Rileggendo nel libro di Alfredo
Binet Les altérations de la personnalité quella rassegna di
meravigliosi espe- rimenti psico-fisiologici, dai quali, com’è
noto, si argo- menta che la presunta unità del nostro io non è
altro in fondo che un aggregamento temporaneo scindibile e
modificabile di varii stati di coscienza più o meno chia- ri,
pensavo qual partito potrebbe trarre da questi esperi- menti la
critica estetica per la intelligenza del fenomeno non meno
meraviglioso della creazione artistica, se oggi non fosse venuto in
uso e in vezzo ostentare un sover- chio disdegno per la
intromissione (altri dice intrusione) della scienza nel campo
dell’arte.
Certo, questo disdegno è
suscitato in noi giustamente, almeno in gran parte, dagli eccessi
di alcuni, diciamo così, troppo fantastici professori di critica
antropologica, i quali, pur protestando qualche volta di non volere
en- trar giudici in materia d’arte e di letteratura, seguitano
imperturbabili ad applicare a questo e a quell’artista le loro
elucubrazioni patologiche fondate quasi sempre su l’ignoranza della
materia artistica e letteraria, e perciò sconclusionate. Del resto,
anche quando non si abbia la crassa ignoranza, è ben naturale che
uno studioso, il quale passi da un laboratorio di fisiologia o da
una clini- ca psichiatrica allo studio dei fenomeni estetici, non
rie- sca per quanto faccia, a spogliarsi dell’abitudine di
dare,
nell’esame di questi fenomeni,
una parte preponderante all’importanza che può avere il caso
patologico nelle va- rie espressioni artistiche.
Ricordo che nella ricorrenza del
centenario della na- scita di Giacomo Leopardi un psichiatra e un
antropolo- go, in alcune conferenze ch’erano nel programma delle
feste commemorative romane, si scialarono – tra l’indi- gnazione di
tutto l’uditorio – a dirne d’ogni conio su l’infelice poeta, e che
uno dei due, l’antropologo, com- mentando a suo modo il Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia, ebbe il coraggio di
notare non so che povertà di colore in quel canto sublime, da
attribuire a non so qual difetto o malattia della vista del
Leopardi.
Ebbene, se quell’antropologo
avesse letto nel primo volume dei Pensieri di varia filosofia e di
bella lettera- tura ciò che il Leopardi stesso diceva intorno alla
de- scrizione presso gli antichi e presso i moderni, rispon- dendo
alle osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia moderna o
romantica, si sarebbe accorto che non per difetto o malattia della
vista, bensì di proposito, per intenzione d’arte, il poeta
descriveva e coloriva a quel modo, e non avrebbe detto una così
marchiana bestiali- tà. Rileggendo col lume di quella risposta al
di Breme le poesie, si sarebbe accorto che, nel descrivere, il
Leopar- di pone – per così dire – innanzi a gli occhi del lettore
gli oggetti della natura, senz’altro:
Dolce e chiara è la notte e senza
vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna…
Vuole che i sentimenti, mesti o
lieti che siano, spirino da quegli oggetti naturalmente, da sè. «La
natura, puris- sima, – dice, – tal qual è, tal quale la vedevano
gli anti- chi; le circostanze naturali, non procurate mica a bella
posta, ma venute spontaneamente; quell’albero, quell’uccello, quel
canto, quell’edificio, quella selva, quel monte, tutto da per sè,
senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo
modo di dovei ec- citare questi sentimenti, nè che altri ci
aggiunga, perchè li possa eccitare, nessun’arte». L’arte deve
consister tut- ta nella scelta degli oggetti, nel porli nel loro
vero lume, nel prepararci a riceverne quella data impressione, «do-
vechè, in natura, e gli oggetti di qualunque specie sono fusi
insieme e in vederli spessissimo non ci si bada».
Difficile veramente tenere a
freno l’indignazione o anche, alle volte, una risata, nel vedere
con quanta faci- lità e per quali ragioni questi tali professori di
critica an- tropologica dan patente di pazzia o di degenerazione ad
artisti che, anche per poco, non stiano nella linea d’una astratta
normalità. Tante volte, a tal proposito, ho fatto a me stesso la
domanda: – Ma ci vuol proprio molto a in- tendere che la genialità
non è, fondamentalmente, nè può essere una specie di malattia
mentale? Il pazzo è o prigioniero entro un’idea fissa e angusta o
abbandonato a tutti gli eventi miserevoli d’uno spirito che si
disgrega e si frantuma e si perde nelle proprie idee; senza
varietà
cioè e senza unità: il genio,
invece, è lo spirito che pro- duce l’unità organatrice dalla
diversità delle idee che vi- vono in lui, mediante la divinazione
dei loro rapporti; lo spirito che non si lega ad alcuna idea, la
quale non di- venti tosto principio d’un movimento vitale: unità
cioè e varietà2.
Parimenti è difficile tenere a
freno una risata nel ve- dere come questi professori di critica
antropologica o fi- siologica non riescano a comprendere che se
l’artista, in quel suo libero movimento vitale, talvolta crea leggi
ch’egli stesso ignora, può tal’altra anche sacrificare la così
detta logica comune a un superiore effetto d’arte, perchè il vero
dell’arte, il vero della fantasia non è il vero comune. E non
citerò il vecchio esempio di quel medico che discuteva sul serio e
con molta gravità se la Venere di Milo non avesse per avventura una
lussazione all’anca destra, e quell’altro di Gustavo Teodoro Fech-
ner, ch’era anche medico e nel suo libro Vorschule der Aesthetik
osservava che la Madonna di S. Sisto ha gli occhi troppo grandi e
troppo distanti l’uno dall’altro e scorgeva non so che sintomo
patologico ne la pupilla largamente dilatata del Bambino ch’ella
tiene tra le braccia.
Passando da queste elucubrazioni
patologiche su l’arte a quelle de la metafisica positivistica ed
evoluzio- nistica, alle naturalistiche, alle psicologiche, alle
socio- logiche, ecc. ecc., è difficile non rivoltarsi quando,
per
2
Vedi a questo proposito G.
SÉAILLES Le genie dans l’art – Paris, Alcan.
esempio, lo Spencer nei suoi
Principles of Psycology, dando ai sentimenti estetici una causa
fisiologica, la sca- rica dell’energia esuberante nell’organismo, e
distin- guendone poi i varii gradi, dalla sensazione semplice a uno
stato di coscienza oltre le sensazioni e le percezioni, e
concludendo che la forma più perfetta del sentimento estetico si ha
dall’accordo e dalla simultaneità di questi varii ordini mediante
la piena azione delle facoltà rispet- tive, con la minima deduzione
cagionata da ciò che vi è di doloroso nell’attività eccessiva, mena
la coda di Mi- nosse e giudica e manda l’arte dei Greci e la
medievale e la moderna, che gli pajono ben lungi dalle forme
dell’arte com’egli la intende, accomodata cioè ai suoi principii
fisiologici e morali; o quando il Taine, cercan- do di dare una
forma dimostrativa presa dalle scienze naturali al concetto
dell’evoluzione sorto, secondo lui, dapprima in Germania, e
consistente – com’egli stesso dice – nel rappresentare tutte le
parti di un gruppo come solidali tra loro e complementari, in modo
che a ciascu- na di esse necessita il resto, e tutte unite insieme
mani- festano per via della successione loro e dei loro contrasti
la qualità interiore che le raccoglie e le produce, procla- ma il
principio che non vi ha alcuna differenza di natura tra il mondo
fisico e il morale; che i fenomeni morali sono anch’essi soggetti
al determinismo, proprio come i fenomeni fisici; che la storia
umana rientra nella storia naturale e deve perciò praticarne il
metodo; che se l’uomo è un animale che fa poesie allo stesso modo
come l’ape l’alveare o l’uccello il nido, l’opera d’arte
non deve più sembrarci quale un
giuoco fortuito dell’immaginazione, bensì come il prodotto di
determi- nati fattori e di determinate leggi, e cioè di quella
delle dipendenze e di quella delle condizioni, con le teorie che ne
derivano: del carattere essenziale o della facoltà do- minante,
dalla prima; delle forze primordiali, razza, am- biente, momento,
dalla seconda; e non s’accorge mai che, applicando con un rigore
quasi geometrico questi suoi principii e queste sue teorie e
considerando esclusi- vamente le opere d’arte come effetti
necessarii di forze naturali e sociali, come documenti umani e
segni d’uno stato dello spirito, non penetra mai veramente
nell’inti- mità dell’arte.
Tuttavia, se da un canto son
deplorabili questi ecces- si, queste soggezioni che si vogliono
imporre all’arte, queste deficienze d’estimativa estetica;
dall’altro è inne- gabile che la scienza potrebbe non poco ajutare
e corro- borare la critica letteraria, la quale da noi è spesso o
ari- da e nuda cronaca o retorica superficiale, pedantesca o
cervellotica; ajutare, corroborare, illuminare anche la critica
estetica che, prima metafisicamente macchinosa, ora, a furia
d’escludere e di scartare come estranee o estrinseche tante
questioni e tante vedute, che sono in- vece inerenti all’arte ed
essenziali, si è ristretta special- mente per opera di Benedetto
Croce a un’unica questio- ne, a un’unica veduta, la quale, non
riuscendo ad ab- bracciare tutto il complesso fenomeno artistico,
quando non si sformi allargandosi arbitrariamente, incespica in
continue contraddizioni.
*
Il Croce, com’è noto, stacca
nettamente nella sua Estetica l’arte dalla scienza, non però la
scienza dall’arte; relega l’arte in un primo gradino, la scienza in
un secondo, che presuppone il primo; dice così: «Il rap- porto di
conoscenza intuitiva o espressione, e di cono- scenza intellettuale
o concetto, di arte e di scienza, di poesia e di prosa, non si può
significare altrimenti se non dicendo ch’è quello di doppio grado.
Il primo grado è l’espressione, il secondo il concetto: il primo
grado può star senza il secondo, il secondo non può star senza il
primo».
Tutto il rapporto è assolutamente
arbitrario, e l’arbi- trio consiste appunto nell’avere fin da
principio staccato con un taglio netto le varie attività e funzioni
dello spiri- to, che sono in intimo inscindibile legame e in
continua azione reciproca; nell’avere scisso la compagine della
coscienza, considerandone solo una parte, che soltanto per
astrazione può immaginarsi disgiunta dalle altre, e nell’aver
fondato l’arte su questa.
Naturalmente da questo arbitrio
non poteva venir fuo- ri che un’Estetica astratta, monca e
rudimentale.
Il Croce, com’è noto, pone due
forme o attività dello spirito, una teoretica, distinta in
intuitiva e in intelletti- va, e una pratica. Con la forma
teoretica, egli dice, l’uomo comprende le cose: con la forma
pratica le va mutando: con la prima si appropria l’universo, con
l’altra lo crea.
Dato che una separazione possa
farsi, parrebbe a tutti che l’arte dovesse piuttosto consistere
nella seconda for- ma o attività, che implica la mutazione delle
cose e la creazione, non la semplice comprensione di esse.
Ebbene, no: il Croce considera
l’arte come attività teoretica, come conoscenza nel primo momento
della in- tuizione, e dà fuori quindi un’Estetica
intellettualistica senza intelletto, fondata tutta su le sole
rappresentazioni, naturalmente soltanto in base a un procedimento
logico, e dunque astratta, come dicevo, monca e rudimentale.
L’arte, egli dice esplicitamente,
è conoscenza, è for- ma: non appartiene al sentimento o alla
materia psichi- ca.
È noto che il Kant faceva delle
sensazioni la «mate- ria» della coscienza e della «sintesi» (che
corrisponde alla «riflessione» del Locke) la «forma» di essa.
Tanto il Locke quanto il Kant non
consideravano se non un lato solo della vita psichica, quello cioè
delle rappresentazioni, della conoscenza. La forma del Kant
consisteva dunque in un processo intellettuale. Il Croce,
appigliandosi a un passo della Critica della ragion pura, dove lo
stesso Kant, parlando della dottrina trascenden- tale degli
elementi, distingue una forma, che non è la materia bruta della
sensazione e non è neanche ciò che vi aggiunge l’intelletto (il
concetto), e parla di una tra- scendentale Aesthetik, il Croce,
dicevo, chiama forma, invece, l’insieme dei principii a priori
della sensibilità, cioè l’intuizione pura: attività, teoretica
bensì, ma non intellettuale; e su questa edifica la sua Estetica,
ch’io
perciò ho definito più su
intellettualistica senza intellet- to: intellettualistica perchè,
anche ammesso che si possa dare davvero una conoscenza intuitiva
libera d’ogni ri- ferimento intellettuale, risulta sempre fondata
su la co- noscenza, cioè su un fattore solo della coscienza, la
rap- presentazione, astrazion fatta non solo dai sentimenti e dagli
impulsi che l’accompagnano, ma anche dalle rap- presentazioni della
memoria che possono mescolarsi ad essa.
E la teoria del Croce, come
vedremo, raggiunge gli estremi di quella teoria intellettualistica
del Herbart, per il quale la coscienza era costituita da un
meccanismo delle rappresentazioni, ritenute da lui come l’unico
ele- mento psichico primitivo e nel loro continuo andare e venire
non soggette a trasformazione.
Escludendo il sentimento e la
volontà, cioè gli ele- menti soggettivi dello spirito, e fondando
l’arte sola- mente su la conoscenza intuitiva, dicendo cioè che
l’arte è conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato vera-
mente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dal
meccanismo.
Il modo dell’essere e la qualità
son dati dalla volontà e dai sentimenti: prima, abbiamo l’oggetto
senza un modo d’essere determinato e senza valore. E come pos-
siamo concepir davvero quest’oggetto, se non per astra-
zione?
La conoscenza teoretica del Croce
non ci può dare dunque che un’astrazione, la obiettivazione delle
cose, come può farla una qualunque scienza naturale.
Come nel mondo fisico regna
l’equivalenza di causa ed effetto, così nel mondo estetico del
Croce regna l’equazione: intuizione-espressione. Come la causalità
fisica forma un tutto chiuso in sè, limitato da questa fer- rea
legge dell’equivalenza di causa ed effetto, così l’atti- vità
estetica è considerata dal Croce come affatto indi- pendente.
E come tutto il mondo fisico
forma un meccanismo rigido, nel quale si possono prevedere con
sicurezza gli effetti che da certe determinate cause derivano, così
il mondo estetico del Croce forma un meccanismo altret- tanto
rigido. Nè potrebbe essere altrimenti, dato il suo modo di concepir
l’Estetica.
Il fatto estetico, com’egli lo
intende, ha inevitabil- mente tutti i caratteri del fatto fisico
isolato per astrazio- ne, cioè i caratteri di necessità, di
fissità, assenza di fini e valore soltanto quantitativo.
Che cos’è l’intuizione per il
Croce? L’atto dello spiri- to che forma, nè più nè meno – così, in
astratto. Non questa o quella forma, modo d’essere, qualità: no:
sola- mente l’atto dello spirito che forma, in astratto. Tutta la
sua Estetica è qui. Egli non può vedere necessariamente, nè
ammettere altro; o almeno, se potesse star fermo nel- la sua
teoria, non dovrebbe vedere e ammetter altro. So- stiene infatti in
principio che non vi è alcuna differenza, se non quantitativa, tra
l’intuizione in genere e l’intui- zione artistica; «ciò che
comunemente si chiama, per antonomasia, l’arte, coglie intuizioni
più vaste e com- plesse di quelle comuni» – nient’altro – «i limiti
delle
impressioni e intuizioni che si
dicono arte verso quelle che volgarmente si dicono non–arte, sono
empirici: è impossibile definirli. Un epigramma appartiene
all’arte; perchè no una semplice parola?» Limiti empirici, que-
stione di più o di meno. Naturalmente: perchè per lui si tratta
soltanto di oggettivare un’impressione della realtà, non di dare
della realtà un’interpretazione soggettiva3. Sembra paradossale?
Sì, risponde il Croce, sembra para- dossale per l’illusione o
pregiudizio che noi intuiamo della realtà più di quanto
effettivamente ne intuiamo, che è poca cosa «e consiste in piccole
espressioni; che si fanno via via maggiori e più ampie solo con la
crescente concentrazione spirituale in dati momenti». Ecco: cre-
scente concentrazione spirituale in dati momenti: non si tratta
d’altro. Perchè «non si può ammettere, – soggiun- ge il Croce poco
dopo, – che la intuizione, che si dice di
3
Giustamente il Cesareo, il
quale riconosce che l’arte non è nè può essere semplice conoscenza,
si domanda: «Che divario c’è egli fra l’intuizione comu- ne e
l’opera d’arte? Cento, mille, diecimila persone si levano di
buon’ora e guardano un’alba in Lombardia. Tutti gli altri si
contentano d’esclamare: Bell’alba: Alessandro Manzoni scrive: «Il
cielo prometteva una bella giornata» col rimanente della mirabile
descrizione che si ritrova nel cap. XVII dei Pro- messi Sposi. In
che differiscono le due espressioni? Ecco: i primi hanno perce-
pito quell’alba come uno spettacolo estraneo alla loro coscienza,
come qualco- sa che venisse di fuori, e dicendo: – Bell’alba! –
hanno creduto di non far altro che esprimere una realtà oggettiva
la quale sembra la stessa per tutti. Il Manzo- ni invece diede
dell’alba un’espressione nuova, perchè tutta impregnata della sua
coscienza individuale; le sue sensazioni, le sue immagini, le sue
determina- zioni egli sa bene che non esistevan già nel fenomeno,
ma sono un prodotto della sua attività fantastica: tanto vero che
niun altro le avrebbe trovate; egli in somma non ha rappresentato
la realtà oggettiva, ma ne ha dato una sua inter- pretazione
soggettiva e caratteristica. V. La critica estetica nel vol.
Critica mi- litante, Messina, Trimarchi ed. 1907.
solito artistica, si diversifichi
dalla comune come intui- zione intensiva. La funzione artistica
spazia più larga- mente, in campi diversi, ma con metodo non
diverso da quello dell’intuizione comune, la differenza tra l’una e
l’altra è perciò non intensiva ma anzi estensiva». Curio- sa, una
concentrazione non intensiva, anzi estensiva!
Ma lasciamo andare!
Il Croce vorrebbe sfuggire alle
strette del meccani- smo e dimostrare la natura ideale della sua
conoscenza intuitiva. Ora, certo, le rappresentazioni non
coincidono con gli oggetti del così detto mondo esterno: sono
anch’esse fatti soggettivi della coscienza e oggettivi sono
solamente in quanto si riferiscono agli oggetti este- riori e
costituiscono il materiale su cui si edifica il così detto mondo
esterno. Nessuna cosa penetra nel nostro spirito, che subito non
divenga simile ad esso. Ma per- chè questo? Perchè se noi
ristabiliamo l’unità della co- scienza, considerandola non più dal
solo lato rappresen- tativo, ma nel suo duplice aspetto, oggettivo
e soggetti- vo, troviamo subito mutate del tutto le condizioni:
muta- te le rappresentazioni per gli elementi soggettivi del sen-
timento e dell’impulso, perduto quel carattere di fissità che esse
avevano per sè sole, isolate per astrazione. L’intuizione, dunque,
non può essere semplice cono- scenza, se non per una astrazione,
che se può avere un valore logico, non ne ha però alcuno nella
realtà. Tanto è vero questo che il Croce, volendo discendere
dall’astrazione alla realtà, offende la logica prima con una
petizione di principio, poi con un sofisma e in fine
con una contraddizione. Non
vorrebbe distinguere affat- to tra percezione e intuizione, cioè
secondo che noi co- gliamo l’oggetto nella sua composizione reale o
impie- ghiamo un’attività cosciente nel coglierlo, o meglio, se-
condo l’importanza che attribuiamo nel primo caso all’obbiettività
dell’atto della rappresentazione e, nel se- condo, alla
subbiettività di quest’atto: nè vorrebbe poi distinguere tra
intuizione e rappresentazione dell’imma- ginazione, quando cioè
l’oggetto non sia più reale, ma puramente fittizio. Non vorrebbe
distinguere, perchè – egli dice – «le percezioni della stanza nella
quale scrivo, del calamaio o della carta che ho innanzi, della
penna che ho tra mano, di questi oggetti che tocco e adopro come
istrumenti dalla mia persona, la quale, se scrive, dunque esiste;
sono intuizioni. Ma è egualmente intui- zione l’immagine che ora mi
passa pel capo di un me che scrive in un’altra stanza, in un’altra
città, con carta, penna e calamaio diversi. Il che vuol dire che la
distin- zione di realtà e di non realtà è secondaria ed estranea
all’indole dell’intuizione».
Ecco la petizione di principio:
egli afferma ciò che dovrebbe dimostrare, che cioè non vi sia
alcuna diffe- renza tra i varii atti dello spirito, secondo che
esso per- cepisce o intuisce o si foggia una rappresentazione im-
maginaria, o meglio, tra l’importanza obiettiva o subiet- tiva che
attribuiamo a quest’atto. «Supponendo, – egli soggiunge, – uno
spirito umano che per la prima volta intuisce, sembra ch’egli non
possa intuire se non realtà effettiva, ossia non aver se non
percezioni del reale. Ma,
giacchè la coscienza della realtà
si basa sulla distinzione d’immagini reali e d’immagini irreali, e
questa distin- zione nel primo momento non esiste, quelle
percezioni non saranno, in verità, nè del reale nè dell’irreale; ma
semplici intuizioni. Dove tutto è reale, niente è reale».
Ed ecco il sofisma. Implica
l’intuizione un’attività co- sciente dello spirito? Sì, se non si
vuole scambiarla con la sensazione bruta. Ora, se uno spirito umano
che per la prima volta intuisce è cosciente, e la coscienza della
realtà si basa sulla distinzione d’immagini reali e d’immagini
irreali, esso non può non distinguere tra quelle; e dunque
l’intuizione non è – come il Croce so- stiene – l’unità
indifferenziata della percezione del reale e della semplice
immagine del possibile. Tanto non è, che egli stesso, il Croce, più
là, è costretto a negare quest’unità indifferenziata e a
distinguere – contraddi- cendosi – reale ed irreale, l’intuizione
storica, che pre- senta il mondo o la realtà qual’essa è
empiricamente, e l’intuizione fantastica, che lo prolunga entro i
confini del possibile, ossia dell’immaginabile.
Ma anche questa distinzione, egli
dice, è empirica. Certo: tutte le distinzioni per lui debbono esser
per forza empiriche se, tenendosi ostinatamente fermo, nel suo ra-
gionamento astratto che ha formulato la teoria dell’intuizione:
atto dello spirito che forma, non vuol di- scendere al fatto, al
concreto, che è il vero regno dell’arte.
Esiste il concetto come concetto?
È sempre questo o quel concetto. Così la forma come forma non
esiste: è
sempre questa o quella forma. La
costanza del concetto, come la costanza della forma non possono
esistere se non teoreticamente. Costante, ma non uguale, e solo
astrattamente può esser l’atto dello spirito nell’assurgere alla
forma o al concetto; ma se dall’astratto passiamo al concreto, non
sono più costanti nè la forma nè il concet- to. Il Croce non vede e
non vuol vedere altro che l’atto. E come lo vede? Meccanico, per
necessità. Vorrebbe ne- gare questo meccanismo, ma ogni negazione
implica per forza una contraddizione alla sua teoria.
Pone l’equazione: intuizione =
espressione. Ogni vera intuizione e rappresentazione è, insieme,
espressione. Ciò che non si oggettiva in un’espressione non è
intui- zione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità.
L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime... Come possiamo
intuir davvero una figura geometrica se non ne abbiamo così netta
l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla
carta o sulla lavagna? Come possiamo intuir davvero il contorno di
un paese, per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in grado
di disegnarlo così come lo vediamo in tutti i suoi mean- dri?»
Ebbene, non è meccanismo questo? La rappresen- tazione e la
conseguente espressione come qualcosa di fisso, d’immutabile. «Il
pittore è pittore perchè vede ciò che altri sente solo o intravede,
ma non vede. Un sorriso crediamo di vederlo, ma in realtà ne
abbiamo solo la vaga impressione, non ne scorgiamo i tratti
caratteristici da cui risulta, come, dopo averci lavorato intorno,
li scorge il pittore che perciò può fermarlo sulla tela». Non
è meccanismo questo? Questione di
più e meno: se noi intuissimo nella misura con cui intuisce il
pittore, scor- geremmo i tratti caratteristici del sorriso, e li
esprime- remmo così tali e quali, come se fossero davvero nel
sorriso quei tratti caratteristici! E per questo appunto il Croce
può dire che dalle qualità del contenuto alle qua- lità della forma
non vi è passaggio e che ogni espressio- ne esclude le altre.
Meccanismo, dunque, fissità,
necessità, differenza quantitativa: tutti i caratteri del fatto
fisico, ch’egli tra- sporta al fatto spirituale, teorico, cioè
astratto.
Se da questo fatto teorico,
astratto, scendiamo al con- creto, e poniamo otto pittori
ugualmente bravi a ritrarre su la tela qualcuno che sorrida, tutti
e otto esprimeranno diversamente quel sorriso. Sì, si proverà a
rispondere il Croce, perchè ciascuno esprimerà la propria
impressio- ne, il proprio contenuto: in questo senso ho detto che
dalle qualità del contenuto alle qualità della forma non vi è
passaggio e che ogni espressione esclude le altre, cioè
relativamente alla impressione.
– Oh bravo! Ma che cosa ha dato
un modo d’essere, una qualità al contenuto? che cosa ha reso
diverse le sin- gole impressioni? Proprio quegli elementi
soggettivi della coscienza, ch’egli ha esclusi, dicendo che l’arte
è conoscenza e non appartiene al sentimento e alla mate- ria
psichica.
E non si può dire veramente che
il problema non gli si sia nemmeno affacciato: egli lo discute, e
dice proprio così: «Si è pensato talvolta che il contenuto, per
essere
contenuto estetico, ossia
trasformabile in forma, doves- se avere alcune qualità determinate
o determinabili. Ma, se ciò fosse, la forma sarebbe un fatto
medesimo col contenuto, l’espressione con l’impressione. Il
contenuto è, sì, il trasformabile in forma, ma finchè non si sia
tra- sformato, non ha qualità determinabile: noi non ne sap- piamo
nulla. Esso diventa contenuto estetico non prima, ma solo quando si
è effettivamente trasformato».
Ora, ragioniamo un po’. Se il
contenuto prima di di- ventar forma non ha qualità determinate o
determinabili, vuol dire che le qualità di esso si possono
determinare dalla forma, non già che non abbia qualità: la forma
anzi
– viene a dire il Croce – è
determinata dalla qualità del contenuto; date espressioni, date
impressioni: da una qualità all’altra non vi è passaggio. Orbene,
ammettendo questo e anche restringendo l’arte, come fa il Croce, a
questa forma ch’è oggettivazione meccanica delle quali- tà del
contenuto, essa non sarà più semplice conoscenza, in quanto che la
forma implica inevitabilmente già il modo d’essere e la qualità del
contenuto, se non vuol es- sere un’astrazione. Ma questa qualità
del contenuto non ha per sè, in arte, alcun valore e non ne ha
dunque nean- che la forma che la determina con la ferrea legge
dell’equivalenza di causa ed effetto, perchè l’arte non consiste in
questa oggettivazione meccanica della quali- tà del contenuto, ma
nella interpretazione soggettiva di queste qualità determinate
dalla forma, come il Croce la intende, cioè oggettivate
dall’intuizione.
L’arte dunque non è semplice
conoscenza. La forma di cui egli parla è oggettivazione meccanica,
fissa, im- mutabile, proprio quella che in arte non ha alcun
valore; l’intuizione che non è ridivenuta sentimento e impulso. E
tutta la teoria estetica del Croce crolla.
Stimo perciò inutile rilevare le
conseguenze inaudite a cui egli è trascinato dal procedimento
logico della sua astrazione.
Il fatto estetico non può
consistere nel meccanismo dell’equazione posta da lui a fondamento
della sua Este- tica. Molti hanno accolto questa equazione, perchè
non han compreso veramente che cosa il Croce intendesse per
intuizione e che per espressione. Quando noi abbia- mo considerato
nella nostra coscienza le percezioni e le rappresentazioni della
memoria, le idee, i concetti, in- somma le forme varie della
conoscenza, e dall’altro can- to i sentimenti, gli impulsi,
desiderii, risoluzioni, insom- ma le forme varie della parte
soggettiva della coscienza, senz’alcuna priorità dell’una forma su
l’altra, ma questi e quegli elementi in intima connessione e in
continua azione reciproca, non avremo neanche allora il fatto
estetico, ma solamente e semplicemente il fatto psichi- co,
comune.
Perchè il fatto estetico avvenga,
bisogna che si abbia non la espressione, la forma astratta,
meccanica, oggetti- va della intuizione, ma la soggettivazione di
essa; per- chè il fatto estetico avvenga, bisogna, in altri
termini, che l’intuizione non sia l’impressione formata
astratta-
mente, meccanicamente,
oggettivamente, ma la forma concreta, libera e soggettiva d’una
impressione.
Questa concretezza, questa
libertà, questa soggettività
– può domandarci il Croce – non
sono già nella intuizio- ne, conoscenza dell’individuale? No, gli
rispondiamo noi, perchè, finchè c’è semplice: conoscenza, non ci
può esser altro che astrazione: cioè la forma astratta, oggetti-
va, meccanica dell’individuale. Perchè sia concreta, li- bera,
soggettiva, questa forma dell’individuale bisogna che cessi d’esser
semplice conoscenza e ridiventi senti- mento e impulso: non la
forma d’una impressione indi- viduale, ma la forma individuale
d’una impressione; non quella Bell’alba, di cui parla il Cesareo
nella nota a pag. 17 e seg, ma la bell’alba descritta dal Manzoni
nel cap. XVII dei Promessi Sposi.
Questione di più o meno,
quantitativa? No! Perchè quella è una forma astratta, oggettiva,
meccanica, e que- sta una forma concreta, libera, soggettiva. La
differenza è qui, ed è qualitativa, non quantitativa, giacchè non
dobbiamo misurar la quantità della qualità oggettiva, ma la qualità
della quantità espressiva; non la qualità astrat- ta di quell’alba,
ma la qualità concreta nella forma del Manzoni: la qualità,
insomma, non del contenuto ogget- tivato, che non importa nulla, ma
della forma soggetti- va, che è tutto. L’arte, insomma, è creazione
della for- ma, non intuizione del contenuto: e dunque è proprio, se
vogliamo usare i termini del Croce, l’intuizione d’una intuizione.
Essa non è tutta in materia – forma, come il Croce la vede, ma in
materia – forma – materia. Tant’è