I
Aspetta qua, - disse il Bandi al
D'Andrea. - Vado a prevenirla. Se s'ostina ancora, entrerai per
forza.
Miopi tutti e due, parlavano
vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro. Parevano
fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri,
rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino,
con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro,
l'uno non aggiustasse all'altro col dito il sellino delle lenti sul
naso, o il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando
nulla da aggiustare, non toccasse all'altro i bottoni della giacca.
Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della
loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei
volti.
Cresciuti insieme, avevano
studiato ajutandosi a vicenda fino all'Università, dove poi l'uno
s'era laureato in legge, l'altro in medicina. Divisi ora, durante
il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora
insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale
all'uscita del paese.
Si conoscevano così a fondo, che
bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l'uno
comprendesse subito il pensiero dell'altro. Dimodoché quella loro
passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e
seguitavano poi in silenzio, come se l'uno avesse dato all'altro da
ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli
stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due
veniva mai la tentazione di volgere un po' il capo verso la
ringhiera del viale per godere la
vista dell'aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di
valli e di piani, col mare in fondo, che s'accendeva tutto agli
ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva
perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti così,
senza neppure voltarsi a guardare.
Giorni addietro il Bandi aveva
detto al D'Andrea:
-
Eleonora non sta bene.
Il D'Andrea aveva guardato negli
occhi l'amico e compreso che il male della sorella doveva esser
lieve:
-
Vuoi che venga a
visitarla?
-
Dice di no.
E tutti e due, passeggiando,
s'erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per
rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui
dovevano tutto.
Il D'Andrea aveva perduto da
ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa d'uno zio, che non
avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di lui.
Eleonora Bandi, rimasta orfana anch'essa a diciotto anni col
fratello molto più piccolo di lei, industriandosi dapprima con
minute e sagge economie su quel po' che le avevano lasciato i
genitori, poi lavorando, dando lezioni di pianoforte e di canto,
aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche l'amico
indivisibile di lui.
-
In compenso però, - soleva
dire ridendo ai due giovani - mi son presa tutta la carne che manca
a voi due.
Era infatti un donnone che non
finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti del volto, e
l'aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle
chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi
neri, che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce
armoniosa pareva volessero anch'essi attenuare, con un certo studio
che le dava pena, l'impressione d'alterigia che quel suo corpo così
grande poteva destare sulle prime; e ne sorrideva mestamente.
Sonava e cantava, forse non molto
correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e
cresciuta fra i pregiudizii d'una piccola città e non avesse avuto
l'impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata alla
vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno;
nient'altro che un sogno però. Aveva ormai circa quarant'anni. La
considerazione, del resto, di cui godeva in paese per quelle sue
doti artistiche la compensavano, almeno in parte, del sogno
fallito, e la soddisfazione d'averne invece attuato un altro,
quello cioè d'avere schiuso col proprio lavoro l'avvenire a due
poveri orfani, la compensavano del lungo sacrifizio di se
stessa.
Il dottor D'Andrea attese un buon
pezzo nel salotto, che l'amico ritornasse a chiamarlo.
Quel salotto pieno di luce,
quantunque dal tetto basso, arredato di mobili già consunti,
d'antica foggia, respirava quasi un'aria d'altri tempi e pareva
s'appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro,
dell'immobile visione della sua antichità scolorita. I vecchi
ritratti di famiglia appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e
soli inquilini. Di nuovo, c'era soltanto il pianoforte a mezzacoda,
il pianoforte d'Eleonora, che le figure effigiate in quei ritratti
pareva guardassero in cagnesco.
Spazientito, alla fine, dalla
lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia, sporse il
capo, udì piangere nella camera di là, attraverso l'uscio chiuso.
Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a
quell'uscio.
-
Entra, - gli disse il
Bandi, aprendo. - Non riesco a capire perché s'ostina così.
-
Ma perché non ho nulla! -
gridò Eleonora tra le lagrime.
Stava a sedere su un ampio
seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e pallida;
ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva più che
mai strano, e forse più ambiguo che strano, per un certo
indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch'ella voleva
tuttavia dissimulare.
-
Non ho nulla, v'assicuro,
- ripeté più pacatamente. - Per carità, lasciatemi in pace: non vi
date pensiero di me.
-
Va bene! - concluse il
fratello, duro e cocciuto. - Intanto, qua c'è Carlo. Lo dirà lui
quello che hai. - E uscì dalla camera, richiudendo con furia
l'uscio dietro di sé.
Eleonora si recò le mani al volto
e scoppiò in violenti singhiozzi. Il D'Andrea rimase un pezzo a
guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò:
-
Perché? Che cos'ha?
Non può dirlo neanche a me?
E come Eleonora seguitava a
singhiozzare, le s'appressò, provò a scostarle con fredda
delicatezza una mano dal volto:
-
Si calmi, via; lo dica a
me; ci son qua io.
Eleonora scosse il capo; poi,
d'un tratto, afferrò con tutt'e due le mani la mano di lui,
contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette:
-
Carlo! Carlo!
Il D'Andrea si chinò su lei, un
po' impacciato nel suo rigido contegno.
-
Mi dica...
Allora ella gli appoggiò una
guancia su la mano e pregò disperatamente, a bassa voce:
-
Fammi, fammi morire, Carlo;
ajutami tu, per carità! non trovo il modo; mi manca il coraggio, la
forza.
-
Morire? - domandò il
giovane, sorridendo. - Che dice? Perché?
-
Morire, sì! - riprese
lei, soffocata dai singhiozzi. - Insegnami tu il modo. Tu sei
medico.
Toglimi da questa agonia, per
carità! Debbo morire. Non c'è altro rimedio per me. La morte
sola.
Egli la fissò, stupito. Anche lei
alzò gli occhi a guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di
nuovo il volto e restringendosi in sé, quasi colta da improvviso,
vivissimo ribrezzo.
-
Sì, sì, - disse poi,
risolutamente. - Io, sì, Carlo: perduta! perduta! Istintivamente il
D'Andrea ritrasse la mano, ch'ella teneva ancora tra le sue.
-
Come! Che dice? -
balbettò.
Senza guardarlo, ella si pose un
dito su la bocca, poi indicò la porta:
-
Se lo sapesse! Non
dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi, dammi qualche
cosa: la prenderò come una medicina; crederò che sia una medicina,
che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio, non ho
coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest'agonia, senza
trovar la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu,
Carlo, che dici?
-
Che ajuto? - ripeté il
D'Andrea, ancora smarrito nello stupore.
Eleonora stese di nuovo le mani
per prendergli un braccio e, guardandolo con occhi supplichevoli,
soggiunse:
-
Se non vuoi farmi
morire, non potresti... in qualche altro modo... salvarmi?
Il D'Andrea, a questa proposta,
s'irrigidì più che mai, aggrottando severamente le ciglia.
-
Te ne scongiuro, Carlo! -
insistette lei. - Non per me, non per me, ma perché Giorgio non
sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per
te, ajutami ora, salvami! Debbo finir così, dopo aver fatto tanto,
dopo aver tanto sofferto? così, in questa ignominia, all'età mia?
Ah, che miseria! che orrore!
-
Ma come, Eleonora? Lei!
Com'è stato? Chi è stato? - fece il D'Andrea, non trovando, di
fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la sua
curiosità sbigottita.
Di nuovo Eleonora indicò la porta
e si coprì il volto con le mani:
-
Non mi ci far pensare!
Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa
vergogna?
-
E come? - domandò il
D'Andrea. - Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi
dica: non si potrebbe in qualche altro modo... rimediare?
-
No! - rispose lei,
recisamente, infoscandosi. - Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne
posso più... Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone,
rilassò le membra: sfinita.
Carlo D'Andrea, con gli occhi
fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un pezzo, senza
trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, né
riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio,
specchio di virtù, d'abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa.
Possibile? Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventù, per amore del
fratello, rifiutato tanti partiti, uno più vantaggioso dell'altro!
Come mai ora, ora che la gioventù era tramontata... - Eh! ma forse
per questo...
La guardò, e il sospetto, di
fronte a quel corpo così voluminoso, assunse all'improvviso, agli
occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio e osceno.
-
Va', dunque, - gli disse a un
tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo, in quel
silenzio, si sentiva addosso l'inerte orrore di quel sospetto negli
occhi di lui. - Va', va', a dirlo a Giorgio, perché faccia subito
di me quello che vuole. Va'.
Il D'Andrea uscì, quasi
automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per vederlo uscire;
poi, appena richiuso l'uscio, ricadde nella positura di
prima.
II
Dopo due mesi d'orrenda angoscia,
quella confessione del suo stato la sollevò, insperatamente.
Le parve che il più, ormai, fosse
fatto.
Ora, non avendo più forza di
lottare, di resistere a quello strazio, si sarebbe abbandonata,
così, alla sorte, qualunque fosse.
Il fratello, tra breve, sarebbe
entrato e l'avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio! Non aveva più
diritto a nessuna considerazione, a nessun compatimento. Aveva
fatto, sì, per lui e per quell'altro ingrato, più del suo dovere,
ma in un momento poi aveva perduto il frutto di tutti i suoi
benefizi.
Strizzò gli occhi, colta di nuovo
dal ribrezzo.
Nel segreto della propria
coscienza, si sentiva pure miseramente responsabile del suo fallo.
Sì, lei, lei che per tanti anni aveva avuto la forza di resistere a
gli impulsi della gioventù, lei che aveva sempre accolto in sé
sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio
sacrifizio come un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria!
miseria!
L'unica ragione che sentiva di
potere addurre in sua discolpa, che valore poteva avere davanti al
fratello? Poteva dirgli: «Guarda, Giorgio, che sono forse caduta
per te»? Eppure la verità era forse questa.
Gli aveva fatto da madre, è vero?
a quel fratello. Ebbene: in premio di tutti i benefizi lietamente
prodigati, in premio del sacrifizio della propria vita, non le era
stato concesso neanche il piacere di scorgere un sorriso, anche
lieve, di soddisfazione su le labbra di lui e dell'amico. Pareva
che avessero entrambi l'anima avvelenata di silenzio e di noja,
oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s'eran
subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con
tanto accanimento che in poco tempo erano riusciti a bastare a se
stessi. Ora, questa fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a
entrambi non ne paresse l'ora, l'aveva proprio ferita nel cuore.
Quasi d'un tratto, così, s'era trovata senza più scopo nella vita.
Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano più
bisogno di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la
gioventù.
Neanche coi primi guadagni della
professione era tornato il sorriso su le labbra del fratello.
Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch'ella aveva fatto per
lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la
vita, condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventù, la
libertà dei proprii sentimenti alla sorella? E aveva voluto
parlargli a cuore aperto:
-
Non prenderti nessun
pensiero di me, Giorgio! Io voglio soltanto vederti lieto,
contento... capisci?
Ma egli le aveva troncato subito
in bocca le parole:
-
Zitta, zitta! Che dici? So
quel che debbo fare. Ora spetta a me.
-
Ma come? così? - avrebbe
voluto gridargli, lei, che, senza pensarci due volte, s'era
sacrificata col sorriso sempre su le labbra e il cuor
leggero.
Conoscendo la chiusa, dura
ostinazione di lui, non aveva insistito. Ma, intanto, non si
sentiva di durare in quella tristezza soffocante.
Egli raddoppiava di giorno in
giorno i guadagni della professione; la circondava d'agi; aveva
voluto che smettesse di dar lezioni. In quell'ozio forzato, che la
avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero che,
dapprincipio, quasi l'aveva fatta ridere:
«Se trovassi marito!».
Ma aveva già trentanove anni, e
poi con quel corpo... oh via! - avrebbe dovuto fabbricarselo
apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l'unico mezzo per liberar
sé e il fratello da quell'opprimente debito di gratitudine.
Quasi senza volerlo, s'era messa
allora a curare insolitamente la persona, assumendo una cert'aria
di nubile che prima non s'era mai data.
Quei due o tre che un tempo
l'avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai moglie e figliuoli.
Prima, non se n'era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava
dispetto; provava invidia di tante sue amiche che erano riuscite a
procurarsi uno stato.
Lei sola era rimasta
così...
Ma forse era in tempo ancora: chi
sa? Doveva proprio chiudersi così la sua vita sempre attiva? in
quel vuoto? doveva spegnersi così quella fiamma vigile del suo
spirito appassionato? in quell'ombra?
E un profondo rammarico l'aveva
invasa, inasprito talvolta da certe smanie, che alteravano le sue
grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue risa. Era
divenuta pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto
lei stessa del cangiamento della propria indole; provava in certi
momenti quasi odio per se stessa, repulsione per quel suo corpo
vigoroso, ribrezzo dei desiderii insospettati in cui esso, ora,
all'improvviso, le s'accendeva turbandola profondamente.
Il fratello, intanto, coi
risparmi, aveva di recente acquistato un podere e vi aveva fatto
costruire un bel villino.
Spinta da lui, vi era andata
dapprima per un mese in villeggiatura; poi, riflettendo che il
fratello aveva forse acquistato quel podere per sbarazzarsi di
tanto in tanto di lei, aveva deliberato di ritirarsi colà per
sempre. Così, lo avrebbe lasciato libero del tutto: non gli avrebbe
più dato la pena della sua compagnia, della sua vista, e anche lei
a poco a poco, là, si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di
trovar marito all'età sua.
I primi giorni eran trascorsi
bene, e aveva creduto che le sarebbe stato facile seguitare
così.
Aveva già preso l'abitudine di
levarsi ogni giorno all'alba e di fare una lunga passeggiata per i
campi, fermandosi di tratto in tratto, incantata, ora per ascoltare
nell'attonito silenzio dei piani, ove qualche filo d'erba vicino
abbrividiva alla frescura dell'aria, il canto dei galli, che si
chiamavano da un'aja all'altra; ora per ammirare qualche masso
tigrato di gromme verdi, o il velluto del lichene sul vecchio
tronco stravolto di qualche olivo saraceno.
Ah, lì, così vicina alla terra,
si sarebbe presto rifatta un'altr'anima, un altro modo di pensare e
di sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie del mezzadro
che si mostrava così lieta di tenerle compagnia e che già le aveva
insegnato tante cose della campagna, tante cose pur così semplici
della vita e che ne rivelano tuttavia un nuovo senso profondo,
insospettato.
Il mezzadro, invece, era
insoffribile: si vantava d'aver idee larghe, lui: aveva girato il
mondo, lui; era stato in America, otto anni a Benossarie; e non
voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile
zappaterra. Da tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole;
voleva dargli «un po' di lettera», diceva, per poi spedirlo in
America, là, nel gran paese, dove senza dubbio avrebbe fatto
fortuna.
Gerlando aveva diciannove anni e
in tredici di scuola era arrivato appena alla terza tecnica. Era un
ragazzone rude, tutto d'un pezzo. Quella fissazione del padre
costituiva per lui un vero martirio. Praticando coi compagni di
scuola, aveva preso, senza volere, una cert'aria di città, che però
lo rendeva più goffo.
A forza d'acqua, ogni mattina,
riusciva a rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi una riga da un
lato; ma poi quei capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti e
irsuti di qua e di là, come se gli schizzassero dalla cute del
cranio; anche le sopracciglia pareva gli schizzassero poco più giù
dalla fronte bassa, e già dal labbro e dal mento cominciavano a
schizzare i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti.
Povero Gerlando! faceva compassione, così grosso, così duro, così
ispido, con un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una
camicia, certe mattine, per scuoterlo dai saporiti sonni profondi,
di porcellone satollo e pago, e avviarlo ancora intontito e
barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina città; al suo
martirio.
Venuta in campagna la signorina,
Gerlando le aveva fatto rivolgere dalla madre la preghiera di
persuadere al padre che la smettesse di tormentarlo con questa
scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne poteva
più!
E difatti Eleonora s'era provata
a intercedere; ma il mezzadro, - ah, nonononò - ossequio, rispetto,
tutto il rispetto per la signorina; ma anche preghiera di non
immischiarsi. Ed allora essa, un po' per pietà, un po' per ridere,
un po' per darsi da fare, s'era messa ad ajutare quel povero
giovanotto, fin dove poteva.
Lo faceva, ogni dopo pranzo,
venir su coi libri e i quaderni della scuola. Egli saliva
impacciato e vergognoso, perché s'accorgeva che la padrona prendeva
a goderselo per la sua balordaggine, per la sua durezza di mente;
ma che poteva farci? il padre voleva così. Per lo studio, eh, sì:
bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse
trattato d'atterrare un albero, un bue, eh perbacco... - e Gerlando
mostrava le braccia nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso
di denti bianchi e forti...
Improvvisamente, da un giorno
all'altro, ella aveva troncato quelle lezioni; non aveva più voluto
vederlo; s'era fatto portare dalla città il pianoforte e per
parecchi giorni s'era chiusa nella villa a sonare, a cantare, a
leggere, smaniosamente. Una sera, in fine, s'era accorta che quel
ragazzone, privato così d'un tratto dell'ajuto di lei, della
compagnia ch'ella gli concedeva e degli scherzi che si permetteva
con lui, s'appostava per spiarla, per sentirla cantare o sonare: e,
cedendo a una cattiva ispirazione, aveva voluto sorprenderlo,
lasciando d'un tratto il pianoforte e scendendo a precipizio la
scala della villa.
-
Che fai lì?
-
Sto a sentire...
-
Ti piace?
-
Tanto, sì signora... Mi sento
in paradiso.
A questa dichiarazione era
scoppiata a ridere; ma, all'improvviso, Gerlando, come sferzato in
faccia da quella risata, le era saltato addosso, lì, dietro la
villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone
aperto lassù.
Così era stato.
Sopraffatta a quel modo, non
aveva saputo respingerlo; s'era sentita mancare - non sapeva più
come - sotto quell'impeto brutale e s'era abbandonata, sì, cedendo
pur senza voler concedere.
Il giorno dopo, aveva fatto
ritorno in città.
E ora? come mai Giorgio non
entrava a svergognarla? Forse il D'Andrea non gli aveva detto ancor
nulla: forse pensava al modo di salvarla. Ma come?
Si nascose il volto tra le mani,
quasi per non vedere il vuoto che le s'apriva davanti. Ma era pur
dentro di lei quel vuoto. E non c'era rimedio. La morte sola.
Quando? come?
L'uscio, a un tratto, s'aprì, e
Giorgio apparve su la soglia scontraffatto, pallidissimo, coi
capelli scompigliati e gli occhi ancora rossi di pianto. Il
D'Andrea lo teneva per un braccio.
-
Voglio sapere questo
soltanto, - disse alla sorella, a denti stretti, con voce
fischiante, quasi scandendo le sillabe: - Voglio sapere chi è
stato.
Eleonora, a capo chino, con gli
occhi chiusi, scosse lentamente il capo e riprese a
singhiozzare.
-
Me lo dirai, - gridò il
Bandi, appressandosi, trattenuto dall'amico. - E chiunque sia, tu
lo sposerai!
-
Ma no, Giorgio! - gemette
allora lei, raffondando vie più il capo e torcendosi in grembo le
mani. - No! non è possibile! non è possibile!
-
È ammogliato? - domandò lui,
appressandosi di più, coi pugni serrati, terribile.
-
No, - s'affrettò a risponder
lei. - Ma non è possibile, credi!
-
Chi è? - riprese il Bandi,
tutto fremente, stringendola da presso. - Chi è? subito, il
nome!
Sentendosi addosso la furia del
fratello, Eleonora si strinse nelle spalle, si provò a sollevare
appena il capo e gemette sotto gli occhi inferociti di lui:
-
Non posso dirtelo...
-
Il nome, o t'ammazzo! -
ruggì allora il Bandi, levando un pugno sul capo di lei. Ma il
D'Andrea s'interpose, scostò l'amico, poi gli disse
severamente:
-
Tu va'. Lo dirà a me.
Va', va'...
E lo fece uscire, a forza, dalla
camera.
III
Il fratello fu
irremovibile.
Ne' pochi giorni che occorsero
per le pubblicazioni di rito, prima del matrimonio, s'accanì nello
scandalo. Per prevenir le beffe che s'aspettava da tutti, prese
ferocemente il partito d'andar sbandendo la sua vergogna, con
orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo
commiseravano.
Gli toccò, tuttavia, a combattere
un bel po' col mezzadro, per farlo condiscendere alle nozze del
figliuolo.
Quantunque d'idee larghe, il
vecchio, dapprima, parve cascasse dalle nuvole: non voleva creder
possibile una cosa simile. Poi disse:
-
Vossignoria non dubiti: me lo
pesterò sotto i piedi; sa come? come si pigia l'uva. O piuttosto,
facciamo così: glielo consegno, legato mani e piedi; e Vossignoria
si prenderà tutta quella soddisfazione che vuole. Il nerbo, per le
nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta tre giorni
in molle, perché picchi più sodo.
Quando però comprese che il
padrone non intendeva questo, ma voleva altro, il matrimonio,
trasecolò di nuovo:
-
Come! Che dice, Vossignoria?
Una signorona di quella fatta col figlio d'un vile zappaterra? E
oppose un reciso rifiuto.
-
Mi perdoni. Ma la signorina
aveva il giudizio e l'età; conosceva il bene e il male; non doveva
far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare? Se lo tirava
su in casa tutti i giorni. Vossignoria m'intende... Un
ragazzaccio... A quell'età, non si ragiona, non si bada... Ora ci
posso perdere così il figlio, che Dio sa quanto mi costa? La
signorina. Con rispetto parlando, gli può esser madre...
Il Bandi dovette promettere la
cessione in dote del podere e un assegno giornaliero alla
sorella.
Così il matrimonio fu stabilito;
e, quando ebbe luogo, fu un vero avvenimento per quella
cittaduzza.
Parve che tutti provassero un
gran piacere nel far pubblicamente strazio dell'ammirazione, del
rispetto per tanti anni tributati a quella donna; come se tra
l'ammirazione e il rispetto, di cui non la stimavano più degna, e
il dileggio, con cui ora la accompagnavano a quelle nozze
vergognose, non ci potesse esser posto per un po' di
commiserazione.
La commiserazione era tutta per
il fratello; il quale, s'intende, non volle prender parte alla
cerimonia. Non vi prese parte neanche il D'Andrea, scusandosi che
doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero
Giorgio.
Un vecchio medico della città,
ch'era già stato di casa dei genitori d'Eleonora, e a cui il
D'Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i fumi e le
sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte
della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un
altro vecchio, suo amico, per secondo testimonio.
Con essi Eleonora si recò in
vettura chiusa al Municipio; poi in una chiesetta fuorimano, per la
cerimonia religiosa.
In un'altra vettura era lo sposo,
Gerlando, torbido e ingrugnato, coi genitori.
Questi, parati a festa, stavano
su di sé, gonfi e serii, perché, alla fin fine, il figlio sposava
una vera signora, sorella d'un avvocato, e gli recava in dote una
campagna con una magnifica villa, e denari per giunta. Gerlando,
per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii.
Al podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n'intendeva. La
sposa era un po' anzianotta? Tanto meglio! L'erede già c'era per
via. Per legge di natura ella sarebbe morta prima, e Gerlando
allora sarebbe rimasto libero e ricco.
Queste e consimili riflessioni
facevano anche, in una terza vettura, i testimonii dello
sposo,
contadini amici del padre, in
compagnia di due vecchi zii materni. Gli altri parenti e amici
dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa, tutti parati a
festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le
mantelline nuove e i fazzoletti dai colori più sgargianti, le
donne; giacché il mezzadro, d'idee larghe, aveva preparato un
trattamento proprio coi fiocchi.
Al Municipio, Eleonora, prima
d'entrare nell'aula dello Stato civile, fu assalita da una
convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio
coi parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico
lo pregò di non farsi scorgere, di star lontano, per il
momento.
Non ben rimessa ancora da quella
crisi violenta, Eleonora entrò nell'aula; si vide accanto quel
ragazzo, che l'impaccio e la vergogna rendevano più ispido e goffo;
ebbe un impeto di ribellione; fu per gridare: «No! No!» e lo guardò
come per spingerlo a gridar così anche lui. Ma poco dopo dissero sì
tutti e due, come condannati a una pena inevitabile. Sbrigata in
gran fretta l'altra funzione nella chiesetta solitaria, il triste
corteo s'avviò alla villa. Eleonora non voleva staccarsi dai due
vecchi amici; ma le fu forza salire in vettura con lo sposo e coi
suoceri.
Strada facendo, non fu scambiata
una parola nella vettura.
Il mezzadro e la moglie parevano
sbigottiti: alzavano di tanto in tanto gli occhi per guardar di
sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno sguardo e riabbassavano
gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in sé,
aggrottato.
In villa, furono accolti con uno
strepitoso sparo di mortaretti e grida festose e battimani. Ma
l'aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati,
per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente,
che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli
sposalizi.
Chiese presto licenza di
ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante la
villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s'arrestò
di botto, su la soglia: - Lì? con lui? No! Mai! Mai! - E, presa da
ribrezzo, scappò in un'altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a
sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con
tutt'e due le mani.
Le giungevano, attraverso
l'uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano di là
Gerlando, lodandogli, più che la sposa, il buon parentado che aveva
fatto e la bella campagna.
Gerlando se ne stava affacciato
al balcone e, per tutta risposta, pieno d'onta, scrollava di tratto
in tratto le poderose spalle.
Onta sì, provava onta d'esser
marito a quel modo, di quella signora: ecco! E tutta la colpa era
del padre, il quale, per quella maledetta fissazione della scuola,
lo aveva fatto trattare al modo d'un ragazzaccio stupido e inetto
dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi
scherzi che lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n'era
venuto. Il padre non pensava che alla bella campagna. Ma lui, come
avrebbe vissuto d'ora in poi, con quella donna che gl'incuteva
tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna e il
disonore? Come avrebbe ardito d'alzar gli occhi in faccia a lei? E,
per giunta, il padre pretendeva ch'egli seguitasse a frequentar la
scuola! Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva
venti anni più di lui, la moglie, e pareva una montagna,
pareva...
Mentre Gerlando si travagliava
con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano a gli
ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l'uno e l'altra entrarono
trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata. Il
servizio da tavola era stato fornito per l'avvenimento da un
trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due
camerieri per servire il pranzo.
Il mezzadro venne a trovar
Gerlando al balcone e gli disse:
-
Va' ad avvertire tua
moglie che a momenti sarà pronto.
-
Non ci vado, gnornò! -
grugnì Gerlando, pestando un piede. - Andateci voi.
-
Spetta a te, somarone!
- gli gridò il padre. - Tu sei il marito: va'!
-
Grazie tante... Gnornò!
non ci vado! - ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi. Allora il
padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno
spintone.
-
Ti vergogni, bestione?
Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va'! È tua moglie! I
convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a
andare.
-
Che male c'è? Le dirai che
venga a prendere un boccone...
-
Ma se non so neppure come
debba chiamarla! - gridò Gerlando, esasperato.
Alcuni convitati scoppiarono a
ridere, altri furono pronti a trattenere il mezzadro che s'era
lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli guastava
così la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa.
-
La chiamerai col suo nome
di battesimo, - gli diceva intanto, piano e persuasiva, la madre. -
Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua
moglie? Va', figlio mio, va'... E, così dicendo, lo avviò alla
camera nuziale.
Gerlando andò a picchiare
all'uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese. Silenzio. Come
le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu, così alla prima? Ah,
maledetto impiccio! E perché, intanto, ella non rispondeva? Forse
non aveva inteso. Ripicchiò più forte. Attese. Silenzio.
Allora, tutto impacciato, si
provò a chiamare a bassa voce, come gli aveva suggerito la madre.
Ma gli venne fuori un Eneolora così ridicolo, che subito, come per
cancellarlo, chiamò forte, franco:
-
Eleonora!
Intese alla fine la voce di lei
che domandava dietro l'uscio di un'altra stanza:
-
Chi è?
S'appressò a quell'uscio, col
sangue tutto rimescolato.
-
Io, - disse - io Ger...
Gerlando... È pronto.
-
Non posso, - rispose lei.
- Fate senza di me. Gerlando tornò in sala, sollevato da un gran
peso.
-
Non viene! Dice che non
viene! Non può venire!
-
Viva il bestione! -
esclamò allora il padre, che non lo chiamava altrimenti. - Le hai
detto ch'era in tavola? E perché non l'hai forzata a venire?
La moglie s'interpose: fece
intendere al marito che sarebbe stato meglio. forse, lasciare in
pace la sposa, per quel giorno. I convitati approvarono.
-
L'emozione... il disagio...
si sa!
Ma il mezzadro che s'era inteso
di dimostrare alla nuora che, all'occorrenza, sapeva far l'obbligo
suo, rimase imbronciato e ordinò con mala grazia che il pranzo
fosse servito.
C'era il desiderio dei piatti
fini, ch'ora sarebbero venuti in tavola, ma c'era anche in tutti
quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo che
vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro
bicchieri di diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e
coltellini, e certi pennini, poi, dentro gl'involtini di
cartavelina.
Seduti ben discosti dalla tavola,
sudavano anche per i grevi abiti di panno della festa, e si
guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall'insolita
pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori
della campagna per prendere quelle forchette d'argento (la piccola
o la grande?) e quei coltelli, sotto gli occhi dei camerieri che,
girando coi serviti, con quei guanti di filo bianco incutevano loro
una terribile soggezione.
Il mezzadro, intanto, mangiando,
guardava il figlio e scrollava il capo, col volto atteggiato di
derisoria commiserazione: