERMONTOW 43 - ODER FATALISTEN DER OSTFRONT: Giacomo Cavaliere - Aus dem Italienischen von Clemens Böckmann

THE KILLING: Clemens Böckmann

THE KILLING: Clemens Böckmann - Traduzione di Giacomo Cavaliere

TANDEM:

Lena Schätte - Giulia Orati

I SOSPIRI NASCOSTI: Giulia Orati

DIE VERBORGENEN SEUFZER: Giulia Orati - Aus dem Italienischen von Lena Schätte

MEERJUNGFRAU: Lena Schätte

LA SIRENA: Lena Schätte - Traduzione di Giulia Orati

TANDEM:

Clara Leinemann - Elena Pineschi

STASI: Elena Pineschi

STILLSTAND: Elena Pineschi - Aus dem Italienischen von Clara Leinemann

NO STORY IS MINE: Clara Leinemann

NO STORY IS MINE: Clara Leinemann - Traduzione in modo creativo di Elena Pineschi

TANDEM:

Greta Köhne - Lucia Masetti

BELLE ÉPOQUE: Lucia Masetti

GOLDENE ZEITEN: Lucia Masetti - Aus dem Italienischen frei übersetzt von Greta Köhne

UNTRENNBAR VERMENGT: Greta Köhne

INSEPARABILMENTE MESCOLATO: Greta Köhne - Traduzione in modo creativo di Lucia Masetti

TANDEM:

Peter Rosenthal - Luca Tosi

ASPETTANDO CHE IL MIO CUORE CAMBI: Luca Tosi

WARTEND AUF DASS SICH MEIN HERZ ÄNDERT: Luca Tosi - Aus dem Italienischen von Peter Rosenthal

TAT TVAM ASI: Peter Rosenthal

TAT TVAM ASI: Peter Rosenthal - Traduzione di Luca Tosi

TANDEM:

Bernhard Heckler - Paolo Casella

FEBBRE D’ESTATE: Paolo Casella

SOMMERFIEBER: Paolo Casella - Aus dem Italienischen von Bernhard Heckler

EIN FLIEHENDES PFERD: Bernhard Heckler

UN CAVALLO INARRESTABILE: Bernhard Heckler - Traduzione in modo creativo di Paolo Casella

AUTORINNEN UND AUTOREN

AUTRICI E AUTORI

DIE HEIMANN-STIFTUNG

LA FONDAZIONE HEIMANN

TANDEM CLEMENS BÖCKMANN GIACOMO CAVALIERE

Kommentar von Clemens Böckmann

Der Text LERMONTOW 43 oder FATALISTEN DER OSTFRONT von Giacomo Cavaliere zwingt mich hinein in den Kopf einer Person, deren Innenleben ich Zeit meines Lebens immer auf größt mögliche Distanz halten wollte. Ob die Person real war oder nicht, spielt spätestens ab dem zweiten Satz keine Rolle mehr. Ich bin bei ihr und sie ist mit mir. Weder im Laufe des Textes noch danach wird sie mich verlassen, vielmehr muss ich ab diesem Moment alles, was ich zuvor als Vorstellungen meines Selbst hatte, verteidigen. Die Geschichte ist in mir und die Möglichkeiten der Identifikation lassen mich als Leser an mir zweifeln. Mehr noch: ich beginne den Duktus der Figur zu sprechen – sofern ich mich nicht vollständig dem Lesen verweigere. Ich folge dem Ich-Erzähler durch den Krieg, über die Gesichter der Fremden hinweg und hinein in seinen ideologischen Wahn.

Werde ich als Leser sonst oft an die Hand genommen und durch eine Handlung geführt, geradezu begleitet, wird es hier meine Hand die schreibt, die versucht ist wegzuwischen, was sich zwischen ihren Fingern ereignet. Gleichzeitig konfrontiert mich der Text mit der Konkretion des Weltkrieges: auf Seiten der Täter begegnet mir eine Vielzahl von Kollaborateuren, die an den Verbrechen der Nationalsozialisten beteiligt waren – ob aus ideologischen oder monetären Gründen oder wegen dem Wahnsinn eines Gewaltfetisch.

Commento di Giacomo Cavaliere

The Killing è una storia per frammenti, ciascuno con stile e ritmo propri. Le sequenze dialogiche serrate, i cambi di punti di vista e di scena, e, infine, uno stralcio di articolo giornalistico, servono a innescare un meccanismo di tensione e ad attirare chi legge nell’indagine in corso. Chi è davvero Irmtraud Kirschner, criminale nazista? Clemens Böckmann ha architettato un gioco di prospettive tra personaggi e ambienti, che variano dalla Germania del nord a una Trieste contemporanea o del 1943. La sua narrazione è scandita e asciutta, con passaggi descrittivi brevi ed efficaci che sono stati preservati nella traduzione italiana, così come una sorta di cinismo di fondo per i “soliti” meccanismi della giustizia e l’attenzione che si riserva al disvelamento dell’inganno, quando la verità è interesse di pochi (anziani, deboli o già morti).

Lo stile dell’autore è calibrato sulla storia e ho scelto di rispettarlo, limitandomi a interventi puntuali per ampliare alcuni passaggi del testo secondo quello che la lettura mi suggeriva. Ci sono immagini impattanti, che esprimono violenza – uno dei temi centrali del testo, a tratti potenziale, in altri deflagrante – con dettagli che si fanno corporei, crudi, ma che non esplicitano mai l’atto concreto. Una scelta che permette all’autore di evitare il rischio di banalizzare la narrazione di una vicenda storica trattata spesso in letteratura e la tradizione stessa del modo in cui si parla del male. Clemens Böckmann ha intrapreso una via autonoma, e nella restituzione in italiano ho cercato di valorizzarla scegliendo con cura le parole, una voce altra, in un’altra lingua, che gli somigliasse il più possibile.

LERMONTOV 43

ovvero

FATALISTI SUL FRONTE ORIENTALE

GIACOMO CAVALIERE

La prima cosa che vidi fu una mano che affiorava dal ghiaccio. Il tifo seguiva l'armata da quando aveva lasciato Kiev. La primavera avrebbe restituito i morti tutti interi, e sarebbero stati costretti a bruciarli.

Nel magazzino era stata allestita una specie di taverna, con panche, sedie e tavoli, e un oste che rabboccava acquavite e minestra scolorita. Quasi tutto ciò che si mangiava, doveva essere bevuto.

Davanti a noi niente russi, dietro di noi niente rifornimenti – telegrafò il generale von Kleist alle porte del Caucaso. Ero diventato tenente della SS-Standarte Kurt Eggers alla fine di giugno del quarantuno. Primo francese dell'unità. Das Schwarze Korps, la rivista ufficiale del corpo, mi commissionò un reportage sul reclutamento dei volontari stranieri. In francese.

E così, mi mandarono avanti, e avanti ancora, alle porte del Caucaso e nelle steppe sterili della Calmucchia, dove l'impeto dell'avanzata era andato disperso. L'arruolamento volontario di ventimila tra ceceni, calmucchi, ciuvasci, georgiani e kirghisi aveva squilibrato l'organico; la crescita dei musulmani irritava i cristiani, i cattolici irritavano gli ortodossi e gli ortodossi irritavano gli ufficiali protestanti, benché lì, di tedeschi, quasi non ce ne fossero. L'Asia era piena di popoli che non ne avevano neanche per le palle di sentirsi chiamare russi. Imporre l'ordine tra i ranghi era spesso più complicato che imporlo ai civili. Il generale Erich von dem Bach-Zelewsky dovette firmare di suo pugno l'ordine di decimazione dell'Osttürkischer Waffen-Verband per grave insubordinazione. Settantotto militi azeri, ceceni, turkmeni e tatari del Volga, disertori musulmani dell'Armata Rossa, furono messi al muro. Avevo sentito fosse stato a causa della morte un tenente austriaco che li aveva puniti per la distruzione di un cimitero asburgico della Grande Guerra, durante l'addestramento in Galizia.

Un atamano del Dniepr, vestito con tutti i paramenti del Kosaken-Kavallerie – dolman scorticato all'altezza dei polpacci, colbacco con Totenkopf, baffoni bianchi alla moda degli ussari prussiani, scudo divisionale con scimitarre incrociate in campo viola –, venne verso di me profondendo una scia di stalla. Aveva i capelli lunghi e nessun dente in bocca, ma parlava tedesco meglio di me. L'eccesso di pulizia offendeva i veterani. Come le mie narici furono prese d'assalto dal fetore della guerra, così le loro subirono l'insulto del bucato della mia lavanderia. Riconobbi i turbanti bianchi della Brigata del Turkestan, la mezzaluna ottomana sullo scudetto della Legione Azera e i fez verdi dell'Handschar. Quello che somigliava di più a un ufficiale tedesco era un vecchio spagnolo con effige dell'Azul e la divisa da falangista.

«Tu non sembri tedesco» esordì l'atamano. Si presentò come il comandante della 2. Kosaken der Waffen-SS in Calmucchia.

«Sono bretone» risposi, pentendomi subito d'essermi mostrato piccato. «Robert Duschesne, tenente della SS-Standarte Kurt Eggers, divisione corrispondenti di guerra».

«Tenente delle SS?». Allungò le dita sudicie per tirarmi l'angolo del colletto dove era appuntata la mostrina. «Adesso fanno tenenti anche i francesi?».

«Per sopravvivere si fa di tutto».

«Come fare di un francese un tedesco».

«Come fare di un russo, un tedesco».

«Sono ucraino» grugnì, anche più piccato di me. Era già voltato quando mi raccomandò di stare lontano da quelli che dormivano a ridosso delle pareti, divorati dalle pulci. Gli andai dietro e gli chiesi notizie dei calmucchi. «Metà di loro hanno disertato il giorno dopo l'incorporamento. Quelli fanno la guerra a modo loro».

«E come?».

«A cavallo, con arco e frecce». L'atamano andò a sedersi con lo spagnolo.

Ero lì da un paio d'ore quando avvicinai il naso a una scodella di minestra fin quasi a pucciarlo. Storsi il naso, assalito dal lezzo di cherosene e putrescina. Comunque, ero lì da troppo poco per riuscire a deglutirla. Impiegai qualche giorno per rassegnarmi al veleno cotto alla fiamma nella neve. Mentre la guardavamo bollire, l'atamano mi chiese se sapessi qualcosa di nuovo. I rinforzi non sarebbero arrivati, l'avanzata non avrebbe mai raggiunto il Caspio, erano andati troppo avanti. Ma questo già lo sapeva.

«Tra poco inizieranno le manovre di ripiegamento».

«Problemi vostri» bofonchiò lui, versandosi un'avida colata di brodaglia incandescente nell'esofago.

«Non siamo tutti dalla stessa parte?».

«Io volevo solo uccidere i russi. I tedeschi avevano bisogno di qualcuno che uccidesse i russi per loro. Anche voi francesi siete venuti qui per lo stesso motivo».

Rificcai lo sguardo inebetito nella poltiglia bollente, affondato da tanta spigolosa verità.

«Tu credi in dio, tenente?».

«Penso di sì».

L'atamano emise un ringhio di compiacimento. «E scommetti?».

«Qualche volta».

Combatteva contro i comunisti dalla rivoluzione. Aveva ucciso austriaci per lo zar, aveva ucciso comunisti per i Bianchi e poi ancora per i polacchi – l'unica guerra che gli avesse fatto saggiare un vago senso di vittoria. Aveva ucciso polacchi, russi ed ebrei per la Repubblica Popolare Ucraina, e ora uccideva russi per i tedeschi. Tre sorelle, tre nonni e sua madre vennero condannati a morte da un soviet durante la rivoluzione del novecentocinque. La crocifissione scritta in volto, come avesse la certezza che la sua vita non sarebbe potuta andare in nessun altro modo. Di vizio ne aveva uno solo: adorava scommettere. Mi raccontarono di una bisca che fece allestire dentro alla pancia di un Tupolev abbattuto. Accesero un fuoco all'interno e, per due settimane, scommisero a durak e al tarocco sloveno tutto quello che erano riusciti a prelevare dalle tasche dei morti fino a lì. La carcassa sforacchiata del bombardiere giaceva in una macchia di alberi a tre chilometri dal fronte. Proseguirono per altre tre mani anche dopo che gli obici russi s'accorsero di loro.

Di otto giocatori ne rimasero tre, uno dei quali era ferito e non poteva muoversi; gli altri erano schizzati fuori come saponette sulla porcellana appena l'artiglieria cominciò a raggruppare i colpi, senza aspettare che la mano finisse. Eremèič l'atamano uscì per ultimo. «È uscito il sette!» gridò. Raggiunse il furiere tedesco in trincea, si tolse il colbacco e pescò tre rubli da consegnare al vincitore. Qualunque fosse il destino che gli era stato prescritto, non sarebbe morto coi debiti.

Eremèič Velentinovič Basaev era il più alto in grado, insieme al tenente colonnello spagnolo senza una gamba. Per quasi tutto il tempo non si faceva che rivangare storie d'infanzia e inventare aneddoti su ricchi saccheggi passati, piangere amici morti e trasformare stupri in passioni sfrenate. Ma soprattutto di religione, benché non ce ne fosse mai l'intenzione. O la coscienza. La questione era soprattutto la predestinazione, le Moire, le diverse interpretazioni abramitiche del libero arbitrio. Chi si macchia di orrendi abomini ama consolarsi con l'idea che tutto di lui sia già stato scritto e disposto da prima che potesse leggerlo. Viste da lontano, le religioni si somigliavano tutte. Lo spagnolo fu il primo a nominare esplicitamente il libero arbitrio. Una risposta gettata lì durante una delle lunghe pause di silenzio riflessivo che intervallavano i discorsi, allacciata a una qualunque delle sentenze vomitate in quei giorni. Ogni tre, quattro ore, si pugnalava la coscia della gamba mutilata attraverso la divisa, ma non voleva più sprecare il tiepido soccorso della morfina con qualche ora di sonno.

«Da sempre, la questione del libero arbitrio affanna gli uomini che pensano troppo I nostri camerati musulmani sono convinti che il destino di un uomo sia scritto negli astri, e che nulla possa essere stabilito o deciso senza che il Signore lo disponga. Per noi cattolici non è molto diverso. Colpa dei greci e delle Moire, ho modo di credere. Molti dei nostri problemi sono colpa loro. Quelli intangibili, quasi tutti. Cloto, giovane e bella, fila lo stame della vita. Lachesi, la mediana, gira il fuso, stabilisce quanto filo spetti a ciascuno, quanto filo d'oro per i giorni fasti, quanto filo nero per quelli nefasti. Infine, Atropo, la vecchia bastarda, che, ineluttabile, lo recide. Un ragazzino che muore al suo primo minuto di battaglia per essersi tolto l'elmetto, avrebbe potuto aspirare a un fato diverso? Inschallah, dite così, voi mori?». L'invalido spagnolo ci arringò con la sicurezza di un maestro che passeggiava per l'aula.

«Per me la vita è un tiro di dadi» dissi, «e nessuno decide niente».

«Per me anche, infatti sono pronto a scommetterci» intervenne Eremèič. «Per dimostrare al mio amico spagnolo che è nel torto o, meglio ancora, per scoprire se lo sono io».

«E come si scommette sui piani di dio?» domandai.

«Col fuoco». L'atamano deambulò accidioso verso la parete. Estrasse un revolver Mosin-Nagant arrugginito dalla fondina che penzolava da un chiodo. La ruggine aveva incastrato il tamburo e dovette pestarla più volte sul tavolo per farlo uscire. Mostrò alla platea gli alloggi vuoti e il proiettile. Lo bendai. Presi il proiettile, lo inserii nella camera e feci ruotare il tamburo. Allora gli tolsi la benda. Lo scatto del tamburo destò il pubblico, assente e denutrito, come un colpo di gong. Un azero saltò in piedi e fece rotolare su un tavolo cinque rubli d'argento, altri presero a rinfacciarsi a vicenda debiti non saldati coi quali coprire la puntata.

«Io scommetto dieci marchi che sarai morto» incalzai frugandomi le tasche. Un facile pronostico per un volto scolpito nel marmo di una lapide. Eppure, qualunque fosse l'esito dell'esperimento, non credevo ci avrebbe detto molto circa i piani di dio.

«Può darsi di si, può darsi di no» replicò lui, scoprendo l'interno di una bocca presa a sassate. Molti erano convinti che il loro dio non l'avrebbe permesso – per quanto si riferissero a divinità diverse, sembravano condividere progetti simili, e si comportavano come ne fossero stati tutti messi a parte.

Il colbacco con testa di morto dell'atamano prese a girare tra i giocatori, riempiendosi di tutto ciò che potevano mettere sul piatto.

«Se solo esistesse qualcosa di più ghiotto della morte su cui scommettere» si rammaricò lo spagnolo stringendo la coscia rinsecchita tra le mani. I soldati dibattevano sulle possibilità che ci fosse il proiettile, ognuno nella sua lingua – l'azzardo abbatteva le barriere. Eremèič mi chiese di prendere una carta dal mazzo. Mi presi il tempo di sceglierla: le pendu, l'appeso. La lanciai in aria con uno schiocco del pollice, lui poggiò la bocca arrugginita del revolver sulla tempia. Lo spigolo della carta rimbalzò sul tavolo e cadde rovesciata.

Clac!

La platea si produsse in un miscuglio di esultanze e lamenti. E subito qualcuno si lanciò al contrattacco per reclamare il dovuto. Qualcuno obiettò che il revolver fosse dell'ottocentonovantuno, magari non sparava da cinquant'anni. Non se lo fece ripetere. Stavolta si tenne la pistola alla tempia per sveltire il secondo giro di puntate. Lanciai la carta: clac!

Il risultato non fu diverso, ma, stavolta, il pubblico si disse per la maggior parte soddisfatto d'aver puntato come voleva dio. Per placare i dubbi, chiese di fare spazio e cominciò a tirare il grilletto contro la parete finché il colpo non partì. Poi, raccolse quel che restava del piatto e si mise al polso due orologi.

«Dunque» domandai, «abbiamo dimostrato che esiste un destino a cui nessun uomo può sottrarsi, a dispetto di ogni probabilità?».

«Per ora abbiamo dimostrato che hai perso, francese».

M'incamminai per il villaggio sotto una gelida notte di luna nuova. La coperta di ghiaccio opacizzava la notte e la svuotava di ogni astro. Seguii il percorso segnato dai lumini accesi sui davanzali fino alla casa del fattore a cui avevo chiesto di ospitarmi. Solo per godermi la vista di sua figlia Nàstja al mattino. Cercavo di pesare il meno possibile sul loro bilancio e gli portavo tutto quello che potevo per ricompensarlo d'aver messo al mondo una creatura tanto deliziosa solo perché io la incontrassi. Lungo la strada ghiacciata inciampai in qualcosa di grosso. Non distinsi l'animale finché non venne illuminato dalle lanterne di due volontari della Turkistanische. Un cinghiale domestico, scotennato da spalla a coscia. Mi chiesero se avessi visto passare il loro amico Hadji. Aveva quindici anni, anche se era un bestione. Era cresciuto in una famiglia di ismailiti rigidissimi, e non aveva mai assaggiato l'alcool. Ogni volta che si divertivano ad allungargli il latte con la vodka impazziva e iniziava a uccidere tutto quello che incontrava in preda a deliri religiosi. Al momento, la questione non m'interessò molto. Nàstja mi aspettava sulla porta. Le carezzai la guancia arrossata dal gelo, le diedi la buonanotte e imboccai le scale esterne verso la mansarda.

Non erano passate due ore quando sentii pestare sull'unico vetro sano della finestra. Scossi la coperta irrigidita dalla brina e aprii la porta alle due reclute del Turkestan. «L'atamano è stato ucciso» balbettarono, più per il freddo che per lo sconforto. Avrei dovuto dire qualcosa. «Ucciso!» continuò uno dei due. «È stato il nostro amico pazzo Hadji, dice di essere un mujāhid e di voler uccidere tutti i kuffār. Era lui che sgozzava i maiali, quel pazzo, vuole farci morire tutti di fame. L'atamano gli ha chiesto perché lo facesse, e gli ha bucato lo stomaco. Prima di morire, il comandante ha detto di dirle che ha vinto».

Il ceceno s'era barricato in una stamberga fuori dal paese. L'intero villaggio si assiepò tutt'intorno: soldati, briganti, vedove, vecchi, bambini. Aveva sbarrato le finestre e pregava a voce alta, più alta che poteva, quasi volesse assicurarsi che anche in cielo lo sentissero. Il ragazzo non era di quel villaggio, ma le donne piangevano come ne avessero partorito un pezzetto ciascuna.

Mi avvicinai e spiai da una crepa nelle imposte. Aveva smesso di pregare. Giaceva a terra, la testa stretta tra le ginocchia per non dover guardare qualunque sciagura stesse causando. Nessuna arma se non la vecchia scimitarra turca sul pavimento. Feci presente che non c'era minaccia. Il tenente del Turkestan confabulò col primo ufficiale kirghiso di Eremèič – ora nuovo comandante dei cosacchi – prima di dirigersi verso la finestra.

«Hai peccato, fratello, non ti resta che affrontare il giudizio di dio».

Un colpo frantumò i listelli delle imposte, sfiorando la guancia del comandante. Avevo visto male. Mi strattonarono verso lo steccato, mentre un drappello di donne in cappe nere lo supplicava di uscire. Qualcuno sparò contro la porta, io feci per afferrare una canna arroventata dallo scoppio e mi sbatterono a terra. «Lo porto fuori io. Vivo».

Chiesi all'ufficiale di attaccare di nuovo bottone e di mettere qual ­che cosacco fuori dalla porta. Feci il giro della casa e m'accucciai dietro una delle finestre sul lato opposto. Poggiai a terra il fucile e tirai il carrello della Walther. Scrutai all'interno da una fessura, troppo piccola per discerne qualcosa più di un'ombra, ma le assi erano sottili. Con un calcio le feci saltare e finii a cavalcioni sul davanzale. L'intonaco eruttato dal colpo del ceceno m'accecò. La mano armata era con la metà del corpo all'interno della casa – e sparò. Una, due, quattro volte, finché non mi sbilanciai e caddi nel soggiorno. Lo trovarono a terra, preso al fianco. Lo incaprettarono con una corda e lo trascinarono fuori, a sgocciolare sangue nella neve. E morire, in tutta calma.

Se anche avevo avuto ragione sulla sorte di Eremèič, il destino e i suoi capricci mi apparivano non meno nebulosi. Non mi ero mai interrogato un secondo sull'esistenza di dio, e non lo feci spesso in futuro. Ma, dentro di me e nemmeno tanto nel profondo, speravo si sbagliassero tutti. Solo l'arbitrio degli uomini può addentrarli così a fondo nell'incomprensibile. Possiamo sperare di essere diversi da ciò che siamo? Io, una possibilità sentivo d'averla avuta. E di averla mancata.

Mi chiedevo, però, se avessi davvero vinto la scommessa. Comunque, il cadavere dell'atamano era già stato spogliato.

LERMONTOW 43

ODER

FATALISTEN DER OSTFRONT

GIACOMO CAVALIERE

Aus dem Italienischen von Clemens Böckmann

Das erste, was ich sah, war eine Hand, die aus dem Eis auftauchte. Der Typhus hatte die Armee verfolgt, seit sie Kiew verlassen hatte. Der Frühling würde die Toten zurück an die Oberfläche bringen, und sie würden gezwungen sein, sie zu verbrennen.

Im Lager war eine Art Taverne eingerichtet worden, mit Bänken, Stühlen und Tischen, und ein Wirt schenkte verblassten Schnaps und Suppe aus. Fast alles, was es zu Essen gab, musste getrunken werden.

Vor uns keine Russen, hinter uns kein Nachschub - telegrafierte General von Kleist vor den Toren des Kaukasus. Ich war Ende Juni einundvierzig Leutnant der "SS-Standarte Kurt Eggers" geworden. Der erste Franzose in der Einheit. Das "Schwarze Korps", die offizielle Zeitschrift der Truppe, beauftragte mich, einen Bericht über die Anwerbung ausländischer Freiwilliger zu schreiben. Auf französisch.

Und so schickte man mich weiter und weiter, bis vor die Tore des Kaukasus und in die karge Steppe von Kalmückien, wo sich der Schwung des Vormarsches verlaufen hatte. Die Rekrutierung von zwanzigtausend Tschetschenen, Kalmuktschiern, Tschuwaschis, Georgiern und Kirgisen hatte die Einheit aus dem Gleichgewicht gebracht; die Zunahme der Muslime irritierte die Christen, die Katholiken, die Orthodoxen und die protestantischen Offiziere, obwohl es dort kaum Deutsche gab. Asien war voll von Völkern, die es nicht einmal wagten, sich Russen zu nennen. Ordnung in den Reihen zu schaffen, war oft komplizierter als in der Zivilbevölkerung. General Erich von dem Bach-Zelewsky musste den Dezimierungsbefehl des Osttürkischen Waffen-Verbandes wegen groben Ungehorsams eigenhändig unterschreiben.

Achtundsiebzig aserbaidschanische, tschetschenische, turkmenische und wolgatarische Milizionäre, muslimische Deserteure der Roten Armee, wurden an die Wand gestellt. Ich hatte gehört, dass dies wegen des Todes eines österreichischen Leutnants geschah, der sie für die Zerstörung eines habsburgischen Friedhofs aus dem Ersten Weltkrieg während ihrer Ausbildung in Galizien bestrafen wollte.

Ein Ataman vom Dnjepr, gekleidet in alle Gewänder der Kosaken-Kavallerie - Dolman in Wadenhöhe, Sturmhaube mit Totenkompf, weißer Schnurrbart nach Art der preußischen Husaren, Divisionsschild mit gekreuzten Krummsäbeln auf violettem Feld -, kam auf mich zu aus der Masse der Soldaten. Er hatte lange Haare und keine Zähne im Mund, aber er sprach besser Deutsch als ich. Übertriebene Sauberkeit beleidigte diese Veteranen vergangener Kriege. So wie in meinen Nasenlöchern der Gestank des Krieges festhing, so litten sie unter der Beleidigung durch meine saubere Wäsche. Ich erkannte die weißen Turbane der turkestanischen Brigade, den osmanischen Halbmond auf dem Schild der aserbaidschanischen Legion und die grünen Fes der Handschar. Derjenige, der von ihnen allen am meisten wie ein deutscher Offizier aussah, war ein alter Spanier mit dem Abzeichen der Division Azul und einer Uniform der Falangisten.

"Sie sehen nicht deutsch aus", sagte der Ataman. Er stellte sich als Kommandeur des 2. Kosakenkorps der Waffen-SS in Kalmückien vor.

"Ich bin Bretone", antwortete ich und bereute sofort, dass ich mich pikiert gezeigt hatte. "Robert Duschesne, Leutnant der SS-Standarte Kurt Eggers, Abteilung Kriegskorrespondenten."

"SS-Oberleutnant?" Er streckte seine schmutzigen Finger aus, um an der Ecke meines Kragens zu zupfen, wo das Abzeichen feststeckte. "Werden die Franzosen jetzt sogar Leutnant?"

"Sie tun alles, um zu überleben."

"So, wie man aus einem Franzosen einen Deutschen macht."

"So, wie man aus einem Russen einen Deutschen macht."

"Ich bin Ukrainer", grunzte er, noch pikanter als ich. Er hatte sich bereits abgewandt, als er mir riet, mich von denen fernzuhalten, die an den Wänden schliefen und von Flöhen zerfressen waren. Ich ging hinter ihm her und fragte ihn nach den Kalmücken. "Die Hälfte von ihnen ist am Tag nach der Eingliederung desertiert. Diese Kerle führen den Krieg auf ihre eigene Art und Weise."

"Und wie?"

"Zu Pferd, mit Pfeil und Bogen." Der Ataman setzte sich zu dem Spanier.

Ich saß noch ein paar Stunden bei ihnen, bis mir jemand eine Schüssel mit dampfender Suppe vor das Gesicht hielt. Ich rümpfte die Nase und wurde von dem Gestank nach Paraffin und Fäulnis übermannt. Aber ich war bereits zu lange dort gewesen, um es zu abzulehnen. Es hatte ein paar Wochen gedauert, bis ich mich mit dem über der offenen Flamme gebackenen Gift im Schnee abgefunden hatte. Während wir dem Koch zusahen, fragte mich der Ataman, ob ich etwas Neues wüsste. Die Verstärkung würde nicht kommen, der Vormarsch würde niemals das Kaspische Meer erreichen, sie seien zu weit vorgedrungen, erläuterte ich. Aber das wusste er schon.

"Die Rückzugsmanöver werden bald beginnen."

"Dein Problem", murmelte er und schüttete sich gierig einen Schluck der heißen Brühe in den Mund.

"Stehen wir nicht alle auf der gleichen Seite?"

"Ich wollte nur Russen töten. Die Deutschen brauchten jemanden, der die Russen für sie tötet. Ihr Franzosen seid doch auch aus demselben Grund hierher gekommen."

Ich blickte berauscht zurück in den kochenden Brei, überrascht von so viel klarer Wahrheit.

"Glauben Sie an Gott, Leutnant?"

"Ich schon."

Der Ataman gab ein Knurren von selbstgefälliger Zufriedenheit von sich. "Und wetten Sie?"

"Manchmal."

Seit der Revolution hatte er gegen Kommunisten gekämpft. Er hatte Österreicher für den Zaren getötet, er hatte Kommunisten für die Weißen getötet und dann wieder für die Polen - der einzige Krieg, der ihm jemals ein vages Gefühl des Sieges gegeben hatte. Er hatte Polen, Russen und Juden für die Ukrainische Volksrepublik getötet, und jetzt tötete er Russen für die Deutschen. Drei Schwestern, drei Großväter und seine Mutter waren während der Revolution von einem Sowjet zum Tode verurteilt worden. Die Kreuzigung stand ihm ins Gesicht geschrieben, als ob er sich sicher war, dass sein Leben keinen anderen Verlauf hätte nehmen können. Er hatte nur ein einziges Laster: Er liebte das Glücksspiel. Man erzählte mir von einer Spielhölle, die er im Bauch einer abgestürzten Tupolev eingerichtet hatte. Sie zündeten ein Feuer an und setzten vierzehn Tage lang alles, was sie aus den Taschen der toten Männer herausholen konnten. Sie spielten Durak und slowenisches Tarot. Der verstümmelte Kadaver des Bombenschützen lag drei Kilometer von der Front entfernt in einer Baumgruppe. Auch nachdem die russischen Haubitzen auf sie aufmerksam geworden waren, machten sie weiter.

Von acht Spielern blieben drei übrig, von denen einer verwundet war und sich nicht mehr bewegen konnte; die anderen waren wie Seifenstücke auf Porzellan aufgesprungen, sobald die Artillerie ihre Schüsse zu gruppieren begann, ohne das Ende der Runde abzuwarten. Eremèič, der Ataman, kam als letzter aus dem Flugzeugwrack. "Sieben sind herausgekommen!", rief er. Er erreichte die übrigen deutschen Kämpfer im Graben, nahm seinen Hut ab und zog drei Rubel, um sie dem Sieger zu übergeben. Welches Schicksal ihm auch immer beschieden sein mochte, er würde nicht mit Schulden sterben.

Eremèič Velentinovič Basaev war zusammen mit dem einbeinigen spanischen Oberstleutnant der ranghöchste Soldat. Die meiste Zeit tat er nichts anderes, als Kindheitsgeschichten aufzuwärmen und Anekdoten über erfolgreiche vergangene Plünderungen zu erfinden, tote Freunde zu betrauern und Vergewaltigungen in ungezügelte Leidenschaft zu verwandeln. Meistens aber ging es um Religion, obwohl das nie die Absicht war. Oder um das Gewissen. Es ging vor allem um die Prädestination, die Moiren, die verschiedenen abrahamitischen Auslegungen des freien Willens. Wer sich schrecklicher Gräuel schuldig macht, tröstet sich gern mit dem Gedanken, dass alles über ihn schon geschrieben und gesagt ist, bevor er es lesen konnte.

Aus der Ferne betrachtet, sahen die Religionen alle gleich aus. Der Spanier war der erste, der ausdrücklich den freien Willen erwähnte. Eine Antwort, die er in einer der langen Pausen der nachdenklichen Stille, die die Reden unterbrachen, einwarf und die mit einem der Sätze, die in jenen Tagen aufgeworfen wurden, verwoben war. Alle drei, vier Stunden stach er sich in den Oberschenkel seines verstümmelten Beins. Dabei wollte er die lauwarme Linderung des Morphiums nicht länger als für ein paar Stunden Schlaf verschwenden.

"Unsere muslimischen Kameraden sind davon überzeugt, dass das Schicksal eines Menschen in den Sternen steht und, dass nichts ohne den Willen des Herrn festgelegt oder entschieden werden kann. Für uns Katholiken ist das nicht viel anders. Ich bin zu der Überzeugung gelangt, dass die Griechen und die Mauren schuld sind. Viele unserer Probleme sind ihre Schuld. Die immateriellen Probleme, fast alle. Klotho, jung und schön, spinnt die Staubgefäße des Lebens. Lachesis, die Mittlere, spinnt die Spindel, bestimmt, wie viel Faden jedem zusteht, wie viel goldener Faden für die guten Tage, wie viel schwarzer Faden für die schlechten. Schließlich Atropos, der alte Bastard, die ihn unweigerlich abschneidet. Hätte ein kleiner Junge, der in der ersten Minute des Kampfes stirbt, weil er seinen Helm abnimmt, ein anderes Schick­sal anstreben können? Inschallah, wenn du das sagst, stirbst du?". Der spanische Invalide sprach zu uns mit der Zuversicht eines Lehrers, der durch das Klassenzimmer schlendert.

"Für mich ist das Leben ein Würfelspiel", sagte ich, "und niemand entscheidet etwas."

"Für mich auch, ich bin sogar bereit, darauf zu wetten", mischte sich Eremèič ein. "Um meinem spanischen Freund zu beweisen, dass er im Unrecht ist, oder besser noch, um herauszufinden, ob ich es bin."

"Und wie wetten wir um die Pläne Gottes?", fragte ich.

"Mit Feuer." Der Ataman schlenderte träge auf die Mauer zu. Er zog einen verrosteten Mosin-Nagant-Revolver aus dem Holster, das an einem Nagel baumelte. Der Rost hatte die Trommel verklemmt, und er musste mehrmals auf den Tisch schlagen, um sie herauszubekommen. Er zeigte dem Publikum die leeren Trommel und die Kugel. Ich verband ihm die Augen, dann nahm ich die Kugel, führte sie in die Kammer ein und drehte die Trommel. Dann setzte ich ihm die Augenbinde wieder ab.

Das Klicken der Trommel weckte das abwesende und unterernährte Publikum wie ein Gongschlag. Ein Aserbaidschaner sprang auf und rollte fünf silberne Rubel auf einen Tisch, andere warfen sich gegenseitig unbezahlte Schulden zu, um die Wette zu decken.

"Ich wette zehn Mark, dass du tot sein wirst", sagte ich und kramte in meinen Taschen. Eine leichte Vorhersage für ein Gesicht, das in den Marmor eines Grabsteins gemeißelt ist. Doch egal, wie das Experiment ausging, ich glaubte nicht, dass es uns viel über Gottes Pläne verraten würde.

"Vielleicht ja, vielleicht nein", antwortete er und entblößte das Innere seines zahnlosen Mundes. Viele waren überzeugt, dass ihr Gott das nicht zulassen würde - so sehr sie sich auch auf verschiedene Gottheiten beriefen, schienen sie doch ähnliche Pläne zu haben und taten so, als wären sie alle für sich allein.

Der mögliche Tod des Atamanen begann die Soldaten zu elektrifizieren und sie warfen alles auf in die Waagschale, was ihnen zum Wetten geblieben war.

"Wenn es doch nur etwas Köstlicheres als den Tod gäbe, um das man wetten könnte", bedauerte der Spanier und umklammerte seinen verschrumpelten Schenkel mit den Händen. Die Soldaten diskutierten über die Möglichkeiten der Kugel, jeder in seiner eigenen Sprache - das Glücksspiel überwand die Grenzen. Eremèič bat mich, eine Karte vom Stapel zu nehmen. Ich wählte sie in aller Ruhe aus: le pendu, der Gehengte. Ich warf sie mit einem Schnippen meines Daumens in die Luft, er setzte die rostige Mündung des Revolvers an seine Schläfe. Die Kante des Papiers prallte vom Tisch ab und kippte um.

Klack!

Das Publikum stieß eine Mischung aus Jubel und Stöhnen aus. Und sofort setzte jemand zum Gegenangriff an, um sein Recht einzufordern. Jemand wandte ein, der Revolver stamme aus dem neunzehnten Jahrhundert, vielleicht sei er seit fünfzig Jahren nicht mehr abgefeuert worden. Er ließ es sich nicht zweimal sagen. Diesmal hielt er sich die Waffe an die Schläfe, um den zweiten Schuss zu abzugeben. Ich warf die Karte in die Luft: Klack!

Das Ergebnis war nicht anders, aber dieses Mal war das Publikum größtenteils zufrieden, dass er so gezielt hatte, wie Gott es wollte. Um die Zweifel zu zerstreuen, bat er um Platz und begann, den Abzug gegen die Wand zu drücken, bis der Schuss losging. Dann hob er den Wetteinsatz vom Tellers und legte zwei Uhren an sein Handgelenk.

"Also", fragte ich, "haben wir bewiesen, dass es ein Schicksal gibt, dem niemand entkommen kann, trotz aller Widrigkeiten?"

"Erst einmal haben wir bewiesen, dass du verloren hast, Franzose."

Ich ging durch das Dorf in einer eisigen Neumondnacht. Die Eisdecke trübte die Nacht und ließ jeden Stern verblassen. Ich folgte dem Weg, der durch die brennenden Kerzen auf den Fensterbänken markiert war, bis zum Haus des Bauern, den ich gebeten hatte, mich aufzunehmen. Nur um am Morgen den Anblick seiner Tochter Nàstja zu genießen. Ich versuchte, ihren Haushalt so wenig wie möglich zu belasten, und brachte ihm alles, was ich konnte, um ihn dafür zu belohnen, dass er ein so entzückendes Geschöpf auf die Welt gebracht hatte, nur damit ich sie kennenlernen konnte. Auf der vereisten Straße stolperte ich über etwas Großes. Ich konnte das Tier erst erkennen, als es von den Laternen zweier turkistanischer Freiwilliger beleuchtet wurde. Ein Hausschwein, von der Schulter bis zum Oberschenkel gehäutet. Sie fragten mich, ob ich ihren Freund Hadschi vorbeigehen gesehen hätte. Er war fünfzehn Jahre alt, auch wenn er ein Ungetüm war. Er war in einer Familie von strengen Ismaeliten aufgewachsen und hatte noch nie Alkohol getrunken. Immer, wenn sie sich einen Spaß daraus machten, seine Milch mit Wodka zu versetzen, drehte er durch und tötete in seinem religiösen Wahn alles, was ihm begegnete. In dem Moment interessierte mich ihre Angelegenheit nicht besonders. Nàstja wartete an der Tür auf mich. Ich streichelte ihre vom Frost gerötete Wange, sagte "gute Nacht", und nahm die Außentreppe zum Dachboden.

Es waren noch keine zwei Stunden vergangen, als ich ein Klopfen an der einzigen heilen Fensterscheibe hörte. Ich schüttelte die vom Frost steif gewordene Decke ab und öffnete den beiden Rekruten aus Turkestan die Tür. "Der Ataman wurde getötet", stammelten sie, mehr aus Kälte als aus Verzweiflung. Ich hätte etwas sagen sollen. "Getötet!", fuhr einer von ihnen fort.

"Es war unser verrückter Freund Hadschi. Er sagt, er sei ein Mujāhid und wolle alle Kuffār töten. Er war derjenige, der die Schweine geschlachtet hat, dieser Verrückte. Er will uns alle verhungern lassen. Der Ataman fragte ihn, warum er das tue. Daraufhin stach er ihm in den Bauch. Bevor er starb, sagte der Kommandeur, ich soll dir sagen, dass er die Wette gewonnen hat".

Der Tschetschene hatte sich in einer Hütte außerhalb des Dorfes verbarrikadiert. Das ganze Dorf drängte sich darum: Soldaten, Räuber, Witwen, alte Männer, Kinder. Er hatte die Fenster verbarrikadiert und betete laut, so laut er konnte, als wolle er sicherstellen, dass man ihn auch im Himmel höre. Der Junge war nicht aus dem Dorf, aber die Frauen weinten, als hätte jede von ihnen ein kleines Stück von ihm geboren.

Ich näherte mich und spähte durch einen Spalt in den Fensterläden. Er hatte aufgehört zu beten. Er lag auf dem Boden, den Kopf zwischen die Knie geklemmt, um nicht auf das Unglück blicken zu müssen, das er verursacht hatte. Keine Waffe außer dem alten türkischen Krummsäbel, der auf dem Boden lag, war zu sehen. Ich sagte den Anderen, dass er keine Bedrohung sei. Der turkestanische Leutnant unterhielt sich währenddessen mit Eremèičs kirgisischem Ersten Offizier - dem neuen Kommandanten der Kosaken -, bevor er zum Fenster ging.

"Du hast gesündigt, Bruder, du musst dich nun dem Urteil Gottes stellen."

Ein Knall zertrümmerte die Lamellen der Fensterläden und streifte die Wange des Kommandanten. Ich hatte falsch geschaut. Jemand zerrte mich hinter den Zaun, während eine Gruppe von Frauen in schwarzen Mänteln darum bettelte, dass der Junge einfach rauskomme. Jemand schoss auf die Tür, ich griff nach dem Gewehr, das noch glühte und warf es auf den Boden. "Ich bringe ihn raus. Lebendig."

Ich bat die Soldaten sich abzuregen und stellte ein paar Sachen vor die Tür. Dann ging ich um das Haus herum und hockte mich hinter eines der Fenster auf der rückliegenden Seite. Ich legte mein Gewehr auf den Boden und zog meine Pistole hervor. Ich spähte durch einen Spalt ins Innere, zu klein, um mehr als einen Schatten zu erkennen, aber die Bretter waren dünn. Mit einem Tritt brachte ich sie zum Zerspringen und sie splitterten zur Seite. Der Putz löste sich vom Aufschlag des Tschetschenen und blendete mich.

Der Schütze lag mit der Hälfte seines Körpers im Haus - und schoss. Einmal, zweimal, viermal, bis ich aus dem Gleichgewicht kam und ins Wohnzimmer fiel. Sie fanden ihn später auf dem Boden, in der Tür eingeklemmt. Sie fesselten ihn mit einem Seil und schleppten ihn nach draußen, damit sein Blut in den Schnee tropfte. Und zu sterben, still und leise.

Selbst wenn ich mit dem Schicksal von Eremèič Recht gehabt hätte, erschien mir das Schicksal und seine Launen nicht weniger nebulös. Ich hatte nie eine Sekunde lang an der Existenz Gottes gezweifelt und würde dies auch in Zukunft nicht tun. Aber tief in meinem Inneren hoffte ich, dass sie alle falsch lagen. Nur die Willkür der Menschen kann so tief in das Unbegreifliche eindringen. Können wir hoffen, anders zu sein als das, was wir sind? Ich hatte das Gefühl, dass ich eine Chance hatte. Und dass ich sie verpasst hatte.

Ich fragte mich allerdings, ob ich die Wette wirklich gewonnen hatte. Jedenfalls war die Leiche des Atamans bereits entkleidet und seine Habseligkeiten verteilt.

THE KILLING

CLEMENS BÖCKMANN

Ist ihr Name Irmtraud Kirschner?

Ja.

Sind Sie 1923 geboren?

Ja.

Sind Sie in Elmshorn geboren?

Soweit es mir bekannt ist.

Sie haben mit 16 die Schule beendet und sich dann später freiwillig bei der SS gemeldet?

Ja, so wurde es mir geraten.

Von wem wurde ihnen das geraten?

Es gab Werbeanzeigen in einer Illustrierten für junge Frauen. Es wurde um Frauen geworben, für einfache Schreibarbeiten.

Sie hatten zuvor eine Ausbildung als Schreibkraft in Elmshorn absolviert?

Das war nicht notwendig.

Nach ihrer Einstellung wurden Sie versetzt ins sogenannte Generalgouvernement?

Das besagen die Akten, ja.

Können Sie sich daran erinnern?

Mir sind nur die Sätze bekannt, die Sie ebenfalls kennen.

Erfolgte diese Versetzung auf ihren Wunsch hin?

Ich hatte nichts dagegen einzuwenden.

Waren Sie als Schreibkraft tätig in einem Ort bekannt als

Stutthof

?

Ja, wenige Wochen oder Monate muss ich dort gewesen sein. Plötzlich befand ich mich in der Nähe dieses Lagers.

Was bedeutet

Nähe

?

Es war eine Stadt. Kurz darauf wurde ich versetzt, weiter nach Osten. Als dort die Arbeit erledigt war, kam ich nach Triest.

Was heißt

die Arbeit war erledigt?

Unsere Aufgabe war beendet. Die letzten Vorgänge wurden ordnungsgemäß abgeschlossen. Danach sind wir gegangen.

Hatten Sie vorher eine Vorstellung, was sich dort zutrug?

Niemand hatte eine Vorstellung, was dort passierte. Und ich kann Ihnen auch heute kaum meine Eindrücke schildern.

Versuchen Sie es.